S e Antonio Tabucchi nel suo Racconti con figure diceva “Spesso la pittura ha mosso la mia penna”, allo stesso modo la scrittura di Beatrice Seligardi in Lightfossil sembra esser stata mossa, quasi indotta, dalla fotografia. Lightfossil, uscito per i tipi di postmedia books, muove da due fotografie, entrambe raffiguranti “una donna e un muro”: una è Untitled, l’autoritratto di Francesca Woodman scattato a Roma tra il 1977 e il 1978; l’altra, Défense d’afficher, è stata scattata da Marine Breslauer a Parigi nel 1936. Quarant’anni di distanza tra un’immagine e l’altra, luoghi, contesti, personalità distanti. Eppure, suggerisce la studiosa, entrambe le fotografie rappresentano uno scarto rispetto alla produzione delle due artiste. Da una parte, Woodman copre il suo corpo di norma nudo, dall’altra Breslauer costruisce il set della fotografia, distanziandosi dalle street photograph fino a quel momento predilette. Seligardi parte dalla descrizione e dal commento di queste fotografie per introdurre la sua tesi e per cominciare un viaggio sentimentale alla ricerca del sentimento del tempo.
La studiosa prende in prestito un termine coniato dalla geologia ottocentesca e ripreso dallo storico dell’arte tedesco Aby Warburg, Leitfossil, fossile-guida, “ovvero una tipologia di fossile che è in grado di darci un’indicazione abbastanza precisa circa l’epoca di appartenenza di una stratificazione geologica”. È a partire da questa definizione che il saggio intraprende un percorso a sé stante: se infatti il fossile è “la traccia tangibile, impronta per contatto e perdita di una vita passata di cui è rimasta solo una forma”, allora Seligardi chiama quanto appare nelle immagini prese in esame lightfossil, dove la traccia è la luce:
un sentimento del tempo che ingloba il gesto di immortalare tracce di qualcosa che è stato, ma che facendo questo crea un altro tempo e un altro modo di rappresentare i soggetti, pietrificati insieme agli altri segni di luce che li accompagnano; una figura che emerge e che fa del processo di affioramento una propria cifra, ma senza confondersi con lo sfondo; una giustapposizione misteriosa di elementi il cui significato risiede nell’alludere all’essenza stessa dell’enigma.
La studiosa, partendo dalle due foto, scova poi tutta una serie di altre tracce, di altre immagini-guida attraverso il cinema, la fotografia, la letteratura, la fototestualità, in un viaggio non solo spaziale – dagli Stati Uniti alla Francia – ma anche temporale, dagli anni ottanta dell’Ottocento ai giorni nostri. La capacità di muoversi in ambiti diversi permette a Seligardi di sostenere una tesi forse complessa, per essere racchiusa nello spazio di un centinaio di pagine, ma allo stesso tempo piuttosto suggestiva.
L’attenzione dell’autrice ricade in particolare sulle tecniche degli artisti, che ci indicando dicono molto sulle loro intenzioni, forse più dei contenuti, più delle immagini rappresentate. Per esempio, a proposito della diazotipia scelta per il montaggio iconotestuale di A Blueprint for a Temple di Woodman, racconta:
Il progressivo degradarsi e decomporsi della diazotipia, insieme anche alla sua connaturata monocromia, non può richiamare forse quel processo di mineralizzazione, di pietrificazione all’insegna del
lightfossil? Come se il rapporto con il tempo non fosse solamente esplicito sul piano del contenuto […] ma anche in quello della forma, facendo entrare il tempo direttamente nell’immagine. […] E colei che maggiormente sembra sfuggire al tempo, trasformandosi paradossalmente in una forma del passato, e che occupa il centro di A Blueprint for a Temple e Temple Project, è la cariatide, il corpo che perde i suoi caratteri di vita e movimento, facendosi imitazione della pietra. Eppure si tratta […] di un’imitazione volutamente imperfetta, che marca una differenza precisa con il modello statuario classico.
È proprio a partire da questa interpretazione dei corpi-cariatidi di Woodman che Seligardi si sposta in un altro territorio, ovvero il documentario in Francia, con Agnès Varda e Les dites cariatides, un cortometraggio del 1984. Qui le cariatidi che costellano i palazzi parigini incarnano sì la femminilità, almeno come concepita dallo sguardo maschile, ma si spingono oltre, rappresentano un tempo doppio, quello eterno del loro essere statue e quello dell’hic et nunc dello sguardo della camera, che si muove, e che dunque le muove.
Se Francesca Woodman ha fatto da ponte per Varda e il cinema, Marianne Breslauer è invece il punto di partenza per una lunga sezione dedicata a un oggetto in particolare, che qui assume la funzione di fossile. Il guanto della modella in posa in Défense d’afficher, l’objet trouvé, forse la rappresentazione per eccellenza del feticcio, si ritrova infatti nel ciclo di incisioni di Klinger Paraphrase über den Fund eines Handschuhs (1881). È “un oggetto quasi al di fuori del tempo stesso” e diventa il fil rouge dell’analisi intertestuale che proietta sullo stesso piano l’opera fototestuale di André Breton Nadja (1928, poi 1963) e la serie fotografica romana di Woodman “Storia del guanto”. L’autrice del saggio, ancora una volta, offre un commento ecfrastico alle immagini, confermando una poetica perseguita in tutto il testo. Insistendo sul procedimento associativo, Seligardi poi muove verso il romanzo Swimming Home (2011) della scrittrice inglese Deborah Levy. Anche qui è dimostrata la tesi principale della studiosa, ovvero che quella traccia del tempo di cui si diceva è data dall’immagine, dalla luce, pur se in questo caso generata dalla parola letteraria.
Il centro nevralgico di tutto il saggio resta però, nonostante i continui rimandi ad altre opere, la produzione di Francesca Woodman, che torna infatti nella sezione riguardante un oggetto, e una parola, che proprio nel tempo trova la sua matrice: il calendario. La studiosa mette a confronto Fish Calendar e Angels, Calendar Notebook, in cui la fotografa statunitense interseca ancora una volta testi e immagini, collezionando e manomettendo documenti per “appropriarsi delle tracce del tempo di qualcun altro […] per dire il proprio tempo, mantenendo intatta l’eco del passato”. Anche qui, le opere della fotografa portano altrove, prima alla Suite vénitienne (1983) di Sophie Calle – dal cui commento emergono attenzioni filologiche non di poco conto in termini di ricontestualizzazione dell’opera che da museale diventa letteraria, e in termini di modifica del layout quale strategia semantica piuttosto rilevante nell’epoca dell’iconotesto –; poi con l’installazione di Louise Bourgeois Hours of the Day (2006).
Il libro si chiude con le erasures, le cancellature e le scritture di luce di Mary Ruefle in A Little White Shadow (2006), dove la poetessa statunitense cancella testi preesistenti e mette in evidenza – illumina – come indizi, appunto, un nuovo testo frammentario, seguendo una direzione meta-poetica che emerge dai versi di Ruefle in chiusura del volume: “words/I wonder who wrote you/and if you liked to be alive,/and were sorry to be used by/ time/ because you were gentle and shy”.
Tutte queste tappe suggeriscono che l’autrice stessa sia una flâneuse, e che tra bassorilievi e cariatidi, oggetti indicali e calendari, libri d’artista e fototesti, guidi a sua volta il lettore in un’indagine della creazione artistica; un circuito di enigmi che sono indizi di movimento, di un riaffiorare di qualcosa di atemporale, di sempre sopravvissuto: la luce, l’immagine.