T ra il 1938 e l’anno seguente, Paola Masino si trova al confino, a Venezia, con il marito e scrittore Massimo Bontempelli, esiliato per i suoi scritti dal regime. “Io ero diventata maniaca delle pulizie” scrive, così lui le suggerisce di lavorare a un romanzo per rifletterci. Lei risponde: “Sarebbe come psicanalizzarmi”. Lui insiste, e lei decide di scrivere Nascita e morte di una massaia.
L’origine dell’ultimo romanzo della scrittrice (se ne contano solo altri due: Monte Ignoso del 1930 e Periferia di tre anni dopo, contro a una produzione più vasta di racconti e articoli di giornale) sembra tutta racchiusa in un sentimento di iper-percezione della casa (e dopo questi mesi, sappiamo tutti cosa significa) e delle sue conseguenze: alle pulizie corrisponde una ben precisa, quanto spaventosa, designazione del ruolo domestico della donna, in un periodo in cui il modello delineato e imposto dal fascismo le voleva tutte angeli del focolare: pie, dimesse, asservite e sempre rassicuranti.
Nascita e morte di una massaia così procede al passo di un’agiografia che sostituisce la santa con la donna, la domina, la massaia che presiede l’ordine della casa e che ammaestra ciò che si trova, o passa, al suo interno. Niente miracoli, nessuna redenzione: tutto il contrario. La Massaia senza nome di Masino, più che angelo del focolare è una strega che ha già visto tutto. Il romanzo, infatti, si costruisce attorno a un’idea di morte prima ancora che di vita. Da bambina, la Massaia rifiuta l’ortodossia della famiglia borghese in cui è nata e vive in una bara:
Distesa in un baule che le fungeva da armadio, letto, credenza, tavola e stanza, pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, di libri e relitti di funerali […] la bambina andava catalogando pensieri di morte.
Il baule-bara è il primo dei tanti elementi perturbanti che si insinuano nelle case del romanzo. L’unico luogo che la bambina accetta come suo coincide già con la fine dell’esistenza. La vera nascita, non biologica ma metaforica, della Massaia arriva dopo, quando per amore della madre, in uno stravolgimento della trama affilato quanto ironico, la bambina-strega “sporca tutta, di corpo e di pensiero” decide di negare il suo vivere da “mobile” (“ogni mattina le cameriere le spolveravano il capo, le spazzavano i piedi, le sbattevano e ripiegavano i vestiti addosso”) e diventare quello che la madre si aspetta da lei: “Si districò i capelli da alcune pianticelle che le erano nate dalla forfora, con le mani leggere staccò l’una dall’altra le palpebre e aperse gli occhi”.
Ciò che vede e che l’aspetta è un ballo per inaugurare la sua nuova vita davanti alla società piccolo-borghese, e ovviamente un marito da sposare, un lontano zio (“ti farò un bel vestito, ti porterò dal parrucchiere, ti laveremo, ti tingeremo […] e fai la sorpresa di mostrarti così cambiata a tutti gli sciocchi che fin qui ti hanno vista e sono fuggiti”). Paola Masino distorce così l’aspettativa di una protagonista che si erge eroicamente contro il mondo che la circonda e sceglie di esasperare invece, nel sacrificio della Massaia, l’ideale fascista della signora-per-bene per smascherarlo da dentro.
Rinuncio per pietà filiale e dunque merito ogni castigo. Cominciamo. Cominciate a castigarmi; sono davanti a voi per questo. Regina sbagliata che si conduce da sola al patibolo.
Non sorprende, allora, che la vicenda del romanzo sia (stata) così turbolenta. Si possono appuntare una serie di date, che sono i chiodi temporali di un libro in perenne movimento editoriale fin dalla sua origine: 1938-39, in cui viene scritto, 1941-42 in cui viene pubblicato a puntate su Il tempo illustrato ma osteggiato e censurato dal regime perché “disfattista e cinico”, 1945 data della sua prima pubblicazione per Bompiani, e poi: 1970 (curata da Garboli), 1982, 2009, le date delle sue altre ripubblicazioni, fino all’ultima del 2019 per Feltrinelli. Nell’arco di ottant’anni questo libro si muove, sfuggente, tra le sue edizioni senza mai trovare una posizione salda, quasi fosse sempre relegato in una dimensione di palinsesto, nelle pieghe del tempo.
