“S tiamo forse diventando tutti centristi?”: è la domanda che implicitamente ci pone Daniele Balicco nel suo ultimo libro, una raccolta di saggi che prendono di mira la figura dell’intellettuale contemporaneo, pur senza dirlo. Il senso è che le scienze culturali del presente sembrano inefficaci di fronte alla finanziarizzazione dell’economia, al progressivo avvolgimento di ogni pratica culturale in logiche mercantilistiche. Agli scrittori e agli accademici non resta, in questo scenario, che ridursi a meri registratori di numeri e fatti e, nella migliore delle ipotesi, a intrattenitori creativi di un pubblico sempre più rinunciatario e anti-utopico. Sembrerebbe il solito richiamo all’indignazione e all’impegno. In realtà, la questione è più complicata e affascinante di come l’ho appena sintetizzata.
Nelle 176 pagine di Nietzsche a Wall Street (Quodlibet) Balicco traccia una trama fatta di appropriazioni e tradimenti, in cui il filo conduttore è l’abilità innata del capitalismo contemporaneo di assorbire ogni corrente culturale che si oppone ad esso, e a trasformarla in un’arma a doppio taglio: interno, cioè funzionale alla “competizione infra-capitalistica”; ed esterno, puntato “contro il lavoro vivo”. Tesi in fondo non dissimile rispetto al Realismo capitalista teorizzato da Mark Fisher, ma che ripensa sviluppo e conflitto interiore partendo dalla letteratura. Il risultato è che ogni accenno di contestazione e diversità viene masticato e digerito, assimilato come una delle tante forme congeniali allo sfruttamento reciproco, ridicolizzato nella sua insignificanza nei meccanismi complessi del mondo. Troppo pessimismo? Vediamo.
Balicco, professore di letteratura e filosofia, redattore culturale e collaboratore del blog Le parole e le cose, divide qui i suoi dieci saggi in tre sezioni tematiche. La prima è dedicata alla mutazione politica e antropologica in corso. Il testo che dà il titolo al libro è un omaggio (“e soprattutto un tradimento”) a Lenin in Inghilterra, editoriale storico di Mario Tronti, stella polare dell’operaismo italiano, su Classe operaia nel 1964. È dedicato alle contraddizioni della teoria dominante, quella franco americana, e al modo in cui ha esportato il pensiero nietzschiano. Si parte dal surrealismo francese del secondo Dopoguerra, la sua metamorfosi da corrente d’avanguardia legata strettamente al partito comunista a “dominante culturale e alfabeto della comunicazione di massa”, con Bataille e Klossowski che vogliono salvare Nietzsche dai fraintendimenti dei nazisti e dalle scomuniche della sinistra, e però finiscono involontariamente per consegnarlo alla French Theory americana degli anni Settanta, Ottanta, alla costruzione ideologica di Baudrillard che farà del filosofo maudit, del critico radicale del conformismo borghese un deposito estetico piuttosto cheap.
Balicco sottolinea l’impatto fondamentale che il “surrealismo nietzscheano” ha avuto, oltre che sull’università, sui circuiti sperimentali della creatività urbana, in particolare newyorchese. Fanno qui comparsa il mondo dell’alta finanza speculativa e del mercato impazzito dell’arte; il concetto di superomismo che viene piegato dall’architettura decostruttivista di Hadid, Koolhas e Gehry, ma anche al neoconcettualismo kitsch di Koons e Sharman, e ovviamente alla “distruzione creatrice” di Wall Street (Gordon Gekko insegna). Più che surrealismo, si tratta di nichilismo edonista, mentre la politica come spazio comune e discorso condiviso viene distrutto, e si assiste alla modernizzazione regressiva della “classe media illuminata”, e il suo arroccarsi nella forma estetica, dove tutto è “immanente, plastico, superficiale, malleabile e pacificato.” Il problema è che in questi territori critici basta un passo di troppo e si finisce col fare i moralisti.
