L a sofferenza, come diceva Salinas, è l’ultima forma che assume l’amore. Non si può soffrire senza aver esperito la perdita di qualcuno a cui tenevamo, non si può soffrire senza avere prima amato. Quel dolore è lì a tormentarci, evocando lo spettro di un tempo passato, e contemporaneamente può aiutarci a convivere con quel fantasma. Il sangue versato da quasi un milione di giovani americani durante la guerra di secessione a metà Ottocento è l’atto fondativo dei moderni Stati Uniti, un sacrificio mosso e allo stesso tempo seguito da principi democratici e libertari, un umanitarismo purtroppo disatteso dall’azione corrosiva del tempo. È l’inesorabilità del lutto, tanto nel rapporto patria-popolo quanto in quello più intimo tra padre e figlio. Per affrontarlo però, questo dolore collettivo e individuale, bisogna necessariamente fare i conti con la morte.
Questa è la lezione di umanità che ci lascia George Saunders con Lincoln nel Bardo, il primo romanzo di un navigato autore di racconti che nel corso degli anni è riuscito a guadagnarsi il favore dell’establishment letterario anglofono. Da Thomas Pynchon, Zadie Smith, Jonathan Franzen, i giudizi più pacati sulla sua opera contengono in genere la parola “capolavoro”. Il nuovo libro di Saunders è ambientato un anno dopo lo scoppio della guerra fratricida americana, il 1862, nel giorno dei funerali del piccolo Willie Lincoln, il figlio dodicenne del presidente eroe della patria, fulminato dalla febbre tifoide.
A differenza della sua produzione precedente, concentrata prevalentemente sugli sviluppi distopici di un presente disarticolato, “out of joint”, Saunders con Lincoln nel Bardo cambia la direzione del suo sguardo senza alterare l’oggetto della sua analisi. Cerca infatti di tornare alle origini letterarie e storiche del suo paese con l’intento, ormai consolidato, di illuminare le incertezze della contemporaneità. Un’operazione di recupero attraverso quella che forse è la cifra distintiva delle radici narrative statunitensi, la storia di fantasmi.
Si potrebbe infatti affermare senza allontanarci troppo dalla verità che le riflessioni esistenziali sulla morte sono il primo motore della letteratura americana. Negli anni in cui cominciano a delinearsi specificità culturali e identitarie nel paese, verso la fine del XVIII secolo, gli influssi del romanticismo europeo con il loro carico di poesia sepolcrale, misteri e sublimità, giungono sulle coste d’oltreoceano. Nel vasto scenario della natura selvaggia americana però il tema assume declinazioni decisamente più immaginifiche, e le urne e i cipressi lasciano spazio alla vastità dei cieli e delle terre, alle radici delle querce, alla prateria, alla foresta, al deserto e a tutto quel vitalismo panico frutto del sincretismo tra il puritanesimo dei coloni e lo spiritismo dei nativi.
Le raccolte di racconti che Saunders comincia a pubblicare da metà degli anni Novanta danno forma, con il suo peculiare stile tragicomico, agli effetti mostruosi e disumanizzanti del consumismo occidentale.
Uno dei pionieri della letteratura a stelle e strisce, il “poeta della rivoluzione” Philip Freneau, si lascia volentieri infestare dalle entità immortali che albergano il tumulo indiano di The Indian burying ground (1787), dove archi e frecce, eternamente “pronti all’azione”, hanno preso il posto delle fredde e immobili pietre tombali dei cimiteri cristiani. Simili suggestioni troveranno terreno fertile nel pensiero trascendentalista di Ralph Waldo Emerson (la sua poesia Hamatreya aveva allargato il campo di riflessione fino alle civiltà orientali dei Veda) che influenzerà poi largamente l’intera opera dell’anticonformista Whitman e quella di molti altri autori. Basti pensare alle infinite “tribù” di spiriti che dormono sotto il seno del globo in Thanatopsis (1817) di William C. Bryant, o agli indomiti cavalli che trascinano al tramonto, tra campi di grano e rugiada “tremante”, Emily Dickinson in Perché non potevo fermarmi per la Morte (1863): “Da allora – sono Secoli – Eppure li avverto più brevi del Giorno In cui da subito intuii che le Teste dei Cavalli Andavano verso l’Eternità”.
