R accontare le vite di individui immaginari è un’arte che J. Rodolfo Wilcock ha portato alle sue conseguenze più esuberanti. Il libro dei mostri (1978), riproposto quest’anno da Adelphi, al centenario della nascita dello scrittore, si compone di brevi scorci pseudobiografici insoliti e talvolta persino inquietanti: tra viscidi intellettuali senza vertebre ma coi tentacoli “del romanziere impegnato” e dispensatori di miracoli imbalsamati in una confezione di plastica, fino al sex symbol ormai letteralmente “in avanzato stato di putrefazione” che sgocciola liquame necrotico, Wilcock ci porta alla scoperta di tutto quello che è la belva umana, nelle sue forme più bizzarre, ibride, composite e decostruite.
I quadretti, uno per personaggio, sono acuti ed esilaranti, e si avrebbe da cercare a lungo per trovarne uno che non riesca nell’intento straniante e dissacratore dell’opera. Il gioco letterario – poche righe per ciascun “mostro” – si presta a svariate pratiche di lettura: il bestiario di Wilcock può essere centellinato, come praline variamente assortite da gustarsi una alla volta, o affrontato tutto d’un fiato in un’unica allucinante tirata. O ancora, si può preservare per quei momenti in cui, come sapeva Roberto Bolaño, che di Wilcock fu un attento lettore, ne abbiamo bisogno per farci restituire l’allegrezza, “come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura”.
Merito dello stesso Bolaño è l’aver ricostruito la genealogia che fa nascere con Marcel Schwob e le sue Vite immaginarie questo genere letterario, parodia che il Tardo Ottocento fa dell’enciclopedismo del secolo precedente. E se Bolaño vi giunge tramite Wilcock, questi a sua volta lo deve a Borges, il suo maestro e modello del “genio totale, ozioso”. Borges era convinto che la vita del singolo, sub specie aeternitatis, si riducesse a un gesto, una parola, un momento che racchiude tutto il senso di un’esistenza. Ed è proprio l’essenziale ciò che l’alchimia ritrattistica di Wilcock cerca di estrarre da ciascuno dei suoi soggetti.
La sua “mente geometrica e mercuriale” – come la definì Vittorio Gassman – vi riesce costruendo un mondo poetico e immaginario tutt’altro che illogico e incoerente. Wilcock gioca con l’infinita potenzialità di ricombinare senso letterale e senso figurato del linguaggio. Così, le sue creazioni si animano per metafora (l’intellettuale con un piede in ogni redazione, giuria e comitato è in tutto simile a un ammasso informe di vermi perché i “parassiti hanno bisogno di enormi quantità di nutrimento”), per iperbole (il mattacchione dagli scherzi di “proporzioni cosmiche” si tramuta in asteroide), per metonimia (il tabagista esasperato dai dirimpettai e confinato a fantasie di sadica rivalsa è diventato il proprio posacenere), per ossimoro (l’esperto di ontologia fattosi nulla che ora “nulleggia e null’altro”) e via dicendo. La tavolozza retorica di Wilcock è in felice sovrabbondanza.
Ma non si tratta di un semplice esercizio di stile. Dietro il travestimento del divertissement c’è il cuore nero di una satira inconsolabile e spietata. Wilcock, infatti, scrive dall’alto di una ricercata solitudine, degna del “dandy straccione” quale era (quando andavano a trovarlo, i suoi amici si prendevano le pulci, ma ciononostante, incapace di rinunciare all’idea della cravatta, metteva in sua vece un laccio per le scarpe). I suoi giudizi al vetriolo sul mondo che lo assedia hanno una brillantezza irriverente e snob che sembra venire dal Dizionario del diavolo di Ambrose Bierce e che non conosce limiti o rimpianti, nemmeno per l’amore, palliativo inefficace, “fiamma che richiede […] per accendersi i gas di una carogna”.
