U n giorno, quando era ancora piccola, Margo Jefferson è andata da sua madre e le ha chiesto se la sua famiglia appartenesse alla classe elevata. A giudicare dal contegno adottato della madre, sapeva che stava per ricevere un insegnamento sulle liturgie della classe e della razza. “Ci consideriamo Negri della classe elevata e al contempo americani dell’alta borghesia” le aveva risposto, “ma per la gran parte della gente noi siamo ‘Negri come tutti gli altri’”.
Noi, loro e gli altri: chi decide a quale categoria apparteniamo? Qual è il noi a cui si riferisce Margo? Parla di come si forma un’identità, parla di razza, classe e sesso, Negroland (66th&2nd, traduzione di Sara Antonelli), il memoir che Margo Jefferson dedica a “la piccola regione dell’America Negra” da cui proviene, quella “i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi”. Figlia di un importante dottore di Chicago e di una donna della buona società, Jefferson, critica letteraria del New York Times, fa parte, di diritto, dell’alta borghesia nera: la terza razza, come la chiama lei, un circolo chiuso in cui solo l’élite afroamericana è ammessa.
Eccezionali, talentuosi, irripetibili: ecco chi sono gli altri membri del club, sindaci, medici, avvocati, sono loro i prescelti per portare avanti le cause della loro gente, per illuminare ed emancipare un intero popolo (perché, s’intende, il loro popolo deve provare il proprio valore agli occhi dei bianchi, riscattare la propria segregazione come se questa non fosse stata imposta). Salvo che, una volta arrivati in quella posizione, questi uomini e queste donne vogliano fare di tutto, tranne che tornare essere come gli altri.
No, si dicono, mi sono guadagnato il diritto di badare agli affari che mi consentono una vita agiata – di tener fede ai miei doveri professionali, alle mie aspirazioni sociali, alle responsabilità familiari. Non voglio pensare costantemente a Loro come se fossero Noi.
Quando la madre si preoccupa che alla figlia, iscritta in una scuola mista, dove frequenta amiche bianche che si chiamano Carolyn, non venga instillato l’orgoglio intellettuale della sua razza, inizia a farle lezione di cultura nera, citandole tutti i risultati eccezionali raggiunti dai loro amici, come se per accettare di essere neri, bisognasse almeno dirsi speciali. Quale privilegio troveresti più facile da sopportare? chiede Margo, pensando alla donna di servizio che i suoi genitori hanno assunto:
preferiresti osservare le persone per cui fai tutto questo e pensare: Se il mio futuro resterà uguale al mio passato non sarò mai al posto loro. Oppure preferiresti osservare il tuo datore di lavoro e pensare: Beh, se fossi andata a scuola come il dottor Jefferson e sua moglie, se a quindici anni, dopo che ci siamo trasferiti qui dal Mississippi, non fossi stata costretta ad andare a fare le pulizie per dare una mano in famiglia, allora al posto loro potrei starci io.
“A volte quasi mi dimentico di essere Negra. Non male, vero? Tanti saluti a Taft e ai tuoi.” aveva scritto sua madre ad un’amica nel 1946: è a questo che si riduce, in fondo, il loro privilegio, non all’eguaglianza, ma all’oblio temporaneo della propria persona, alla condiscendenza con cui i bianchi li accolgono tra le loro fila in un gesto di discriminazione mascherato da magnanimità. A sua madre e suo padre, a tutti loro di Negroland era toccato strisciare per strappare il privilegio e poi l’avevano “dovuto trangugiare in fretta mentre quelli che avrebbero voluto sottrarglielo guardavano da un’altra parte”, perché adesso dovevano far la fatica di sollevare tutti gli altri dal loro stato di minorità?
Cosa accade se la tua vita non è toccata dall’ingiustizia, o almeno non così profondamente, da poterti permetterti di avere “amici di scuola” e “amici di fuori”, un modo elegante con cui la piccola Margo distingue bianchi e neri, o di andartene da un hotel se il trattamento è meno che equo? Cosa deve accadere perché tu possa accedere a una coscienza di classe, come si può vivere nel mondo di mezzo, nella terza razza? Margo Jefferson racconta l’età d’oro di Negroland e di come, quando arrivano gli anni ‘60 e poi i ‘70, i diritti acquisiti in quella strana terra non contino più e loro finiscano per non rappresentare più “quanto di meglio si sapeva e si pensava sulla vita e la storia nera”, ma “una forma corrotta della Razza, una forma ingiustificatamente deviata. Avevamo accettato di diventare un mezzo per opprimere la comunità nera”. Avevano tradito gli ideali e adesso ne pagavano le conseguenze: “il tuo retroterra, i tuoi vantaggi si insinuano nelle riunioni, durante una conversazione politica, in classe. Fai di tutto per cancellarli dalle tue dichiarazioni di intellettuale, e loro rispuntano nel modo in cui ti esprimi.”
Negroland è la storia del senso di colpa di chi è si è trovato a essere troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri, senza la possibilità di piangere la propria posizione, di chi si è riappropriato della propria storia, dovendola quasi imparare da capo. Margo Jefferson indaga questo terreno incerto, mettendo in scena la sua vita, il passato da ragazza pon pon e tutte le volte che invece il suo corpo è stato riconosciuto, scrutato, catalogato come nero e di come in entrambe le situazioni la propria eccezionalità o il proprio essere diversa siano stato frutto di una discriminazione, di una normazione di un corpo su cui lei non aveva diritto di legislare. Se Claudia Rankine e Ta-Nehisi Coates finiscono nella stessa reading list, Swing Time di Zadie Smith ci permette di capire quale sia il peso e l’orrore di quell’etica della perfezione e dell’impeccabilità inflitta a Margo e agli abitanti di Negroland, a cui viene richiesto di non errare, di essere eccezionali abbastanza per elevarsi sopra gli altri, ma soprattutto per non tradire gli sforzi di chi li ha preceduti. Ancora di più, se si è ragazze:
non voglio assolvere le ragazze. Anche noi giocavamo al ghetto, facevamo roteare gli occhi e li strizzavamo con disprezzo, facevamo schioccare la gomma da masticare e parlavamo in modo sguaiato. Ma erano i ragazzi a dettare legge.
“Al centro delle ossessioni razziali della nostra cultura c’era il maschio Negro. La donna Negra era confinata miseramente nelle retrovie”, spiega Margo, che così, per potersi distinguere è obbligata a un doppio grado di perfezione, come ragazza e come ragazza nera, pena il disprezzo, come quello riservato a una ragazza che rimane incinta al college e lo abbandona: “era colpevole di matricidio: aveva distrutto la buona reputazione per cui la madre, le nonne e le nonne delle sue nonne avevano lottato fin dalla schiavitù.”
Capace di complicare le categorie, di renderle non fluide, ma piuttosto incandescenti, difficili da maneggiare, come la parola che appare nel titolo e che non si sa se pronunciare o no ad alta voce, Negroland è un memoir sulla formazione di Margo Jefferson come donna borghese di colore e, infine, femminista, e di come ognuna di queste categorie identitarie sia dovuta procedere per tentativi, errori e valutazioni, di come ognuna co-dipenda dalle altre.
Ci sono giorni in cui mi viene ancora voglia di demolire questo io che mi sono costruita. Ti è venuto troppo male, rifletto. Ci hai perso troppo tempo. Ma poi mi dico: E allora?E allora?
Va’ avanti.