Tutti questi scrittori sembrano alla ricerca di uno spazio sacro, un limbo tra morte, resurrezione ed eternità, attraverso l’interrotta linea del paesaggio americano che si estende davanti ai loro occhi. A questo tenderà anche l’agrarianesimo popolare e poetico di Edgar Lee Masters con l’Antologia di Spoon River (1915), “comedie humaine” fantasmatica che colora la sua nostalgia rurale con sferzate proto-anticapitalistiche, ai danni della borghesia affarista delle grandi città.
Le raccolte di racconti che Saunders comincia a pubblicare da metà degli anni Novanta danno forma, con il suo peculiare stile tragicomico, proprio agli effetti mostruosi e disumanizzanti del consumismo occidentale, in maniera abbastanza analoga a quella di altri importanti esponenti della narrativa postmoderna americana, su tutti Don De Lillo e David Foster Wallace. D’altronde quale fantasma da esorcizzare è più insidioso del capitalismo e la sua mistificazione della merce?
L’America di Saunders è un universo degradato – ne Il declino delle guerre civili americane (1996) e in Pastoralia (2000) è ridotta a un grande parco di divertimenti a tema – dove una fiumana di emarginati cerca vanamente di cambiare la propria condizione, mostrando qua e là rari ma essenziali barlumi di umanità e resilienza. È l’eredità nuda e cruda della società contemporanea, una prigione in cui è impossibile nonostante tutto smettere di aspirare alla felicità, come riflette il corpulento protagonista di 180 chili di amministratore delegato:
Ho come l’impressione che Dio sia ingiusto, che preferisca punire i suoi figli più deboli, tonti, grassi e pelandroni. Mi sa che trae più soddisfazione dalle sue creature più perfette, incitandole come un padre scriteriato quando ci calpestano. Ci dona questo bisogno d’amore, ma non ci dà i mezzi per soddisfarlo. Ci dona la voglia di piacere, e un campionario di attributi che ci rendono assolutamente spiacevoli. E una volta messi i suoi figli imperfetti e bisognosi in un mondo pieno di pretese, sottrae la differenza fra ciò che abbiamo, ciò che desideriamo con tutta l’anima e la nostra autostima e la nostra salute mentale.
Ecco che il limbo post-apocalittico e terreno in cui lo scrittore americano confina i suoi personaggi si trasforma con Lincoln nel Bardo in un “non-luogo” metafisico ma concreto, tremendamente umano. E a popolarlo sono spettri, persone morte, una vasta comunità di fantasmi che si imbatte nel giovane rampollo di casa Lincoln appena deceduto. Il romanzo si struttura così in una continua dialettica spazio-temporale tra questo limbo, il “Bardo” del titolo, e il mondo dei vivi, chiamato dalle anime “il posto di prima”, dove un disperato Abraham Lincoln ha smesso di curarsi dei figli della nazione in guerra, troppo preso dal suo lutto personale.
Non è mai rimasto uguale, neanche da un istante all’altro. È venuto dal nulla, ha preso forma, è stato amato, è sempre stato destinato a tornare nel nulla. Solo non pensavo che sarebbe accaduto così presto. Né che ci avrebbe preceduto… Tutto cambia, tutto sta cambiando, in ogni istante.
Chiunque abbia dimestichezza con le religioni orientali avrà colto il rimando al Bardo Tödröl Chenmo, meglio noto in occidente come Libro tibetano dei morti, uno dei testi chiave del Buddhismo Vajrayāna, che descrive le esperienze dell’anima in quell’intervallo tra la morte e la rinascita chiamato appunto il Bardo. È evidente quindi il gioco letterario e filosofico in cui ci spinge Saunders: il melting pot culturale della tradizione si trasforma, all’interno del cimitero ottocentesco di Oak Hill in cui vagano i fantasmi del romanzo, in un pastiche surreale e postmoderno. Vi ricordate Underworld? De Lillo ci aveva già dato un assaggio di questo cortocircuito meta-letterario raccontandoci l’ascesa al ciberspazio nucleare di suor Alma Edgar.
