D ue miserie in un corpo solo”: così Giorgio Gaber chiudeva Qualcuno era comunista — uno degli esempi più limpidi di rimpianto e malinconia per una sinistra che non c’è più, per un’epoca andata. Più in generale, un’ammissione di sconfitta. È questo sentimento che indaga Enzo Traverso nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Malinconia di sinistra.
Recensendo il libro sul manifesto, Marco Bascetta partiva significativamente dalla morte di Fidel Castro: un evento simbolico che sembra ammainare una volta per tutte la bandiera rossa, che già aveva subito un colpo storico con la fine del blocco sovietico nel 1989.
In effetti, il crollo del Muro di Berlino fece cadere definitivamente dei regimi oppressivi; ma come ricordava Luciana Castellina in occasione del venticinquennale dell’evento, con esso caddero anche degli ideali di cui si erano nutrite intere generazioni: “l’89 è anche il tempo in cui per milioni di persone prende fine la speranza — e persino la voglia — di cambiare il mondo, quasi che il socialismo sovietico fosse stato il solo modello praticabile. E via via è finita passare anche l’idea che tutto il secolo impegnato a costruirlo anche da noi era stata vana perdita di tempo”.
Oggi vediamo i frutti di questa sconfitta storica: il trionfo del mercato finanziario globalizzato, una diseguaglianza sociale acutissima, la diffusione di un populismo inferocito e razzista, e una moltiplicazione di altri muri (fisici ma non solo) che emarginano i meno fortunati.
Tuttavia, Traverso fa subito una precisazione: “la fine del comunismo ha troncato questa dialettica tra passato e futuro, e l’eclissi delle utopie che accompagna il nostro tempo «presentista» ha condotto la memoria marxista alla soglia dell’estinzione. […] Questo mutamento ha favorito la riscoperta di una visione malinconica della storia come ri-memorazione (Eingedenken) dei vinti — Walter Benjamin ne è stato l’interprete più profondo — che appartiene a una tradizione nascosta del marxismo”.
Secondo l’autore, lo struggimento accompagna la sinistra fin dalle sue origini: altro non è che “il risvolto dell’estasi rivoluzionaria in cui tutto diventa possibile”. In effetti, una posta così alta come quella del socialismo si è rovesciata in una quantità di amare sconfitte o di involuzioni terribili (vedi appunto lo stalinismo).
Secondo l’autore, lo struggimento accompagna la sinistra fin dalle sue origini: altro non è che il risvolto dell’estasi rivoluzionaria in cui tutto diventa possibile.
Nonostante il suo influsso sulle democrazie liberali in forma di spinta per una società più equa, il movimento operaio ha speso moltissimo per il lavoro rivoluzionario, ottenendo in cambio repressioni atroci. Il che, come ricorda ancora Bascetta nella sua recensione, ha generato “una commozione luttuosa, di un dolore per la sconfitta di quella umanità insorgente tanto immersa nella materialità della vita quanto lontana dalla retorica dell’eroe, che pervade, invece, le onoranze funebri celebrate dalla destra”.
Pietà, insomma. E nel libro di Traverso sono affrontate con dovizia di particolari la pietà di Courbet, che dipinge la sconfitta della rivoluzione del 1848 attraverso l’allegorica agonia di un cervo braccato da cani e cacciatori. Quella di Blanqui, uscito perduto e sconvolto dalla tremenda repressione della Comune di Parigi. Quella che promana dal cadavere di Che Guevara. Quella di cui è intriso l’ultimo discorso di Allende. Quella de La terra trema di Luchino Visconti, di Queimada di Gillo Pontecorvo, e così via.
Eppure la sconfitta del 1989 parve inoculare una malinconia più radicale — proprio perché sembrò irreversibile e planetaria. La forza retorica dell’assalto al cielo aveva sempre fornito materia pulsionale per far fronte ai lutti passati. Con la fine dei blocchi, le cose cambiarono.