Forse, come durante l’era Berlusconi, ci rendiamo conto di essere così influenzati dal linguaggio anni Ottanta dell’edonismo generalizzato – che ci è stato venduto al prezzo di un colossale debito pubblico – che anche a sinistra siamo ormai incapaci di immaginare mondi o linguaggi alternativi. C’è da dire che quel mondo continua a perseguitarci: del resto, dov’è che ha le sue radici ideologiche, l’attuale presidente americano, se non nel Donald Trump laico, laido e buffonescamente progressista che faceva le sue fortune (e bancarotte) nella New York della Nietzsche Renaissance 2.0? Balicco ci ricorda che persino Baudrillard, che di questo giochino ideologico fu uno dei mentori, si accorse poco prima di morire che l’arte contemporanea era diventata una paradossale pratica mimetica, un atto di volontaria e colpevole complicità con “l’insignificanza e l’indifferenza generale”. Cosa avrebbe detto il filosofo parigino dei meme, ovvero l’arte forse più rappresentativa della classe creativa degli anni Dieci?
Nella sezione intermedia, intitolata modelli, sono raccolti quattro saggi dedicati a intellettuali politici del secondo Dopoguerra: Franco Fortini, Giovanni Arrighi, Edward W. Said e Fredric Jameson. Di Fortini si prende in esame in particolare La verifica dei poteri, testo-chiave del 1965 (anche lì periodo spartiacque, tra fine del boom e prime crisi) in cui il poeta si scaglia contro la propensione sedativa dell’industria culturale, e invita (per usare le parole di Alberto Rollo) a “percepire i vuoti d’aria dove più la società sembra compatta e soda”, per “disarmare il discorso del nemico.” “Ciò che accomuna il lavoro di questi pensatori,” scrive Balicco,
è il tentativo di interpretare le metamorfosi del capitalismo contemporaneo attribuendo – con la sola esclusione di Arrighi – un ruolo decisivo alla dimensione estetica e alla letteratura, vera alleata di qualsiasi percorso conoscitivo che abbia al suo centro la liberazione del soggetto come autoformazione critica.
L’ultima sezione del libro è dedicata alla modernità italiana, ed è uno sforzo per decifrarla, di capire le sue qualità specifiche, se esistono: “per ripensare, in un’età di profonda crisi identitaria, la forma singolare che ha assunto, nel bene e nel male, il nostro modo di essere moderni.” Tra i tre saggi raccolti ce n’è uno dedicato alla riedizione di Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa (1965), noto critico della cultura nazionalepopolare, che ad un certo punto decise di defilarsi, ma con stile, scrivendo contro Gramsci e l’eterna vena populistica che, includendo anche Pasolini, avrebbe a suo dire impedito la nascita di una democrazia matura e una cultura realmente rivoluzionaria.
La principale qualità di Nietzsche a Wall Street è forse involontaria rispetto alle intenzioni dell’autore – che dice di essersi dedicato alla trasformazione del capitalismo contemporaneo e delle sue forme simboliche (“mutazione antropologica, surrealismo di massa, verosimiglianza come imposizione di forza sistemica”); si tratta, invece, soprattutto di un esperimento cartografico, che ci fa interrogare sui limiti del nostro intervento culturale, sulla necessità di stabilire nuove coordinate, nuovi patti non scritti tra scrittori e referenti. Dove sono – se ci potranno mai essere – gli Scrittori e Popolo o La verifica dei poteri del 2018? I tempi sono maturi.
Secondo Balicco, i dieci saggi raccolti nel libro possono essere osservati “come referto di una generazione che ha iniziato a fare ricerca, senza rendersene subito conto, come parte essenziale di un nuovo e sterminato esercito intellettuale di riserva”, che oggi “si trova a dover affrontare un lavoro di studio e di scrittura per lo più privo di riconoscimento sociale, remunerazione economica e di radicamento politico”. L’autore ci chiede di tenerne conto.
Per questo motivo, gli perdoniamo alcuni scivoloni (quando ammicca a presunte responsabilità della Cia sul rapimento Moro) e alcune considerazioni en passant un po’ dozzinali (quando sembra credere all’idea che il populismo contemporaneo possa impensierire la cattiva coscienza del “patriziato finanziario transnazionale”). È impossibile non notare lo sdoppiamento tra il Balicco saggista attento e doloroso, e il Balicco diffusore di tesi vagamente complottiste o dal retrogusto “gentista”; o forse, più che uno sdoppiamento, è la naturale conseguenza di uno smarrimento: quello dell’intellettuale che non riesce ad acquisire una disciplina di sé perché non è più intermediario di niente; che ha molto meno da perdere, ma potenzialmente, proprio per questo, molte più cose da dire.