D ue anni fa Roberto Calasso diagnosticò la condizione che viviamo come “l’innominabile attuale”, predominio del pensiero secolare e dei suoi limiti a scapito del sacro. Il libro di tutti i libri si muove, in direzione contraria, verso le storie che compongono l’Antico Testamento.
Già ne L’innominabile attuale l’autore sembrava voler parlare “a chi oggi non appartiene ad alcuna confessione ma al tempo stesso si rifiuta di accettare la religione – o, più precisamente, la superstizione – della società”. Ora, in un continente di templi vuoti e storie deboli, Calasso torna a quelle storie forti che per millenni hanno riempito i templi. Muovendosi da questa prospettiva, Il libro di tutti i libri segue con coerenza i fili del discorso che il suo autore è andato intessendo da quasi quarant’anni: il mito (Le nozze di Cadmo e Armonia; Ka), il sacrificio (L’ardore), l’elezione (K.), il passaggio dalla dieta frugivora all’imitazione dei carnivori (Il cacciatore celeste).
Ma il suo campo d’indagine, questa volta, è tra i più enigmatici. La Bibbia, ineguagliata per clamorose omissioni e contraddizioni inspiegabili, resta infinita, tuttora ineludibile e sconvolgente. Di fronte alle sue storie, i “secoli contati” che E.M. Cioran attribuiva al cristianesimo e al religioso in generale parrebbero ancora lontani. Non a torto Goethe lo definì, appunto, “il libro di tutti i libri”, da cui qualsiasi altro parte per poi tornarvi, e nella cui lettura, dedalo iniziatico, invitava a perdersi e ritrovarsi di continuo.
Le nozze di Cadmo e Armonia si apre con una frase di Salustio, “Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre”, valida anche in questo caso. Lo sguardo di Calasso non è insensibile alla filologia – come altrimenti affrontare un libro composto da una collezione di testi ebraici arrivataci passando tramite il greco dei Settanta al latino della Vulgata fino al volgare in cui la leggiamo? – e ciononostante evita di rimanere invischiato nella pedante miopia di erudizione e accademismo. Tiene conto, altresì, del dato storico: gli Ebrei rientrati a Canaan dall’Egitto non sconfissero davvero Gerico – dicono gli archeologi – ma la trovarono già distrutta, e la vicenda di Mosè non ha riscontro in fonti esterne alla Bibbia, tanto da metterne in dubbio l’esistenza stessa. Importa poco: non si tratta di una ricostruzione storica di fatti accertati. Qui è il racconto a parlare, ed è al sapore massimo di ogni sua parola che si rivolge l’attenzione come metodo critico – persino e soprattutto nei suoi interstizi, nei suoi punti di rottura, nelle pieghe del testo e in ciò che implicano o presuppongono, in ciò che la narrazione omette, o ripete ossessivamente.
La lettura della Bibbia secondo Calasso è a sua volta un invito a rileggere la Bibbia al di là o a prescindere dalle sue innumeri interpretazioni, seguendone il mŷthos e considerandola un intreccio favoloso e unitario (la “fiaba delle fiabe” di Cristina Campo), una biblioteca sterminata ma essenzialmente coesa in cui tutte le storie sono “sinottiche e simultanee” e tutti i versetti collegati a ciascun altro versetto, perché ogni cosa è sullo stesso piano.
Si pensi che di frequente nel testo ebraico i periodi si aprono con la congiunzione vav, spesso tradotta “così”, che meglio corrisponderebbe al nostro “e”. È il potere della paratassi: permette di dire, non di spiegare. E la Bibbia, più che spiegare, capire o consolare, vuole raccontare.
E che cosa racconta questa storia, che secondo una tradizione ebraica il suo autore, il Dio Iahvè, avrebbe avuto come figlia unica e amatissima all’alba di ogni tempo, e che avrebbe dondolato sulle ginocchia, prima di donarla a Mosè e al suo popolo, purché questo non dimenticasse mai di riservargli uno spazio? Ebbene, racconta principalmente di eletti.
L’elezione è un avvenimento innaturale, un sovvertimento dell’ordine delle cose. La storia che Dio vuole scrivere supera, ribalta e nega la legge naturale di necessità con cui si svolgono ordinariamente le cose – legge che, tuttavia, Dio stesso ha creato. È un paradosso che la Bibbia enuncia in più punti, ma a cui saggiamente non intende fornire una spiegazione.