Le numerose anime che popolano Lincoln nel Bardo sono le vere protagoniste del libro, tanto da oscurare con la loro carica espressionistica anche lo stesso presidente che nelle pagine del libro parla solo tramite il continuo flusso di coscienza degli spettri. Gli estinti agiscono sulla carta come la voce plurale del coro di una tragedia greca. Commentano ciò che vedono ma soprattutto raccontano le proprie storie, ossessivamente, come i fantasmi di Spoon River, in una dimensione onirico-allucinatoria che non gli permette di prendere consapevolezza del loro nuovo status. Hanno seppellito nella più remota profondità dell’inconscio il trauma della loro morte. Pensano di essere malati, al più. Bloccati allo stesso tempo nel luogo dove si sono consumati gli ultimi istanti della loro vita terrena e il cimitero dove sono sepolti.
Sto aspettando che mi scoprano (mi sono fermato sul pavimento, testa appoggiata alla stufa, sedia rovesciata accanto, frammento di scorza d’arancia sulla gota) e, quando mi avranno rianimato, intendo andare devotamente a zonzo per il pianeta, suggere, annusare, degustare, amare chiunque mi aggradi; toccare, assaggiare, starmene immobile tra le bellezze del mondo, come per esempio: un cane addormentato che scalcia mentre sogna all’ombra triangolare di un albero, una piramide di zucchero su un tavolo d’acacia che viene ricomposta granello per granello da un impercettibile spiffero.
Le affinità teatrali non si fermano alle funzionalità del coro, perché l’intera sezione ambientata nel Bardo è strutturata come un discorso scenico, cosa che soprattutto all’inizio può suscitare qualche difficoltà di lettura. Ci sono le battute e solo dopo i nomi dei personaggi che le pronunciano. Le parole dei fantasmi prendono così lentamente corpo e soltanto alla fine del discorso si riesce a dare una forma alla voce. Una resa grafica davvero riuscita e originale dell’apparizione di un’entità fantasmatica.
Analogamente le sezioni riferite al mondo dei vivi hanno l’aspetto di un centone di opere storiografiche, di lettere e di testimonianze varie – alcune vere altre inventate, anche qui con i nomi degli autori in calce – e ricostruiscono in un testo narrativo unitario gli ultimi giorni di vita di Willie Lincoln all’interno del nido famigliare. L’effetto sortito è un considerevole ampiamento dei punti di vista, in un romanzo già fortemente corale, tanto da arrivare, grazie alla consueta ironia della penna di Saunders, a una sovrapposizione di battute contradditorie, spie del sempreverde interesse dello scrittore per il ruolo ambiguo dei mass media.
Un elemento comune a tutti i racconti è la luna dorata, che brillava pittoresca sulla scena.
Da “White House Soirees: An Anthology” di Bernadette Evon.
Quella notte non c’era luna e il cielo era carico di nubi.
Wickett, “op.cit.”
Una grossa falce di luna verde brillava sulla scena di quella pazzia come un giudice impassibile, avvezzo a ogni follia umana.
Da “My Life” di Dolores P. Leventrop.
La notte continuò buia e illune, stava arrivando un temporale.
Da “Those Mose Joyful Years” di Albert Trundle
Ma è soprattutto tramite le parole di tre personaggi del Bardo che riusciamo ad entrare in sintonia con i destini dei trapassati e a conoscere la struttura di quel mondo ultraterreno. Questi spiriti sono Roger Bevins III, Hans Vollman e il reverendo Everly Thomas, le guide virgiliane di Willie, che ci descrivono un aldilà tutt’altro che paradisiaco. Il Bardo è un cimitero-giungla irto di insidie, dove vige una sorta di contrappasso dantesco che deforma l’aspetto delle anime in relazione alla vita condotta sulla Terra. Gli stessi spettri hanno perlopiù caratteri scostanti, e risolvono i loro diverbi in risse rocambolesche con cui Saunders evidenzia la loro illogica necessità di contatto fisico. Sembra una rilettura dell’incorporazione paradossale che Jaques Derrida nel saggio Spettri di Marx (1993) attribuiva alle tante manifestazioni degli spettri in ambito politico-economico, “this thing” li chiama il filosofo francese citando l’Amleto, forme fenomeniche e carnali dello spirito.
