U n fiume innominato del Canavese ha straripato: l’acqua ha invaso carreggiate, estirpato alberi e minacciato l’abitato di Spina, frazione fittizia dell’altrettanto immaginario comune di Fulché. La giunta sancisce l’urgenza di un nuovo argine e l’ente pubblico incaricato dei lavori, intanto, è al dissesto dopo l’arresto di quindici quadri accusati di corruzione, concussione e turbativa d’asta. Solo direttori dei lavori interni dovranno spartirsi gli incarichi approvati, e l’ingegnera Caterina Formica sceglie proprio il progetto per la difesa dalle acque dell’abitato di Spina. Eppure il secondo romanzo di Veronica Galletta, Nina sull’argine (minimum fax, 2021) non è, per fortuna, una parabola di emancipazione femminile, né una favola di rivalsa e faticosa conquista della propria carriera in un settore per tradizione maschile.
Nina sull’argine non insiste sul disagio della differenza: consapevole del paesaggio culturale in cui si muove, Caterina, e con lei Galletta, opta per la sopravvivenza, l’adattamento e la dilatazione piuttosto che per la giustizia, o per la sfida. La prosa asciugata rispetto al denso esordio Le isole di Norman (Italo Svevo, 2020), Galletta si permette, in Nina, più libertà, e per sottrazione traccia una trama minimale all’interno di un progetto cronologicamente rigoroso. Dall’inizio dei lavori il 2 agosto 2005 al collaudo un anno dopo, Caterina – ingegnere sui verbali e Nina solo nel titolo, e nei suoi pensieri privati – si divide tra il cantiere, l’ufficio e il suo appartamento. Un impianto scarno per una storia che scorre inesorabile, senza ricercare l’impennata o rincorrere lo stupore: l’effetto è ritemprante, e la ripresa di Caterina non meno significativa per il fatto di non essere uno scatto di carriera o un nuovo amore.
Certo che Caterina si muove con la paranoia dell’impostora nell’ambiente dell’ingegneria idraulica, Galletta – anch’essa per formazione ingegnera – non ha bisogno di reiterarlo per evocarne lo straniamento. Eppure il romanzo non risulta meno acuminato, nonostante limiti a poche battute (ma in apertura) il riconoscimento delle difficoltà particolari di Caterina, in quanto donna, in quanto siciliana al nord, in quanto professionista giovane.
Caterina vive sempre questo doppio sentimento. Da una parte la voglia di mettersi di traverso, in un mondo in cui non sa mai bene come collocarsi. Poco esperta, eccessivamente qualificata, ha studiato troppo, e le cose sbagliate. Dall’altra la voglia di ritirarsi, di nascondersi. Come se ci fossero sempre due Caterina. Una parla e l’altra la prega di stare zitta. Chiude gli occhi, li riapre. Si sente soffocare dentro i cattivi pensieri.
Il paradosso della quotidianità di Caterina è radicato, in ogni caso, nel nugolo di uomini – geometri, assessori, operai, sovrintendenti, capomastri, ingegneri – che impegnano la sua giornata di lavoro, o meglio, nello scarto di solitudine che l’accompagna. Nessuna collega con cui confrontarsi – aleggia, al massimo, la figura semi-mitologica della soprintendente che pretende di essere chiamata architetta –, ma soprattutto, nessuna amica, o amico, e neppure partner. La solitudine serale di Caterina funziona un po’ da eremitaggio, un po’ da rifugio necessario: rimastole appartamento e gatta che condivideva con il compagno di anni, Pietro, il riposo quotidiano diventa una parentesi che Galletta sfrutta per mettere a fuoco – senza mai svelare – la vita passata di Nina.
Caterina quel pomeriggio si è sentita a casa. La cosa più simile alla compagnia che abbia avuto negli ultimi mesi. Ora che dicembre è passato, ora che la casa è finalmente libera dagli scatoloni e dagli ultimi oggetti rimasti, ora che è passato anche il Natale con il suo carico di doveri, di comportamenti imposti, si sente un po’ più leggera. Per le vacanze ha detto a suo padre che andava da alcuni amici in zona, e ha detto ai pochi amici che frequenta che sarebbe andata da suo padre, in Sicilia. Così si è concessa di restare a casa, sul divano, con Nerina sulle ginocchia, senza pensare a nulla.
Solo sulla pagina la pausa controbilancia – in tempi narrativi – la lista di incombenze, calcoli, carte, riunioni, permessi che Nina affronta giorno dopo giorno. Una mole di lavoro immensa, che semplicemente non è traducibile in termini letterari. E ben oltre l’orpello del genere, il sentore, leggendo Nina, è che la massima apprensione sia rivolta al quesito “che cos’è il lavoro?”, prima ancora che l’attenzione si soffermi sul nervosismo professionale che tocca i giorni della protagonista.
