H avana vanities come to dust in Miami, inizia così il blocco di appunti di Joan Didion sulla Miami dell’esilio cubano, pubblicato per la prima volta in Italia nel 2006 da Mondadori (primo libro di non-fiction della Didion tradotto in italiano ma con un ritardo di quasi venti anni sul reportage del 1987), e oggi ristampato dal Saggiatore, che continua la riscoperta dell’autrice condivisa con E/O. “Molti degli epiloghi dell’Avana, così come più di un prologo, hanno come teatro Miami. La Florida è quella parte del palcoscenico cubano dove avvengono le uscite declamatorie e vengono stretti gli accordi segreti, quel luogo oscuro da cui il coro aspetta di commentare lo svolgersi dei fatti, e qualche volta di entrare nel vivo dell’azione”. Il libro è scritto rapido, fitto, senza pause, con tanto di note finali e rimandi agli archivi del Miami Herald, più altri materiali da guerra fredda sparsi nel testo: conversazioni private, registrazioni, trasmissioni radio, tv, verbali, riviste, lettere e opuscoli. Big data, ma pure un reportage sovraffollato di voci, personaggi e destini, come in un enorme palazzo senza privacy: tutti incontrano tutti, prima o poi, e questi ritorni fanno di “Miami” un libro carico di nevrosi e paranoia. Anche ciò che viene deciso nelle stanze private di una città a suo agio con i complotti e il mito di Scarface, rumori di golpe e fughe di capitali, può diventare pubblico perché di tutti è il grande tema: Cuba.
Perché Joan Didion sceglie Miami? Lo rivelò alla Paris Review: le udienze del processo per l’assassinio Kennedy avevano messo in luce i contatti politici con il mondo dei caraibi, l’America Centrale e del Sud, così come molti nomi coinvolti più tardi nel Watergate avrebbero condotto di nuovo a Miami (a proposito: Libra di De Lillo esce l’anno dopo, Il racconto di Oswald di Mailer e American Tabloid di Ellroy arriveranno nel 1995). A Miami era già stato lo stesso Mailer, compagno di new journalism della Didion, in occasione della convention repubblicana del 1968 e ne aveva fatto un libro. Tom Wolfe a Miami ci ha ambientato l’ultimo romanzo, Le ragioni del sangue, immaginandola una capitale del futuro anche se in negativo. La Miami che attendeva Didion doveva essere “la città dipinta dai media e dagli spot ispirati a Miami Vice come la corrotta patria del boom economico e dei colori pastello”, invece si rivela “una capitale tropicale vicina più a Caracas e Bogotà che a New York e Los Angeles”, “spettacolarmente depressa”, con i complessi residenziali più cool abitati per metà, periodi di siccità e piscine piene, ville superblindate inaccessibili e temporali biblici che lavano le pareti dei grattacieli e abbattono le palme da banana.
La prima immagine del libro è di gente in fuga verso Miami. Mary Tarrero-Serrano, la moglie dell’ultimo presidente repubblicano Carlos Prío, sale sull’aereo dell’esilio mentre all’Avana è in atto il golpe Batista: è “molto attraente in un completo forse di seta cruda e un cappello con veletta nera, indossa guanti e orecchini, ed è fresca di trucco”. È un’immagine che avrebbe potuto scattare il fotografo più famoso dell’isola, Alberto Korda, una carriera da Richard Avedon della borghesia cubana interrotta dal ritratto icona del Che, quello delle magliette. La foto è di prima della rivoluzione. Ma quale delle rivoluzioni? si chiede Didion. Non è solo Castro che ha rovesciato il potere. Prío, che era stato scalzato da Batista, finanziò Fidel contro lo stesso Batista per poi finanziare una fallimentare operazione contro Castro.
