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ella già affollata biblioteca dei libri sugli psichedelici, che negli ultimi anni ha visto l’uscita anche di alcuni testi per così dire perdibili, ne arriva ora uno che non lo è affatto, anzi. Mescalina di Mike Jay (UTET, 2023) colma un vuoto palese, rendendo giustizia alla madre di tutte le sostanze psichedeliche: la più antica, la più studiata, la meno compresa, e la più gravida di implicazioni storiche, etnografiche, politiche, filosofiche e scientifiche. La traiettoria della mescalina, seguita nel racconto di Jay fin nelle più diverse latitudini, consente infatti di contestualizzare e di comprendere appieno tutto ciò che è avvenuto dopo, da quello che è considerato l’evento di nascita della psichedelia moderna – la scoperta dell’LSD nel 1943 – sino a oggi.
Il merito è appunto di Mike Jay: storico della scienza e della psichiatria, firma di Aeon, della London Review of Books e della New York Review of Books, oltre che autore di altri libri notevoli sui manicomi e sulle droghe, e curatore di alcune delle mostre delle collezioni della Wellcome Foundation di Londra. Ancora una volta, Jay è riuscito in un’impresa non semplice: raccontare in modo avvincente e scientificamente completo la storia di una sostanza che dall’epoca precolombiana è giunta sino ai giorni nostri seguendo percorsi sempre diversi e plasmando tutto ciò che ha incontrato sul suo cammino, con tracce discrete, ma evidenti. Da una simile avventura narrativa attraverso decine di località – ciascuna delle quali con il suo particolare rapporto con il peyote, il cactus San Pedro e la mescalina in essi contenuta – ciò che emerge con più nettezza è l’impatto che questa “medicina” sacra messicana e peruviana ha avuto sulla psichiatria, la politica, la letteratura e molti altri ambiti.
E questo nonostante la mescalina, pur essendo stata studiata e sperimentata a fondo per moltissime possibili applicazioni sia ricreative che terapeutiche da persone con le più diverse formazioni, è stata molto presto accantonata in favore di sostanze decisamente più docili, come l’LSD e la psilocibina, a causa della sua peculiare inafferrabilità. Quasi come non potesse accettare di essere misurata, costretta in dosaggi e indicazioni, essere ridotta a sostanza farmaceutica, né tantomeno a mera sostanza d’abuso.
Tra tutte le sostanze psichedeliche, la mescalina è la più antica, la più studiata, la meno compresa, e la più gravida di implicazioni storiche, etnografiche, politiche, filosofiche e scientifiche.
Si fa fatica a fissare con certezza la prime testimonianze sull’utilizzo del peyote tra le comunità del Messico, ma esistono reperti – come alcuni bottoni essiccati ritrovati nelle grotte di Shumla, sul versante texano del Rio Grande – che risalgono al 4.000 a.C, e che avrebbero ancora una concentrazione di mescalina pari a circa il 2%. Un destino non diverso è quello del cactus San Pedro, che cresce molto più facilmente del peyote, e le cui prime tracce sono probabilmente quelle risalenti al 3.700 a.C del sito cerimoniale di Chauvin, sulle Ande Peruviane, dove fregi e residui alimentari confermano che quel cactus era parte integrante della vita delle diverse civiltà che si sono succedute mantenendo in attività il sito sacro.
È però con l’arrivo dei conquistadores spagoli, e con le loro cronache, che l’occidente viene a sapere dei riti dei cactus, descritti per la prima volta nel 1529 da Bernardino de Sahagún nella sua opera Historia general de las cosas de Nueva España, giunta a Firenze nel 1570, con queste parole: “coloro che ne mangiano o bevono ottengono visioni o spaventose o ridicole. […] Li stimola e dà loro la forza di spirito necessaria a combattere e a non provare paura, fame o sete, e secondo quanto dicono li protegge da ogni pericolo’’. Parole non diverse da quelle utilizzate da Bernabé Cobo, un gesuita che visse gran parte della sua vita in Perù, qualche decennio dopo: “questa è la pianta con cui il diavolo ha portato al paganesimo gli indiani del Perù. […] Inebriati da questa bevanda, gli indiani hanno immaginato migliaia di assurdità convincendosi che fossero vere”.
Già da quei primi contatti fu evidente l’effetto profondamente sovversivo della mescalina, in quel caso sul cattolicesimo: se per alcuni le cerimonie erano chiare espressioni demoniache, per altri missionari i cactus sarebbero stati mandati da Dio, per preparare popolazioni così primitive e ingenue alla successiva evangelizzazione. La prova? L’evidente similitudine tra l’ostia e l’eucaristia e il cerimoniale del cactus. Fu in quel momento, secondo Jay, che si posero le basi della guerra alle droghe: “il consumo di peyote fu assunto come indicatore della separazione tra il mondo civile e quello selvaggio, nonché, dopo l’avvento delle scienze razziali, di un chiaro sintomo di degenerazione ereditaria e di inferiorità; di contro, il cactus divenne sempre più un simbolo identitario dei nativi americani e dei loro rituali sacri”.