È sullo sfondo del periodo in cui sono stati scritti che molti di questi ritratti assumono il loro senso più compiuto. Il Sostituto Procuratore della Repubblica dott. Branco Oligi, una sorta di Benjamin Button nostrano, è il frutto marcio del giovanilismo. Il minotauro che nasce per partenogenesi da una donna visitata dallo spirito santo di Picasso si darà alla lotta armata. Un demone mal camuffato fa propaganda dell’Inferno come se fosse il paradiso comunista. In questo senso, Il libro dei mostri costituisce il risultato delle osservazioni ventennali dello straniero lucido e visionario che Wilcock rimase. Approdato stabilmente in Italia nel 1957 dopo numerosi vagabondaggi europei e soprattutto dopo aver scelto l’esilio volontario dalla sua nativa Argentina, visse sempre come un ospite inquieto e alieno; non a caso Roberto Calasso l’ha paragonato a Escher, che attraversò gli anni dell’Italia fascista nell’anonimato. Wilcock risiedette in Lazio, adottò la lingua italiana e scrisse per numerosi giornali, ma rimase sempre inintegrabile e perlopiù sconosciuto; persino la cittadinanza gli fu concessa solamente post mortem.
Questo gli consentì senz’altro di disprezzare e schernire col gusto per la beffa libera e perfetta. Come già Dino Risi (I mostri, 1963) e Giorgio Gaber, con le sue creature grottesche Wilcock si prende gioco dei totem della borghesia – la famiglia, la laurea, la carriera, la rispettabilità, il sistema democratico, le ferie, la TV, le nevrosi – ma anche dei suoi tabù: i figli drogati, il terrorismo, l’angoscia senza rimedio. Le critiche più feroci sono dirette al mondo della cultura rispetto al quale rimase ai margini. Tra pessimi poeti con le facoltà cognitive dei tapiri, arriviste con ambizioni politiche che si preparano sui libri del Premio Strega e australopitechi luminari di semiotica e strutturalismo, l’avvelenata di Wilcock non risparmia nessuno.
Ma se la vita dell’autore si è fermata poco prima che sul palcoscenico nazionale si accalcasse il noto circo, forse ancor più mostruoso, di nani e ballerine, il suo sguardo si spinge oltre le mere coordinate storiche e, raggiungendo le profondità, si fa intimo, rivelatore, universale. Descrivendo le miserie di donne, uomini e chimerici ermafroditi come fossero i cadavres exquis del gioco surrealista reso celebre da André Breton e sodali, Wilcock non si limita alla caricatura ma si spinge sino alla radice della condizione umana.
Riportare la realtà così come l’immaginazione la trasfigura ci rende infatti “la forma assurda di quel mostro supremamente scombinato che è l’uomo […] disastrosa velleità di una natura per il resto non priva di gusto”. Se il quotidiano viene messo in ridicolo tramite la sua mostruosa deformazione, essa stessa non è che l’essenza autentica della banalità da cui siamo costantemente assaliti, unica vera bestia immonda.
E così i mostri di Wilcock diventano presto riconoscibili, familiari e domestici, “come noi, come tutti noi”. I loro sogni, le loro illusioni e i loro stravizi sono, in fondo, anche i nostri, e mostruosa è in ultima analisi soltanto la natura che ci accomuna: “tutti siamo portati” dice “a concupire bambine e maestre elementari e tutti siamo, se non ancora una mummia, perlomeno il progetto di una, in grado più o meno avanzato di realizzazione. La sola differenza è nel sarcofago: […] chissà quanto [è] grigio e ordinario il nostro”.
Di Wilcock, Pasolini disse che era, come noi, all’inferno, da cui sapeva che non esistono vie di fuga. Tuttavia, aveva la capacità di irridere dannati e dannazione, il che rende, se non sempre spassosa, quantomeno sopportabile la sua e la nostra condizione di esseri umani, “paradigma del mostro”.