Quando Galletta chiede che cosa è lavoro, non insegue la denuncia, ma coglie i suggerimenti visibili di sbieco negli effetti che fatiche, sforzi e impegno hanno sulle persone. Lo stress nel manovrare una gru che solleva tonnellate di piloni a T. Raccogliere stagioni intere di amarene sorreggendosi solo sulle proprie gambe. Il peso della responsabilità dell’ingegnere che firma le carte del progetto. La corrosione di anni spesi in cucina a sfornare frittelle di riso, parmigiane di melanzane e crostate di frutta. Uno sfiancamento invisibile anche a chi lo condivide in prima persona, e che resta perlopiù taciuto, sotterrato, specialmente quando il lavoro minaccia, o addirittura sfocia nella morte bianca.
Il loro è un lavoro difficile, che richiede un approccio impersonale. Ci sono ruoli, incarichi, compiti ben precisi e definiti, regolati da una normativa molto chiara in alcune parti, del tutto nebulosa in altre. Le zone d’ombra sono create ad arte, di questo Caterina è convinta. Una raffinata sovrapposizione di chiaroscuri che rendono i confini inapplicabili, e quindi le deroghe imprescindibili. I rapporti con le imprese sono fatti di ordini scritti, firmati per presa visione, questo dice la norma. Ferrei, asettici, qualunque cosa accada. Non c’è scritto in nessun comma di nessun articolo di nessun decreto come trattare con la controparte quando le vite si incrociano, e si deve trattare con gli esseri umani. Per fortuna stanno arrivando le travi.
La presenza oppressiva e assillante, come impone la professione, degli uomini al cantiere non tocca mai Caterina, la quale oltre alla concentrazione infusa ai calcoli del progetto concede attenzione esclusivamente a presenze impalpabili, e perennemente altrove. Pietro, ovviamente, e il crepacuore da curare, ma sempre più insistente via via che la storia procede c’è Antonio, operaio che compare sempre e solo a cantiere deserto. Un vero e proprio fantasma, incastrato nel corsivo dei capitoli Novembre, il mese in cui è morto, al lavoro in cantiere, in nero, a pochi giorni dalla pensione. Si tratta di uno spettro gentile, la cui apparizione non turba affatto Caterina, ma che nemmeno riorienta il romanzo da un realismo tecnico a uno magico.
Chi di voi ha letto Cent’anni di solitudine?, aveva chiesto il professore di Idraulica fluviale il primo giorno di lezione. Caterina aveva alzato la mano, unica in tutta l’aula, emozionata nel trovare un punto di contatto che non fossero le equazioni di Navier-Stokes o il diagramma di Moody. Lei che lo ha letto, aveva detto il professore, mi dica: di che forma sono le pietre del fiume di Macondo? Caterina era rimasta in silenzio, pentita di aver alzato la mano. A forma di uova di dinosauro, così sono le pietre del fiume di Macondo, aveva detto il professore. Caterina aveva fatto sì con la testa, facendo finta di ricordare, ma il professore non le badava già più. Si era girato verso la lavagna, aveva tracciato i tre assi cartesiani. Bene, in questo corso dimostreremo che non è possibile: nessun fiume modella le sue pietre a forma di uovo di dinosauro. I sassi di fiume sono ellissoidi perfetti.
Il paesaggio geolocalizzato e insieme capriccioso di Nina sull’argine può ricordare altre operazioni di trasfigurazioni del reale in letteratura. La Brianza mascherata in un esotico Maradagal in La cognizione del dolore da un altro ingegnere, Carlo Emilio Gadda; o le strade torinesi stravolte da presenze angosciose in Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria. Galletta, tuttavia, modella una storia lieve, miracolosa nel suo riuscire a rasentare depressione e paura senza rimuginarci sopra. Caterina, seppur non indenne, ne esce viva, e chi la accompagna leggendo assiste immobile da una posizione così protetta, morbida, da non capacitarsi di tutta la fatica provata e spesa per restare a galla. Caterina esce di scena e sembra quasi di non conoscerla, di dover ricominciare da capo.
Caterina fa avanti e indietro per l’anello, oramai quasi completo, cercando di dare aria ai pensieri. In certi momenti si sente sopraffare. Torna sulla provinciale. Sale in macchina, guida fino al ponte, si ferma. Accende la radio e resta là, al limitare della scarpata, ad aspettare che cali un po’ la luce.