C ome va? Siete stressati in questo periodo? Magari un po’ depressi? Avete poi risolto con quel narcisista patologico del vostro ex-partner? Questa terminologia ha invaso il linguaggio quotidiano a tal punto che non la registriamo quasi più. Gioele Cima, nel suo ultimo libro L’epoca della vulnerabilità, parte proprio da qui, dal rilevare con preoccupazione che la “psicologia ha invaso la nostra vita”.
Il che è singolare considerato che l’autore alla psicologia ha dedicato la sua, di vita: Gioele Cima in psicologia ci si è laureato, è psicologo e ricercatore indipendente. Potremmo aspettarci che sia felice della colonizzazione della società da parte del suo campo di studi; in genere gli esperti di qualsivoglia disciplina si lagnano dell’esatto contrario, dell’insufficiente centralità che la loro prospettiva ha per il resto del mondo. Invece per Cima il problema è proprio questa vittoria tennistica del lessico e dell’apparato concettuale psicologico sul linguaggio con cui oggi, tutti, esperti e non, esprimiamo le nostre emozioni. “L’epoca della vulnerabilità” di cui parla Cima, che comprende gli ultimi vent’anni circa, è il punto di arrivo di una storia iniziata oltre un secolo fa.
Titolo forte, che oggi non può che suonare provocatorio e risuonare con letture critiche del presente provenienti da una certa parte politica. Sulla bacheca di un amico, di fronte alla copertina e tre citazioni estratte da un testo, un commentatore ha dato voce al timore che l’operazione possa diventare la “bibbia dell’Alt-Right”. È forse Cima un Vannacci che ha studiato? Un Jordan Peterson con Lacan al posto di Jung? Un Joe Rogan senza background in arti marziali miste? Non ho intenzione di nascondere Cima dietro un dito e diverse delle conclusioni cui giunge nella sua analisi potrebbero essere condivise da costoro e risultare oltremodo irritanti per chi li avversa.
Ma, anche volendo ignorare le simpatie politiche diametralmente opposte che emergono dal saggio, Cima si distinguerebbe comunque da loro anche solo per la complessità e l’ambizione del suo discorso. Infatti, pur sostenendo una tesi forte e precisa, con un tono spesso diretto e polemico, L’epoca della vulnerabilità si allontana dal pamphlet di occasione per via della sua vocazione sistematica. È a tutti gli effetti la storia della diffusione della psicologia nella cultura di massa che propone una originale periodizzazione degli ultimi 120 anni di “invasione”.
Pur sostenendo una tesi forte e precisa, L’epoca della vulnerabilità si allontana dal pamphlet di occasione per via della sua vocazione sistematica.
Cima individua una storia e una preistoria, spartite da un Anno Zero, il 1980, che segna l’avvento della Cultura Terapeutica e apre un periodo a sua volta distinto in due fasi, Epoca dell’autonomia e Epoca della vulnerabilità. Riassumo brevemente il periodo preistorico per poi illustrare con maggiore attenzione gli anni a noi più vicini. Il primo “colpevole” di questa vicenda è proprio la corrente cui Cima indiscutibilmente appartiene: quella psicoanalitica. Non per niente lo stesso Freud, imbarcato in un viaggio transoceanico diretto negli Stati Uniti, disse che lui e l’amico Jung gli stavano “portando la peste”. E peste fu.
Fuoriuscendo dallo studio del terapeuta, la psicanalisi è stata la prima “dottrina” sulla psiche a diventare cultura, arte, discorso pubblico, chiacchiera. A partire dal secondo dopoguerra, altri orientamenti sfidarono il primato della psicoanalisi contribuendo a farla passare di moda. Cognitivisti, comportamentisti e quell’insieme di approcci che Cima indica come Psicologia Umanista. Secondo Cima, ciò che accade in questo periodo preistorico, precedente alla Cultura Terapeutica propriamente detta, è una iniziale cattura del linguaggio con cui parliamo dei nostri stati mentali da parte di un lessico specialistico che diviene lingua comune, poco capita ma molto abusata.