Innanzitutto, coloro che Iahvè sceglie, coloro che riempie di grazia, non sono necessariamente – anzi, non sono pressoché mai – scelti per merito. Il caso del patriarca Abramo è paradigmatico: in 75 anni, scrive Calasso,
non aveva fatto altro che seguire il padre. Nulla lo distingueva, se non aver sposato una donna molto bella, senza averne avuto figli. E ancora viveva al seguito del padre […] Abramo non era re né sacerdote [né] capofamiglia. E non si faceva notare neppure per devozione. Ma soltanto Abramo fu scelto da Iahvè.
O si prenda suo nipote Giacobbe. Aveva raggirato il fratello Esaù, aveva ingannato il padre Isacco per ottenere la sua benedizione, aveva truffato e mentito per avere ciò che desiderava da chiunque avesse incontrato e se l’era sempre cavata, col sotterfugio o con la fuga. Eppure è l’unico, in tutta la Bibbia, a cui si spalancano le porte dell’invisibile, nella forma di una scala che sale ai cieli.
Né Abele, né Isacco, né Giacobbe, né Giuseppe, né Salomone furono primogeniti, mentre nel loro mondo la primogenitura – fatto naturale e indelebile – garantiva un vantaggio e un onore perpetui. Iahvè stesso volle per Sé i primogeniti, per esempio quando li reclamò con l’ultima piaga d’Egitto, la più letale. E ciononostante, i Suoi protagonisti non sono primogeniti, anzi, scavalcano il diritto naturale stabilito dalla primogenitura. La legge a cui obbediscono, o meglio, la legge che li ha scelti, si beffa della legge di necessità che vincola questo mondo. La loro legge è di quell’altro, ed è la grazia. Gli ultimi saranno i primi, si è detto in seguito.
Non la legge di natura, dunque, ma nemmeno l’ordine stabilito da opere e meriti. Qual è infatti il merito di Abele, che sacrificò gli animali, rispetto al demerito di Caino, che sacrificò i frutti della terra? Quale il merito di Sem, figlio di Noè e progenitore degli Ebrei, rispetto al demerito di suo fratello Iafeth, presumibilmente un giusto, che tuttavia non fu scelto? Regna soltanto il puro arbitrio di Dio, cui Abramo dovette obbedire quando gli venne chiesto di sacrificare il figlio Isacco, benché gli fosse stato promesso che proprio tramite Isacco sarebbe passata la sua infinita stirpe. Qui sta la “differenza irriducibile” della Bibbia: è una storia che, prima di ogni altra cosa, non segue leggi a noi comprensibili.
Per questo essere ‘scelti’ è quanto di più terrificante possa avvenire, poiché l’elezione determina l’esclusione dell’ordine naturale delle cose e l’appartenenza esclusiva all’invisibile. La Bibbia parla di “terrore dell’elezione”. Essere scelti significa che la propria storia non è più soltanto propria: è essenzialmente di Dio, e tramite essa passa una storia più grande, insondabile, i cui limiti si estendono oltre il tempo e lo spazio, oltre qualsiasi nostra capacità di pensare una storia.
“Se la grazia agisse soltanto come favore e non come condanna” – si legge nel libro –, se non persistesse inspiegato “il mistero della fortuna dei malvagi e delle sofferenze dei giusti”, vivremmo un mondo
retto da esseri sovrani che lo attraversano illesi. Ma così non è. […] In quali altri modi potrebbe funzionare il mondo? Come un’azienda, dove gli impiegati efficienti hanno un premio di fine anno, mentre gli inefficienti vengono periodicamente adibiti alle mansioni più penose. Così funziona la macchina secolare del mondo. O altrimenti il male potrebbe colpire con piena indifferenza, ignorando il buono e il malvagio. E il bene toccherebbe a chi provvisoriamente sfugge ai colpi del male, per un puro fatto probabilistico. Così funziona la macchina scientifica del mondo. Ma queste due macchine non sono sufficienti per capire la costituzione del mondo.
La Bibbia di Calasso racconta precisamente quest’altra macchina, che ci lascia nello sconcerto come un roveto che arde senza consumarsi, e di fronte alla quale il mondo secolare e scientifico impallidisce.