Cuba o Miami, si parla sempre di America. Scrive Didion: “l’immagine che si dava Miami era di colori vibranti e di vizio e oscuri traffici sotto le palme, ovvero le stesse caratteristiche nella mente degli americani dell’Avana prerivoluzionaria”. E L’Avana prima dei barbudos è la città scelta da Lucky Luciano per il mega raduno delle cosche americane, è l’Avana degli investimenti solo americani, è la città che ama il baseball come Castro e la Coca Cola, è ancora prima la liberazione dalla guerra contro la Spagna grazie agli Stati Uniti che considerano da quel momento l’isola un protettorato. Certamente a Miami viene Fidel dal Messico a cercare il denaro per sconfiggere Batista, e sempre a Miami due generazioni di esuli – una comunità eterogenea di terroristi e cospiratori, malviventi e idealisti visionari – cercano le armi per combattere Castro. Ma prima di diventare anticastrista Miami è già una Casablanca: come racconta al Tascabile Luigi Spinola, ex direttore Pagina99 e una delle voci storiche di Radio3mondo:
Miami è stata molte cose, è stata la città meridionale per eccellenza, il naturale approccio a Cuba, il buen retiro di molti pensionati anche della comunità ebraica, infine una città pienamente latinoamericana con arrivi da Colombia, Messico, Venezuela e Argentina, il che la rende diversa dalle altre città ispaniche, perché a Miami gli ispanici hanno messo capitali e sono diventati classe dirigente. Credo sia l’unica città americana in cui la maggioranza dei residenti è nata all’estero. Oggi è una grande metropoli, e viene presentata come modello di esperimento multiculturale, cosa che non era negli anni del reportage della Didion e nei Novanta.
L’intero Miami è la storia di una febbre, di uno stato di alterazione vissuto dalla comunità di esuli e ispanici. Ci si aspetterebbe l’ennesimo racconto noir dove i tasselli del complotto coincidono da subito, invece Joan Didion restituisce l’affanno e la fatica degli esuli (dei duri e degli impuri, dei bombaroli e dei visionari, dei mafiosi e delle spie), le energie disperse di questo cuore ingolfato da Cuba, una dissipazione che va oltre la comprensione di qualsiasi schema e il controllo anche della politica più calcolatrice. “Miami” è il racconto di una città che è agli antipodi dell’unica altra città americana con cui Miami abbia rapporti: la Washington del potere, “la più astratta delle città, interamente assorbita dai suoi stessi messaggi, narcotizzata dalle sue stesse azioni, imbambolata nella contemplazione delle sue pedine e delle sue mosse”.
In questo stato impaziente e irrequieto in cui galleggia la città, nella Miami degli orizzonti liquidi riflessi dai grattacieli e il sangue denso dei pensieri, la stilista Didion si trova perfettamente: “la ricerca espressiva della Didion va di pari passo con una caparbia aderenza alla realtà ma questa aderenza è lontana dal naturalismo. La sua scrittura e le sue immagini sono sempre vagamente visionarie, le cose descritte sono come baluginanti, quasi da visione psichedelica”, così scriveva la Pivano nel 1984 recensendo il romanzo Democracy. Di suo Didion ci mette anche la gelida pazienza di annotare e riannodare tutto, perché a Miami le storie, anche le più piccole e private, “cambiavano bruscamente di direzione come pesci sott’acqua quando andavano a cozzare contro argomenti sommersi”. Il motore che brucia di più a Miami è l’exilio. Joan Didion ha modo di assistere ai raduni della brigata di reduci della Baia ormai usurati dal tradimento e dai decenni passati:
ciò che questi uomini avevano in comune era che prima di ogni altra cosa, erano tutti cubani, e discendevano da una specie di magia collettiva, di occulto incantesimo, da quel febbrile cumulo di risentimenti e vendette, idealizzazioni e tabù che rende l’esilio un principio organizzativo di enorme potenza. Questi uomini avevano in comune non soltanto Cuba come luogo natio, ma Cuba come concetto, e la sensazione di avere in quanto esuli, irrimediabilmente perduto i diritti che spettavano loro per nascita.