C’è poi il problema del razzismo, la condizione degli afroamericani è anche in questo luogo subalterna a quella degli altri morti: escono timidamente dalle fosse comuni per essere ricacciati indietro a male parole dagli abitanti bianchi del cimitero. Ultimi tra gli ultimi svolgono la funzione di capro espiatorio che aveva la middle class impoverita e la schiavitù sottoproletaria dei precedenti racconti dello scrittore.
Ed è proprio delineando uno dei personaggi più apertamente razzisti che la traduzione di Cristiana Mennella mostra grande cura per i dettagli. Nella versione originale Saunders definisce “confident aggressive” il fantasma del tenente Stone, un vecchio schiavista che si vanta di aver violentato e maltrattato le sue serve di colore. Mennella utilizza l’aggettivo “rodomontesco”, che oltre alla spavalderia e l’aggressività riesce a sottolineare la natura misogina del personaggio, come quella del Rodomonte di Ariosto, scatenata dal rifiuto amoroso di Doralice. Mennella riesce a dare anche continuità a questa terminologia cavalleresca traducendo più avanti la desueta esclamazione letteraria, “Ye Gods!”, con un analogo e perfetto “Sacripante!”, tenendo intatta, almeno sul piano dell’assonanza, la sfera sacrale del termine.
Ma cosa c’è dopo il Bardo? La paura dei residenti del cimitero sembra riflettere le ansie escatologiche degli abitanti della Terra. Misteriosi angeli seducenti cercano con l’inganno di trascinare fuori dal limbo le anime derelitte verso un ignoto e definitivo oltre. “Sei un’onda che si è abbattuta sulla spiaggia” ripetono, come un mantra. Ma il ricordo dei cari in vita, le emozioni terrene, sono ancora troppo forti in quel luogo.
Qualche volta qualcuno cede e scompare per sempre nella “materialuceradiante”, un’esplosione di energia luminosa preceduta da visioni cinematografiche di passati e potenziali futuri (“e la pelle gli diventò sottile come pergamena e il suo corpo fu scosso da tremiti, e la sua forma cominciò a sfarfallare tra le varie vite che aveva vissuto”) che toccano picchi emotivi raggiunti da Saunders forse solo con Isabelle, uno struggente racconto di accettazione e rispetto condensato in appena sette pagine. Questo è il filo sottile che unisce i due Lincoln, ma anche tutte le anime del Bardo e tutti gli abitanti della Terra, separati dallo strato invisibile che divide due universi solo all’apparenza divergenti, “due realtà transitorie che hanno maturato un sentimento reciproco”. Questo vuol dire soffrire e amare senza soluzione di continuità in un’opera che pur non confermandosi come il capolavoro annunciato, è sicuramente tra i lavori più maturi e ambiziosi – sia nella forma che nel contenuto – di uno dei maggiori scrittori americani viventi.
(Che cos’è?)Era il mezzo che lo trasportava. La cosa essenziale (quella che veniva trasportata, quella che noi amavamo) non c’è più. Anche se fa parte di ciò che amavamo (amavamo il modo in cui lui, combinazione fra mezzo di trasporto e scintilla, appariva, camminava, saltava, rideva e faceva il pagliaccio), questa, questa qui, è la parte più trascurabile di quell’amato congegno. Se manca la scintilla, questa… questa che giace qui è solo…
(Avanti. Pensalo. Concediti di usare quella parola.)
Preferirei di no.
(Non è giusto trasformare questa cosa in un feticcio)
Oh, piccolo mio.
(Se manca la scintilla, questa cosa stesa qui è solo…
Dillo.)
Carne.
Una sciagurata…
Una sciagurata conclusione.