Dall’epoca precolombiana la mescalina è giunta sino ai giorni nostri seguendo percorsi sempre diversi e plasmando tutto ciò che ha incontrato sul suo cammino, con tracce discrete, ma evidenti.
Nel 1620 l’Inquisizione messicana proibì i cactus, bollandoli come pericolosa superstizione, ma i missionari delle province più remote ignorarono il bando e anzi presero spesso parte ai riti, per comprenderli meglio e cercare di integrare in essi gli insegnamenti cristiani. Continuarono anche a raccontare ciò che avveniva durante i rituali del cactus, ammettendo la propria scarsa comprensione di ciò cui assistevano. Lo stesso fecero, nei due secoli successivi, diversi etnografi, botanici, esploratori che, spingendosi in luoghi mai raggiunti dagli occidentali e affidandosi alla guida di sciamani e capi spirituali delle diverse tribù, descrissero nei dettagli le complesse cerimonie che avevano al centro i cactus e il loro status all’interno delle comunità. Così scrisse l’etnografo norvegese Carl Lumholz, nel 1890: “mangiarli provoca grande euforia. Di conseguenza sono considerati come semidei da trattare con la più grande riverenza e a cui offrire sacrifici”.
Mentre Lumholz studiava le tradizioni della Sierra Madre, il membro del Bureau of Ethnology della Smithsonian Institution James Mooney – in missione nel 1891 ad Anadarko per registrare e cercare di preservare secoli di lingua, cultura e tradizione dei nativi che stavano scomparendo – si trovò ad assistere a una “danza degli spiriti” in cui i partecipanti si riunivano in un enorme cerchio, indossando costumi mai visti prima, intonando i cosiddetti “canti del Messia” e assumendo peyote. La danza doveva ricordare a tutti che sarebbe arrivato il momento in cui l’intera razza degli indiani d’America, i vivi e i morti, si sarebbe riunita per vivere in una felicità primordiale su una terra rigenerata, per sempre libera da morte, miseria e malattia: erano i semi della natura identitaria del peyote, che sarebbero maturati in una religione codificata e poi approvata ufficialmente nel 1918, la Chiesa Nativa Americana cui, secondo molti, si deve la sopravvivenza della cultura dei nativi d’America.
I resoconti di Mooney – che riportavano anche gli impieghi terapeutici per infezioni come la tubercolosi e la polmonite, e poi le malattie del fegato, il diabete, varie patologie della pelle, le infiammazioni agli occhi e i disturbi mentali – richiamarono per la prima volta anche l’interesse di un’azienda farmaceutica, la Parke-Davis di Detroit, la quale era anche il principale produttore di cocaina degli Stati Uniti e stava studiando decine di composti di origine vegetale per le più diverse applicazioni.
È come se la mescalina non potesse accettare di essere misurata, costretta in dosaggi e indicazioni, essere ridotta a sostanza farmaceutica, né tantomeno a mera sostanza d’abuso.
Come avrebbe tuttavia continuato a fare nei decenni successivi, la mescalina disorientò i chimici dell’azienda: per alcuni era un tonico, per altri un sedativo. Ciononostante, nel 1893 un estratto alcolico di mescalina chiamato “tintura di analonio”, entrò a far parte del catalogo dell’azienda come calmante, tonico cardiaco e preparato per migliorare la respirazione – indicazioni terapeutiche contraddittorie (un calmante è l’opposto di un tonico) e del tutto prive di una spiegazione plausibile del meccanismo d’azione.
A partire da quella prima commercializzazione si moltiplicarono gli esperimenti effettuati da chimici e medici, ma anche condotti da scrittori e artisti su se stessi, e su volontari: tutti estremamente disorientanti per la varietà di effetti incompatibili tra di loro che si registravano e per l’impossibilità di definire anche solo un dosaggio attivo certo. La mescalina non era paragonabile a nessuna delle molte sostanze psicotrope conosciute e studiate, e oltretutto quanto avveniva in occidente era molto diverso da ciò che riferivano i peyotisti nativi. I suoi effetti non sembravano standardizzabili in alcun modo: un bel guaio per chi voleva sfruttarla, e infatti i suoi destini farmaceutici non furono mai rosei, al contrario. Anche perché in quegli anni non si sapeva neppure che cosa ci fosse, nelle diverse preparazioni: l’isolamento del principio attivo si era rivelato molto più difficile del previsto, e avvenne solo nel 1897. Oggi sappiano che peyote e San Pedro contengono una cinquantina di alcaloidi, ma a differenza di quanto accaduto negli ultimi anni con LSD e psilocibina, ancora non sappiamo esattamente come funzioni la mescalina.
