A l centro di ogni romanzo di Jennifer Egan c’è un luogo scuro e intimo che deve essere protetto dallo sguardo del mondo esterno. In Invisible Circus, il libro con cui la scrittrice di Chicago ha esordito nel 1994, questo luogo è il segreto della morte di Faith O’Connor, che la sorella Phoebe cerca di svelare attraversando l’Europa alla fine degli anni Settanta; in Guardami (2001) è il mondo nascosto che la modella Charlotte scopre quando un incidente automobilistico la sfigura, privandola della propria immagine pubblica: dopo l’incidente Charlotte sarà in grado di vedere la “personalità ombra” di coloro che la circondano, e di smascherare l’orrore, la rabbia e la disperazione che si nascondono sotto l’apparenza scintillante del suo mondo consacrato alla bellezza e al successo; ne La fortezza (2006), una riflessione postmoderna sul potere dello storytelling in un’epoca iperconnessa, è il luogo in cui le parole smettono di significare e le storie si esauriscono, e coincide nel racconto con i sotterranei dove “i tesori sarebbero stati nascosti se il castello fosse stato invaso”. Infine ne Il tempo è un bastardo, il romanzo vincitore del Premio Pulitzer nel 2010, questa oscurità è incarnata da un personaggio, Rolph, che si suicida prima di diventare adulto perché incapace di sfuggire all’assoluta purezza del proprio corpo “privo di segno”. Dal 2010 Egan ha pubblicato solo un racconto breve, Scatola nera, uno spin-off del libro che l’aveva preceduto.
Se esporre l’intimità porta alla distruzione di ciò che è vero e autentico, ne consegue che l’inganno è la cifra fondamentale dell’esistenza. Una cifra necessaria, perché senza inganno c’è solo un’intimità nuda come quella di Rolph, che non può resistere alla pressione del mondo esterno. I romanzi di Egan traboccano di inganni, quelli che mettono in atto i personaggi (Charlotte e Sasha di Il tempo è un bastardo basano la propria carriera sull’apparire più giovani di quello che sono, la protagonista di Scatola nera non è chi dice di essere) ma anche di inganni letterari: i romanzi di Egan sembrano sempre qualcosa che non sono – un Bildungsroman, una storia di spie, il romanzo definitivo sul destino della musica indie -, e traboccano di immagini postmoderne della finzione, specchi, macchine fotografiche, social media e altri dispositivi che riflettono il mondo in maniera infedele. Invisible Circus si apre con l’epigrafe di un brano di Feuerbach dedicata a “questo mondo che preferisce l’immagine alla cosa rappresentata, […] l’apparenza all’essenza”, e in un momento memorabile di Il tempo è un bastardo la giovane punk Reha si chiede “cosa rende finta una cresta vera?”, riflettendo sul rapporto tra i due poli – l’autenticità e la finzione, l’oscurità e la luce, l’intimità e il narcisismo – che costituiscono il vero asse portante della poetica di Jennifer Egan.
Per questo non stupisce che Manhattan Beach, il romanzo arrivato in USA sette anni dopo il successo internazionale del 2010 e ora pubblicato in Italia da Mondadori, parli di acqua; o meglio, parli di una giovane donna che si immerge nelle profondità marine. Anna Kerrigan è una ragazza non ancora ventenne che durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale si trova impiegata nel cantiere navale di Brooklyn. Privata all’improvviso della relazione con il padre, scomparso lasciandosi dietro una moglie ex ballerina e una seconda figlia affetta da una grave disabilità fisica, Anna è insofferente alle regole di un mondo dominato dal potere maschile e attratta da un’attività riservata esclusivamente agli uomini, quella del palombaro. La discesa nei fondali marini di New York è anche una discesa dentro sé stessi, e se sul fondo del mare Anna cerca il cadavere del padre, nel suo percorso finisce invece per trovare prima un altro uomo (un gangster violento e affascinante che del padre è il riflesso deformato) e poi una nuova versione di sé. Anna emerge dalle acque di New York mentre il mondo emerge dalle macerie della guerra, ed è un mondo nuovo dove le Anna Kerrigan hanno cominciato a reclamare il proprio spazio.