Saul, per esempio, sapeva bene che essere eletti non significa avere il favore di Iahvè. Un giorno suo padre l’aveva mandato a cercare due asine smarrite. Persosi lungo la strada, aveva incontrato Samuele, un “veggente”. Questi certo poteva mostrargli la via di casa, e invece scelse di rivelargli che era destinato a diventare il primo re d’Israele. “Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui” commenta Calasso. “Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente, come quando camminava per sentieri sconosciuti alla ricerca delle asine del padre, annoiato, distratto. […] Ormai nulla di simile sarebbe accaduto nella sua vita”. La sua storia non era più la sua. Serviva a una storia più grande, in cui lui doveva addirittura interpretare una parte negativa.
La Bibbia non tace che sia una sensazione tremenda, e afferma inoltre che vivere come eletti sotto lo sguardo perenne di Dio sia la massima oppressione. È la condanna e il privilegio del popolo ebraico, ed è ciò che più di tutto lamenta Giobbe, a cui l’incessante attenzione divina toglie il fiato. Kafka una volta
immaginò una scuola dove “il maestro intende fare in modo che la premiazione del migliore sia al tempo stesso una punizione del peggiore”. A questo sarebbero serviti l’allievo più bravo e l’ultimo della classe. Ma se fossero stati – necessariamente, inestricabilmente – uniti nella stessa persona?
Anche ciò che è sacro oscilla tra ciò che deve essere preservato e ciò che viene allontanato o, come suggerisce la parola stessa, sacrificato. L’essere sacro è l’essere eletto, auratico e inestimabile (“The temple is holy” dice il Canto XCVII di Ezra Pound “because it is not for sale”). “Comune a tutti i significati della consacrazione è che un essere vivente o un oggetto vengono sottratti all’uso e alla vita comune. L’invisibile li investe […] non appartengono più a se stessi, perdono ogni pretesa di autosufficienza. È il contrario di ciò che accade nel mondo secolare”. Dopotutto, se non si riconosce l’invisibile, nulla più può essere fatto sacro.
Questa storia di eletti che Iahvè scrive nel mondo si serve di due meccanismi: il divieto e la sua infrazione. E il primo a infrangere i divieti divini è Iahvè stesso. Il più grande nemico di idoli e tentativi di rappresentare il divino creò l’uomo a propria immagine e somiglianza, come il primo di tutti gli idoli. A Davide non perdonò mai di aver mandato Uria a morire in guerra per prendere sua moglie Betsabea, eppure è da Betsabea che nacque Salomone, ed è da Salomone che passa la genealogia da cui venne, un giorno, Gesù. Dio proibisce e condanna, ma la storia che vuole raccontare necessita del male e della trasgressione, e questo, dalla nostra prospettiva, pare inaccettabile.
Perché Dio dovrebbe operare contro Se stesso e la propria parola? Forse perché, su questa via né regolare né “aequa” (così nella Vulgata), non potevano esserci “una necessità, un calcolo, una misura, che escludessero i suoi interventi fulminei e devastanti – o altrimenti salvifici – sulla terra. Non potevano esserci storie, ma una storia: la storia”, racconto che viola le regole umane e persino le regole divine accessibili all’essere umano.
Sta qui il nesso per comprendere quello che è forse il passaggio più sconvolgente della Bibbia, ossia, tra Antico e Nuovo Testamento, il superamento dell’ordine sacrificale col sacrificio unico di Dio a Dio stesso. In precedenza, nel Tempio di Gerusalemme e prima ancora, il sacrificio riscattava la vita con la vita. “Ciò che faceva […] di quei quadrupedi l’unico oggetto regolare delle offerte era [il fatto che erano] vivi. Se il debito era la vita, non poteva essere saldato se non con altra vita. Sempre insufficiente, certo. Perciò gli olocausti andavano ripetuti”.
Poi, secondo il racconto, qualcosa avvenne per cui non sarebbe più stato necessario sacrificare, e il sangue di un unico eletto, questa volta un “essere divino”, sarebbe bastato per l’eternità. Ma così facendo la salvezza contraddiceva o quantomeno abrogava le ancestrali leggi della Tōrāh sulla necessità del sacrificio. E ancor più sconvolgente è il fatto, ben compreso da Simone Weil, che l’“Agnello è in qualche modo sgozzato in cielo prima di esserlo sulla terra. Chi lo sgozza?”. Nell’allusione al Nuovo Testamento, che rimane distante, oggetto – forse – di un’opera futura, Il libro di tutti libri si muove all’ombra di questa domanda impervia e scandalosa, la domanda delle domande, incapace di risposta e per questo in grado di far tremare l’innominabile attuale.