L
a crisi climatica, proprio in quanto crisi, è un momento di profonda risignificazione di molte cose: potremmo dire di ciò che siamo e di quello che è il mondo attorno a noi, ma non sarebbe preciso. Piuttosto, è una risignificazione delle relazioni: fra noi stessi prima di tutto e poi fra noi stessi e il mondo, fra la nostra specie e le altre, fra gli elementi che continuamente ridefiniscono la nostra identità, fra le narrazioni che raccontano la Storia e le storie, il pianeta e le comunità. Inevitabilmente questo è anche il momento in cui si ridisegnano le alleanze: certamente in termini politici, ma anche sul piano più intimo, profondo e vasto dell’immaginario. Politicamente, abbiamo imparato che tutte le lotte sono collegate come lo sono le oppressioni e abbiamo trovato una parola esatta per raccontare questo intreccio: la chiamiamo intersezionalità, e la direzione che prende è quella della giustizia climatica. Moleculocracy (NERO, 2023) dell’artista e attivista Emanuele Braga si concentra proprio su intersezioni e nuove alleanze, politica e singificato, col progetto dichiarato di “immaginare un altro mondo, produrre un’altra cosmologia”.
Per quanto riguarda l’immaginario, negli ultimi anni siamo ci impegnati a dissodare quelli in cui eravamo immersi, a rompere zolle secche, ad accogliere nuove parole muovendo e sparigliando priorità. Basti pensare al lavoro di Donna Haraway, da decenni teso a scardinare il binarismo limitato in cui ci siamo imprigionati, fra coppie di categorie come natura/cultura o naturale/artificiale ma anche uomo/donna, corpo/mente: anche queste dicotomie sono fronti collegati fra loro. In Chthulucene (2019) Haraway immaginava un mondo futuro in cui creare nuove “parentele” che attraversino i confini delle specie. Così oggi cerchiamo nuovi alleati, spesso trovandoli dove sono sempre stati, ad aspettarci come in una parabola. Li troviamo nella natura, riscoprendo di farne parte, li troviamo dentro la nostra specie, fra chi è sempre stato lì a prendersi cura di una foresta o di qualunque altro ecosistema. Alleati, ma anche esempi a cui guardare, fonti a cui ispirarsi per nutrire questo immaginario nuovo.
Anche Braga affonda le mani nel bisogno rinnovatissimo di immaginario e trova un alleato incredibile nella scienza. È da lì, e in particolare dalla biologia, dal funzionamento insomma di tutto ciò che ci sta attorno, delle piante, dei nostri corpi e delle cellule che li compongono, che prende spunto per raccontare una storia diversa del mondo e le relazioni che lo compongono. Per esempio: siamo così intrisi di darwinismo da tendere a pensare che in natura vinca il più forte, da solo. Già negli anni ’80 la biologa statunitense Lynn Margulis ha aggiunto un pezzo importante a una visione così miope della vita: più che sulla competizione, l’evoluzione si fonderebbe sulle relazioni simbiotiche fra organismi di famiglie diverse. Noi esseri umani risultiamo essere una “raffinatissima opera architettonica di batteri”, scrive Braga: “I nostri corpi sono enormi cattedrali e palazzi disegnati per far cooperare meglio e gestire processi metabolici di microrganismi che preesistevano alla nascita dei nostri regni e della nostra specie. Siamo esseri umani, siamo opera complessa di ingegneria genetica da parte di germi che volevano abitare e hanno disegnato i nostri corpi per meglio cooperare fra loro”.
Negli ultimi anni siamo ci impegnati a dissodare gli immaginari in cui eravamo immersi, a rompere le zolle secche.
Non cambia tutto? Usciti da qui, da queste poche righe o da un libro di Lynn Margulis, messa un attimo di lato la narrazione mainstream del darwinismo, resta questa visione che scardina ogni cosa. Intanto, ci liberiamo del mito dell’individuo indiviso: non siamo più uno ma un sacco di gente. E non siamo più solo soggetto perché appunto siamo tanti, fra tutti i microrganismi che ci compongono, e tutta questa gente ci mantiene in vita perché coopera. Certo, l’adattamento resta, ma qui c’è tanto di più. Se teorie come queste si riversano nell’arte, l’arte avrà da raccontare un mondo completamente diverso da quello che conosciamo. E se avremo racconti e interpretazioni nuove della realtà, queste confluiranno anche nella quotidianità, nei modi di stare insieme e di fare politica. Ciò che è vivo, è vivo grazie alla cooperazione. Quando delle cellule cominciano a fare di testa loro come quelle tumorali finiscono per uccidere l’organismo. Ed eccoci di ritorno alla crisi climatica: se una specie – quella umana – comincia a operare in maniera estrattivista finisce per far ammalare il pianeta uccidendo anche (e soprattutto) se stessa.
Un’altra immagine molto significativa Braga la prende da Laura Conti, ambientalista e medico: perché l’evoluzione ha portato noi umani a essere un insieme di moltissime cellule anziché un’unica cellula enorme? La ragione è che, nel corso della sua evoluzione, la cellula “ha evoluto la propria grandezza in funzione dei rapporti di traspirazione. Occorreva cioè avere un determinato rapporto fra volume e circonferenza per permettere che gli scambi fra molecole portatrici di ossigeno dall’esterno fossero in grado di non far fermentare i processi metabolici interni. Insomma la membrana cellulare di una sfera di 70 kg non assicura lo stesso ossigeno e la stessa traspirazione di attività metabolica a tutto ciò che avviene nel suo contenuto”. Braga usa questo esempio per raccontare che non tutti i processi sono scalabili, e non è detto che quello che funziona bene in un piccolo gruppo funzioni altrettanto bene in una struttura più grande. La soluzione nei nostri corpi è stata “decentralizzare il rapporto traspirante in tantissime piccole cellule che si interconnettono tra di loro”. Anche qui: stiamo parlando di biologia, ma potrebbe essere anche un progetto politico.