Viene il dubbio, a ben guardare confermato, che la sua inafferrabilità sia strutturale e connaturata al testo, che si sfalda e si contamina di generi diversi. All’epoca della sua prima pubblicazione entrava in dialogo con un humus letterario tutto neorealista che fece passare il romanzo inosservato. Già all’epoca dell’edizione a puntate sul Tempo, la critica fece notare che il romanzo abbondava di punti “difficili e indigesti” non solo al clima politico, ma “ai palati degli acquirenti”: il pubblico allora vastissimo della rivista. La Massaia, però, turbava quella nuova forma di realismo. Più legato a una matrice europea che spaziava dal surrealismo e al realismo magico (l’ambiente frequentato da Masino era quello di de Chirico, Savinio e De Pisis), ben cosciente della lezione pirandelliana dell’assurdo (Pirandello fu grande amico non solo di Bontempelli ma anche di Masino), il romanzo si apriva a una sua personale forma di fantastico nel domestico, di un perturbante inatteso, di un reale distorto che lo rendono tuttora un unicum italiano “imprendibile”. Un sapore simile lo troviamo forse in alcune pagine di Shirley Jackson, altra scrittrice strega della casa. Come lei, Masino la infesta di altre presenze. Così un ricevimento dato dai coniugi si trasforma in una pièce teatrale dal sapore onirico:
LA MASSAIA ([…] raggiungerà il suo posto a uno dei tavolini, avendo a destra un CARDINALE, a sinistra un MARESCIALLO, e di fronte un’altissima DAMA E CORTIGIANA NAZIONALE. Al tavolino di suo marito ha il posto d’onore un REGINA SPODESTATA che dà lustro all’ambiente) “Dio ce la mandi buona”.
Alla narrazione in terza persona, a un certo punto, si inframmezza un diario:
Sabato 25 – la guerra fiorisce, l’animo mio si stacca da me e girovagando per la storia degli uomini si domanda perché non è possibile dare un solo valore alle parole e un solo modo di usarle.
Un viaggio si trasforma in una catabasi infernale (“la più bislacca architettura che le fosse mai occorso di vedere, un raggruppamento di stili e materiali quasi fosse il deposito dei pezzi che compongono le città, qua alzarsi un grattacielo, più giù abbattersi una colonna”) dove la Massaia incontra il suo doppio, altro fantasma che svanisce non prima di aver fatto capire che:
non era più un corpo il suo, ma rappresentazione era, un suggerimento, un motivo degli attributi necessari. Dove stanno le sue ossa vere, i suoi nervi, i suoi peli, le unghie, le gelatine che dovrebbero comporlo?
Nella Massaia, a sfaldarsi non è soltanto l’idea di un genere letterario unitario, ma anche il genere stesso del corpo che racconta, il quale arriva a rinunciare alla sua presunta qualità per eccellenza: quella generativa, vista in quest’ottica come il più grave dei mali del corpo femminile. La Massaia, alle fine, muore senza figli, eppure il suo corpo non perde niente di fondamentale rispetto al suo sesso: “la bambina non si era resa conto che se il suo corpo era carne come quella esposta sui banchi dei mercati […] lei tuttavia vi portava nascosti un pensiero e un sesso che erano la sua ragione”.
Il corpo, il testo (la sua struttura) e la casa (“il luogo della mia perdizione in eterno”) sono i tre punti del triangolo entro cui il romanzo prende forma e si fa perturbante: tutti e tre subiscono un processo di erosione interna. La scrittura di Masino è carsica proprio nel modo in cui, con una lucidità spietata, abbatte i limiti e corrode la linearità, passando dal lirismo di visioni oniriche al sarcasmo domestico.
Tutto il tempo è passato, tutta la poesia del mondo è trascorsa per una donna, da quando voi uomini le mettete sulle spalle la casa. Mangiare è sapere un giorno prima quanto masticherai il giorno dopo, sapere quanto costa, sapere come fu fatto, paventare lo spreco, dubitare il furto; […] Voi volate, noi stiamo a terra. Ci portate appena, dei vostri voli, i paracadute rovinati, perché vi si rammendino, smacchino, pieghino, ripongano. Tuttavia sorridiamo.
E non solo: bruciano le pieghe temporali che sembrano bloccare la Massaia, perché il romanzo parla, sempre attuale nella sua urgenza espressiva, al presente.