Come ha mostrato con Le onde Virginia Woolf, già punto di riferimento della narrativa eganiana (i salti temporali de Il tempo è un bastardo replicavano le ellissi di Al faro) non c’è nulla che meglio rappresenti l’oscurità delle emozioni dell’acqua. Ma in questo caso l’acqua assume anche un secondo significato. In Jennifer Egan lo sguardo è il senso che più di tutti afferma l’identità narcisistica dei personaggi, ma anche il punto d’accesso al loro mondo emotivo: “sempre a guardare”, dicono alla protagonista del racconto breve Sorelle della luna, “quei grandi occhi sempre in movimento”; la bambina protagonista di un altro racconto contenuto nella raccolta Emerald City, inedita in Italia, pensa di poter salvare il fratello solo guardandolo; la vita di Moose, il personaggio più complesso del romanzo che non per niente si intitola Guardami, viene sconvolta da una “visione”. Sul fondale marino di New York Anna non può vedere: il suo mondo coincide con l’oscurità. Da molti punti di vista proprio queste sono le sequenze migliori di Manhattan Beach, quelle in cui veniamo portati in fondo al mare in un mondo privato della percezione (oltre a non vedere, Anna non può nemmeno sentire l’acqua, sepolta com’è nel proprio scafandro).
Lo sperimentalismo di Manhattan Beach sta nel produrre il perfetto romanzo di Jennifer Egan travestendolo da romanzo storico.
Manhattan Beach ha richiesto a Jennifer Egan quasi dieci anni di ricerche, e la ricostruzione storica è accuratissima: dalla vita dei lavoratori portuali durante la grande crisi alle faide tra irlandesi e italiani, dall’epoca d’oro della malavita alla condizione femminile. Ma nel romanzo non c’è davvero una dimensione storica, o meglio: la storia è una questione di infra-ordinario, delle relazioni che si instaurano in una famiglia o tra colleghi di lavoro, e che vengono rotte e ricostituite con un moto che ricorda quello del mare. Manhattan Beach è un libro straordinario nella capacità che ha di fare della Storia con la S maiuscola un telaio di relazioni, del grande affresco delle guerre e delle svolte politiche (un grande affresco maschile, si potrebbe dire, echeggiando ancora la Woolf di Al faro) una questione intima. E qui forse risiede anche il suo carattere sperimentale, quello che a prima vista sembra mancare se paragoniamo questo romanzo alla struttura reticolare di Il tempo è un bastardo, al suo capitolo conclusivo scritto in PowerPoint o a Scatola nera, originariamente pubblicato su Twitter in paragrafi da 140 caratteri.
Lo sperimentalismo di Manhattan Beach sta nel produrre il perfetto romanzo di Jennifer Egan travestendolo da romanzo storico, e costruendogli intorno una gabbia formale (la lingua, in inglese, è stranamente antiquata, ma non abbastanza da sembrare esplicitamente antica) nella quale portare avanti una poetica. Perché al di là del setting inusuale per Egan, Manhattan Beach è un romanzo eganiano dalla prima parola all’ultima. Anna passa tutto il libro a dover dissimulare: la propria ricerca di un posto nel mondo, il proprio appetito sessuale, persino la propria gravidanza. Allo stesso modo anche il romanzo è pieno dei soliti inganni letterari, dalla sottotrama sui gangster alla lunga ellissi che segue le vicende di un vascello commerciale perso in mare e che ricorda un po’ Moby Dick e un po’ Sloop John B dei Beach Boys.
Ma quello che veramente rimane alla fine del libro sono immagini di travolgente intimità: i gemiti sentiti attraverso la porta del bagno durante una cena di lusso, gli occhi vivi della sorella di Anna intrappolati in un corpo morto, i piedi nudi di un uomo disperato che cammina sulla sabbia d’inverno e che noi sappiamo dovrà essere ucciso. Manhattan Beach, come ogni altro romanzo di Jennifer Egan, ci invita a non fidarci del commento che la voce narrante fa parlando di una storia d’amore clandestina avuta da Anna quand’era adolescente: “mantenere l’apparenza importava quanto – o di più – di quello che c’era sotto. Le cose profonde potevano andare e venire, ma ciò che emergeva in superficie sarebbe rimasto impresso nella memoria di tutti”. Invece ci chiede di fare come Dexter, il fascinoso gangster, quando verso la fine del romanzo accompagna Anna in una spedizione sul fondale della baia di Brooklyn, al largo di Manhattan Beach, e si trova immerso nel “primordiale buio degli incubi. [Un buio] che copriva segreti troppo atroci per essere esposti: bambini affogati, navi affondate”.
Come Danny della Fortezza quando scende nei sotterranei del castello, come Charlotte quando mette a nudo l’orrore delle persone che la circondano, come Phoebe quando scopre il segreto d’amore e di morte dietro il suicidio della sorella, anche Anna (e noi con lei) siamo portati “attraverso un altro strato della vita dentro a qualcosa di più profondo, freddo e senza pietà”: in quel luogo che è sempre stato il vero centro della narrativa di Jennifer Egan, al di là di tutti gli inganni.