In “Moleculocracy” – che nella definizione di Braga è una “forma di governo della quale l’uomo non è più il protagonista pur facendone parte” – i processi biologici hanno molto da suggerire all’organizzazione politica delle società, e i casi presi in analisi nel libro sono molti. Per esempio, se in biologia “c’è vita laddove la struttura si mantiene in modo autonomo rispetto alle fonti energetiche”, lo stesso può valere nel mondo delle cooperative e imprese sociali. Infatti, le ONG che salvano vite nel Mediterraneo possono essere finanziate da enti molto meno virtuosi e rispettabili, eppure il loro operato non è corrotto, e questo è l’importante. Dipendono da “un sistema variegato di fonti economiche, ma nessuna di queste ne determina l’identità e l’autonomia” e quindi restano, diciamo, in salute. Quando invece una cooperativa si lascia determinare dalla sua fonte di energia perde di vista il proprio obiettivo e si snatura.
Se teorie come queste si riversano nell’arte, l’arte avrà da raccontare un mondo completamente diverso da quello che conosciamo.
Oppure: in contesti orizzontali come i collettivi, o in una società sana che potremmo immaginare per il futuro, per evitare dinamiche di privilegio di alcuni individui su altri e di “invisibilizzazione” di certi soggetti, non ci sarà, per esempio, un addetto solo alla pulizia dei bagni e uno solo a parlare in pubblico. Si crea invece un sistema di lavoro fluido, in cui ognuno può proporsi per una funzione, magari affiancandosi a chi è più esperto, e tutti sono invitati a proporsi per funzioni che sono considerate degradanti. Tutti possono sia partecipare a gruppi di studio sia occuparsi dell’orto. Allo stesso modo il biologo Jean-Jacques Kupiec, allontanandosi da una concezione deterministica dell’evoluzione cellulare, spiega che “non si possono attribuire compiti specifici alle proteine messaggere che istruiscono le funzioni vitali delle cellule. Non c’è ragione di attribuire a un pezzo di assemblaggio una sola funzione”. Braga ne deduce che “in biologia non c’è una rigida divisione del lavoro, semmai è il contrario: c’è vita solo grazie al fatto che un singolo elemento varia frequentemente forma e funzione”.
Braga ha fondato il centro sociale Macao a Milano, sgomberato nel 2021, e negli anni ha portato diversi progetti artistici in giro per l’Europa, soprattutto a Berlino. Il suo collettivo si chiama Institute of Radical Imagination e questo dice già molto del pensiero che c’è dietro. Più o meno negli stessi giorni in cui è uscito il suo libro, a inizio novembre, l’istituto ha pubblicato un manifesto dal titolo Art for Radical Ecologies in cui si afferma che “l’arte è una promessa di altri mondi, ma è nel mondo reale che le promesse devono essere mantenute partecipando alle lotte per la sua trasformazione”. Quella a cui si fa riferimento è un’arte allo stesso tempo calata profondamente nella realtà e capace di guardare oltre, di illuminare possibilità altre, già presenti ma ancora non visibili. Il manifesto aggiunge che “la distopia è privilegio”: non è più il tempo, questo, per i “discorsi apocalittici”. La crisi climatica non ci porta verso la fine del mondo, ma del mondo come lo conosciamo, e in parte, forse, è un’ottima cosa. Ciò di cui dobbiamo liberarci sono gli “immaginari tossici” del “capitalismo globale”, e possiamo farlo grazie all’arte che “ripara le temporalità e libera il futuro, aprendo orizzonti oltre il realismo e il catastrofismo capitalista”.
Moleculocracy, una sorta di manifesto a sua volta, muove un primo passo verso questa costruzione di nuovi scenari, invita a guardare con occhi diversi quello che abbiamo sempre visto e ad ascoltare le implicazioni immaginifiche delle scoperte scientifiche dell’ultimo secolo. Perché se è vero che in di straforo si parla anche a scuola delle frontiere più o meno recenti della biologia, della fisica e della chimica, il nostro immaginario rimane tenacemente intriso di darwinismo competitivo e fisica meccanica. È un retaggio della separazione fra pensiero scientifico e umanistico, ereditato dalla riforma Gentile: come se l’uno non influenzasse l’altro e come se l’altro, il pensiero umanistico, potesse esistere senza misurarsi con l’orizzonte cosmologico e scientifico del suo tempo. La crisi climatica abbatte questo muro e desidera una cosmologia ampia, al cui centro non ci sia più solo l’umano e in cui le scelte degli umani siano influenzate da ciò che sappiamo degli altri esseri (viventi e non) che condividono con noi questo pianeta. Dice sempre il manifesto Art for Radical Ecologies: “il soggetto rivoluzionario non è solo umano. Le alleanze trasversali e interspecie possono agire con forza contro i ventriloquismi, i dualismi e le gerarchie di alterazione”. È sempre di nuove alleanze che si parla per costruire un nuovo mondo.