Nel libro l’exilio ritorna ovunque come un dazio, è un continuo apprendistato tra esuli che si spaccano in cento distinzioni politiche valide solo a Miami, è un termometro misurato con dibattiti, processi, linciaggi e vendette a qualsiasi ora, su qualsiasi testata, radio o foglio o salotto, persino sui giornali internazionali che rimbalzano notizie da Cuba. L’exilio – “il primo gruppo era partito perché sostenitori di Batista, il secondo perché le proprietà venivano confiscate, il terzo erano persone infelici perché non avevano il dentifricio” – va di pari passo con le promesse lanciate e disattese da Kennedy e Reagan, “rimaste nell’aria come desiderio collettivo, pura poesia”. Mano a mano nelle sue ricerche Joan Didion scopre una Miami addestrata al fallimento, una città dove “ciascuno può credere in ciò in cui ha bisogno di credere”, dove l’arte del possibile per cospiratori, visionari e controllori è un business, e vale fino a quando il governo americano scarica gli esuli cubani che si sono spinti troppo in là con le loro attività illegali e ingombranti. Solo la Cia a Miami è una colonia di dodicimila agenti, “c’erano negozi nautici e di armi, agenzie di viaggio, immobiliari, investigative, tutte della Cia”. “L’idea di Miami era corretta ma fuori controllo” – confessano a Didion – “in area latina aveva senso far base a Miami per le questioni sudamericane, era una specie di estensione del tavolo di lavoro. Se fosse stata autosufficiente avrebbe potuto funzionare come una specie di base in territorio straniero. Invece ci è scappata di mano ed è diventata un centro di potere”. Da molto tempo, inoltre, la Florida e Miami sono decisivi per vincere le elezioni presidenziali.
Fin qui le ragioni dell’esilio, ma esiste anche il torto di essere cubani a Miami. Ancora negli stessi anni Ottanta di Miami Vice, per un cronista dell’Herald la presenza degli esuli è “strabordante e incomprensibile” e soprattutto puramente decorativa. Gli esuli vengono dipinti come “venditori di banane con un sottofondo di musica latina”. Ancora prima dell’embargo a Cuba Joan Didion racconta in Miami la massima resistenza degli Stati Uniti agli esuli, tollerati come un tributo al sistema americano: “gli anglo continuavano a credere che la città in cui vivevano fosse piccola, gestibile, meridionale solo per il clima, americana e di loro proprietà. Quando invece il 56% della popolazione di Miami era ispanica, cioè in gran parte cubana”. Didion guarda tra le pagine gastronomiche dei giornali dove non compaiono mai ricette cubane e sui paraurti delle macchine dove gira l’adesivo “si prega l’ultimo americano a lasciare Miami di portare con sé la bandiera”.
Il grande esodo dal porto di Mariel del 1980 dovuto a una forte crisi economica, dove Castro lascia liberi di andare via anche i detenuti, viene raccontato alla stregua di una gelata, di un uragano, di una grande inaugurazione. Sempre nel 1980 la contea di Dade, la stessa di Miami, indice il referendum per sancire l’inglese lingua ufficiale quando invece “gli esuli che a Los Angeles e New York si sentivano spaesati ed esclusi per la lingua, a Miami si ritrovano sulla cresta dell’onda”. “È la lettura dell’America che prevede la grande distinzione tra l’America anglosassone e quella succursale della Spagna. C’è involontariamente una forma di visione postcoloniale”, spiega ancora Spinola, “rimane invece il fatto di essere tutti americani: il cileno Neruda è più vicino a Whitman di quanto lo sia lo spagnolo Garcia Lorca”.
A marzo 2017 uscirà South and West (Knopf) un volume inedito di saggi di Joan Didion, altri taccuini di soggiorni in Lousiana, Mississipi, Alabama e cronache dalla sua California. Miami, finalmente ripubblicato, resta un block notes seducente e contorto, con un finale aperto per ragioni cronologiche. Joan Didion ha provato nel 1987 a misurare la febbre cangiante dell’esilio cubano così come l’artista Christo quattro anni prima aveva impacchettato di propilene rosa undici isole della Biscayne Bay di Miami. “Sembrava che il rosa luccicasse e che con il movimento dell’acqua, delle nuvole, del sole e delle luci notturne, cambiasse continuamente di tono. Era come se per molta gente l’opera di Christo avesse definito per la prima volta e con assoluta esattezza Miami”.