Secondo Wendy Brown, che dieci anni dopo scrisse un articolo significativamente intitolato Resisting Left Melancholy, questa sensazione luttuosa avrebbe un carattere reazionario. L’argomento ha la sua forza, e basta pensare alle celebrazioni nostalgiche di altre epoche — gli anniversari del ’68, e quest’anno del ’17 e del ’77 — per accorgersi di quanto spesso non abbiano molto di progressivo, e siano segnate da una nostalgia conservatrice e autoindulgente. Annotò Brown: “Finiamo per amare le nostre passioni, ragioni, analisi e convinzioni di sinistra più del mondo reale, che presumibilmente vorremmo cambiare con questi strumenti, o del futuro, che dovrebbe conformarsi ad essi”.
Scrive Wendy Brown: “finiamo per amare le nostre convinzioni di sinistra più del mondo reale, che presumibilmente vorremmo cambiare con questi strumenti, o del futuro, che dovrebbe conformarsi ad essi”.
Ad altro però guarda Enzo Traverso: ed è il maggior pregio del suo lavoro. Invece di limitarsi a una radiografia della perdita o al canto dei bei tempi andati, propone di prendere spunto da una malinconia “né regressiva né impotente”, che “senza cercare scappatoie, carica sulle proprie spalle il fardello del passato, spesso soverchiante”. In luogo del “dovere di ricordare” — la commemorazione di facciata, tanto obbligatoria quanto sterile — l’autore rivendica il dovere della rimemorazione. Un gesto filosofico che sappia “ripensare il socialismo in un’epoca in cui non se ne ha più memoria. Anziché deplorare le utopie perdute, questa malinconia potrebbe contribuire a ricostruirle”.
Traverso guarda insomma al sentimento luttuoso come a un metodo di estraniamento e comprensione. Il socialismo è stato sconfitto e questo prova un dolore incontrollabile in ogni coscienza di sinistra? Certo. L’importante però è non fermarsi al momento negativo, ma proseguire oltre nel processo dialettico. Rovesciando l’interpretazione di Wendy Brown, lo struggimento diventa così “una forma di resistenza contro la rinuncia e il tradimento. […] Se una società di uguali è un’illusione, allora il rifiuto del socialismo reale diventa inevitabilmente accettazione disincantata della società di mercato e del capitalismo. In questo caso, la malinconia sarebbe l’ostinato rifiuto di qualsiasi compromesso con il sistema dominante”.
C’è malinconia e malinconia, dunque. C’è quella che fa diventare un ideale rivoluzionario un bene di consumo come un altro, e c’è quella non rassegnata, che custodisce con ardore tale ideale, pur cosciente delle sue immani difficoltà di realizzazione pratica. Ancora Marco Bascetta sul manifesto l’ha spiegato lucidamente: “Senza la triste rimembranza delle occasioni perdute, non si tornerebbe a riannodarne i fili interrotti. Questa malinconia senza rassegnazione è, alla fine, la consapevolezza di una storia che, pur avendo pagato enormi prezzi, non è riuscita a trasformare il mondo come aveva voluto. E dunque l’affermazione di una impresa che resta ancora da compiere.”
Non stupisce allora che il nume tutelare del libro sia Walter Benjamin, “scisso tra malinconia e rivoluzione (o cercando forse un legame dialettico tra di esse)”. Secondo Benjamin, la tristezza correttamente intesa ha un valore epistemico: nel suo “ostinato sprofondarsi solleva le cose morte nella sua contemplazione per salvarle”. Anche per questo, il filosofo berlinese innestò sul grande albero del materialismo dialettico un ramo di messianismo debole, proprio al fine di salvarlo dalla possibilità di una sconfitta irrimediabile. Il rivoluzionario si disseta con “l’immagine degli antenati asserviti, non all’ideale dei discendenti liberati”. La storia dei vinti trasmette un pensiero, una volontà che non si placa. Il ramo di Benjamin è rimasto nascosto nell’intrico doloroso del socialismo reale, delle sconfitte storiche dei socialismi dal volto umano, e dal trionfo di quella che Dardot e Laval chiamano con buoni argomenti la “nuova ragione del mondo”: il regime neoliberista globale. Ma è un ramo che può ancora dare frutti.