Il primo studio scientifico che arrivò all’attenzione di un pubblico internazionale uscì sul British Medical Journal nel 1896, seguito nel 1897 da un altro articolo su The Lancet: pur nella sua inafferrabilità, la mescalina era entrata ufficialmente nella medicina occidentale, se non altro per i suoi effetti visivi, molto adatti a tempi in cui stavano arrivando l’elettricità, i raggi X, il cinema. Fu poi Aleister Crowley, il celebre e famigerato occultista, a dare ulteriore popolarità alla mescalina, quando nel 1910 raccontò sul Daily Sketch di una cerimonia per invocare Saturno a base di alcaloidi dell’oppio e di un elisir portato in Europa dall’America: un estratto di peyote, che lui chiamava analonio. Secondo Jay, “è probabile che Crowley sia stato il primo occidentale ad assumere peyote in maniera metodica per un certo numero di anni, e il primo a utilizzarlo come sacramento rituale”. Pochissimi anni dopo ebbe anche inizio un’esperienza che sarebbe stata il modello di molte altre nei decenni successivi: quella del Pueblo di Taos, un insediamento del New Mexico dove si rifugiarono lo scultore Maurice Sterne e Mabel Dodge, scrittrice femminista al centro di una comunità letteraria che avrebbe attirato personaggi come Georgia O’Keeffe, Ansel Adams, D. H. Lawrence, Carl Jung e Aldous Huxley.
Fu con l’arrivo in America dei missionari cattolici che, secondo Jay, si posero le basi della guerra alle droghe: il consumo di peyote fu assunto come indicatore della separazione tra il mondo civile e quello selvaggio.
Nel frattempo anche la ricerca farmaceutica andava avanti, e nel 1920 l’azienda tedesca Merck mise in commercio il solfato di mescalina in fiale da iniettare, pensando che sarebbe servita soprattutto alla nascente psichiatria e ai molti specialisti che credevano potesse aiutare a riprodurre le psicosi, la schizofrenia e altre malattie mentali, di modo da poterle comprendere e da sperimentare le nuove terapie. È in questa fase che i destini della mescalina incrociano quelli dei padri della psichiatria, come gli allievi di Emil Kraepelin, e che hanno inizio i primi studi scientifici con decine di volontari e osservazioni dirette di ciò che accadeva dopo le assunzioni. I risultati di tutte quelle ore di osservazione, però, non portarono a nulla, perché non si capì mai come sfruttare gli effetti della mescalina. Oltretutto, si vide molto presto che le alterazioni di coscienza non avevano quasi nulla a che vedere con le crisi psicotiche, e quindi la sostanza non serviva neppure come modello. Per di più gli effetti collaterali quali la nausea, che persistevano per ore, erano davvero pesanti da sopportare.
Eppure, a detta di Jay “la mescalina, con le sue allucinazioni, poneva una delle domande fondamentali della psicologia, alla quale però non si era in grado di rispondere. Le visioni erano personali, soggettive e uniche, eppure non sembravano basarsi sull’esperienza di vita dei singoli individui. Si trattava di semplici prodotti meccanici della biologia umana o invece erano plasmate, in qualche maniera incomprensibile, dalla cultura o dalla psiche?”. A domande come queste cercheranno di rispondere, pochi anni dopo, filosofi, artisti e intellettuali come Jean Paul Sartre, che non amò affatto la mescalina, o Walter Benjamin, che fece ricorso alla favola di Pierino Porcospino per spiegare il senso del trip, e poi Andrè Breton, che invece vi ritrovò l’essenza stessa del surrealismo da lui fondato, ovvero “un automatismo psichico puro, […] dettato del pensiero, in assenza di qualunque controllo esercitato dalla ragione”. O ancora il pittore polacco Stanisław Ignacy Witkiewicz, che la definì una “droga metafisica”, e poi il poeta Antonin Artaud, che si recò in Messico nel 1963 per seguire il peyote e sprofondò in un abisso di follia che lo condusse alla morte, pur avendo il tempo di annotare queste, emblematiche parole: “vi è nella coscienza il Meraviglioso col quale oltrepassare le cose. E il peyote ci dice dov’è”.
Le pieghe dei pantaloni di flanella percepite nel 1953 da Aldous Huxley durante un esperimento psichedelico – a quanto pare romanzate per essere più conformi al personaggio, uso in verità a indossare abitualmente jeans – arriveranno dopo molti altri pantaloni osservati con occhi nuovi, e dopo numerose altre porte della percezione schiuse da scienziati e intellettuali nei decenni precedenti. La parte finale del libro di Jay ripercorre poi vicende più note, dal progetto MK Ultra alla scoperta dell’LSD, dalla nascita del movimento psichedelico ai divieti del 1971, fino ai giorni nostri, nei quali la mescalina rimane relativamente negletta, per gli stessi motivi che l’hanno sempre resa ostica per gli occidentali. Raccontando moltissimi episodi in gran parte sconosciuti, frutto di un lavoro di ricerca assai accurato, lo stesso Jay ricorda come “la mescalina [avesse] già avuto molte vite ben prima di attirare l’attenzione dei medici”. Oggi, in un’epoca in cui il turismo psichedelico è tornato ad attirare l’attenzione e in cui centinaia di sedicenti curanderi offrono trip mescalinici in decine di paesi che nulla hanno a che vedere con il Messico o il Perù, alimentando una moda che rischia di provocare l’estinzione del peyote e la banalizzazione di un rito che racchiude un intero sistema culturale, di fronte agli effetti imprevedibili della mescalina ci si domanda ancora: ma da dove vengono? E cosa significano?.