La malinconia diviene dunque un correttivo alla fiducia in un progresso che comunque, nonostante qualunque battaglia persa, alla fine arriverà a compimento. Con la fine del Novecento, questa fede appare inconcepibile. Ma non per questo bisogna arrendersi al cinismo, “riconoscere una sconfitta senza capitolare davanti al nemico, con la consapevolezza che ricominciare significa inevitabilmente intraprendere cammini ignoti”. Dal punto di vista teorico, Traverso guarda con attenzione al dialogo mancato fra marxismo classico e pensiero anti-colonialista. In un momento storico dove le migrazioni di massa mostrano una frattura di classe e di condizioni umane quasi assoluta fra due parti di mondo — rivendicando in primo luogo il pensiero di Frantz Fanon — non è un suggerimento da poco.
L’ottimismo può sembrare fuori luogo oggi, nelle prime settimane della presidenza Trump. Eppure, senza volare troppo alto, la lezione di una malinconia capace di rifondare un nuovo genere di militanza resta un suggerimento prezioso.
(Ma in Malinconia di sinistra c’è anche un altro nume: il filosofo e protagonista del Maggio francese Daniel Bensaïd. Malato di Aids a metà degli anni Novanta, quando sfiorò la morte, scrisse un libro su Giovanna d’Arco a cui mise in bocca questo pensiero: “Ho imparato a vivere quel poco di vita che mi restava, un giorno dopo l’altro, un minuto dopo l’altro; a difendere questi istanti preziosi contro l’idea divoratrice dell’ultima volta”. Una nota strettamente biografica, ma in cui è difficile non scorgere un colore politico. Armandosi contro “il veleno del rimpianto” e difendendosi strenuamente dalla rassegnazione dell’ultima volta — davvero la più divoratrice delle idee — è possibile riprendere la lotta, anche se in forma differenti. Bensaïd in effetti si riprese, e visse e lottò ancora).
Un sarto di Ulm, cantato da Brecht in una famosa poesia, costruì un apparecchio per permettere all’uomo di volare. Era il 1592; si sfracellò a terra; ma l’idea gli sopravvisse e Lucio Magri lo prese a immagine della sua Possibile storia del PCI. “Magri non escludeva che il comunismo possa avere un destino simile a quello del sarto di Ulm”, commenta Traverso. “Esso ha fallito nel Novecento, ma la sua utopia si compirà forse in futuro. Alla lunga, le società umane non possono esistere senza utopie”.
Questo cauto ottimismo può sembrare davvero fuori luogo oggi, nelle prime settimane della presidenza Trump e di fronte alla crescita delle destre nazionaliste e razziste: tutto sembra sull’orlo della catastrofe. Eppure, senza volare troppo alto, la lezione di una malinconia capace di rifondare un nuovo genere di militanza resta un suggerimento prezioso. Anche per evitare gli errori ripetuti lungo il corso del secolo scorso.
Ma nel concreto, come fare? Forse occorre guardare di nuovo a forme di impegno lontane dall’elefantiasi dei partiti. Esempi di lotta comunitaria di base e soprattutto di fisicità messe in gioco — come spiega Judith Butler ne L’alleanza dei corpi, in uscita per Nottetempo. Le risorse indomabili e non inquadrabili dei movimenti.
Forse è qui che si cela il discorso rivoluzionario per l’avvenire, di qualunque forma esso si componga. Per qualche suggerimento al riguardo, consiglio l’opuscolo di un convegno sul tema a cura del collettivo libertario A.Sperimenti. Sono passati più di sei anni e ancora contiene spunti di grande attualità.
Intanto, un esempio recente: il contadino francese Cédric Herrou, che si è levato contro una legge inumana — spiegando che è essa a necessitare correzione, non la pratica di chi salva migranti. Un buon punto di partenza per riattivare la pratica desiderante di coloro che lottano per una società più giusta, e spegnere la passione triste che la attraversa.