Paradigmatica è la storia della parola con cui abbiamo aperto questa recensione, lo stress, termine ingegneristico che prima della fortunatissima carriera editoriale dello psicologo Hans Selye, autore di The Stress of Life e molti altri best-seller sul tema, riguardava la costruzione di ponti e non la fatica della vita quotidiana. Nelle sue alterne vicende, mode e contromode psicologiche, il cuore del Novecento segna l’inizio della patologizzazione dei vissuti ordinari ora descritti con il linguaggio medico di questo o quell’approccio “scientifico” alla psiche.
Il processo subisce una svolta, ad un tempo qualitativa e quantitativa, nel 1980 che marca l’inizio della Cultura Terapeutica. Cosa accade quell’anno? Viene pubblicata la terza edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, per brevità noto come DSM-III. Qualcuno avrà notato l’assenza della psichiatria tra i personaggi della preistoria tracciata da Cima. Questo perché, proprio come le due precedenti edizioni del suo manuale di riferimento, la disciplina non era riuscita a farsi cultura di massa. A differenza della psicoanalisi e delle altre correnti terapeutiche che accoglievano nei salotti degli analisti le “persone normali”, piccolo borghesi con qualche problemino da sbloccare, la psichiatria è rimasta per oltre un secolo la scienza che si occupa dei matti da legare, letteralmente. Come testimonia d’altronde anche la storia dell’antipsichiatria, il manicomio era il centro della pratica psichiatrica e solo i soggetti gravi vi ricorrevano, spesso contro la loro volontà.
Il primo “colpevole” di questa vicenda è proprio la corrente cui Cima indiscutibilmente appartiene: quella psicoanalitica.
Tutto cambia con il DSM-III che, a differenza dei predecessori destinati solo agli specialisti, diventa un best-seller commerciale come tutte le sue successive iterazioni, comprese le più recenti. Cima attribuisce questo cambio di passo -che inaugura il primo periodo della Cultura Terapeutica, l’Epoca dell’autonomia- a una serie di fattori che contribuirono al successo della psichiatria contro tutti gli altri contendenti al dominio della psiche dell’uomo medio. Mentre il mondo stava venendo plasmato dalle filosofie neoliberiste e individualiste di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, la psichiatria offrì agli individui una cura di diverse misure più rapida, semplice e, almeno nel breve periodo, efficace di ogni altro approccio terapeutico: gli psicofarmaci. Contemporaneamente il DSM-III propose alla società una griglia interpretativa della psiche che traduceva quasi ogni tendenza caratteriale in un preciso disturbo mentale. Sono centinaia le condizioni patologiche diagnosticate nel noto manuale, una proliferazione di casistiche che è cresciuta a ogni edizione, allargando contemporaneamente i criteri necessari per rientrarvi.
L’individuo dell’epoca d’oro del neoliberismo ambiva appunto all’autonomia: doveva essere un adulto produttivo e funzionale. Se qualcosa si frapponeva tra lui e questo obiettivo, la Cultura Terapeutica dell’epoca gli diceva che aveva un disturbo tal dei tali che, una volta diagnosticato, poteva essere trattato efficacemente e rimettere il lavoratore in carreggiata. La diagnosi non era più un fatto privato, tra il medico e il paziente (spesso neppure noto a quest’ultimo), ma un attributo dell’individuo che contrastava con i farmaci opportuni.
Per Cima, questa fase della Cultura Terapeutica improntata ad “aggiustare” le persone che scoprivano di avere questo o quel disturbo per farle tornare produttive, dura circa vent’anni, fino alle soglie del nuovo millennio. Da altri venti siamo immersi, invece, nell’Epoca della Vulnerabilità che vira la Cultura Terapeutica nella direzione opposta ma mantenendo inalterate le premesse, se non addirittura rafforzandole.
Se nell’Epoca dell’autonomia l’uomo medio aveva un disturbo, nell’Epoca della vulnerabilità è identificato in un disturbo. In questi anni crescono a dismisura le diagnosi di disturbi cronici, trattabili ma non curabili, che accompagnano l’individuo per tutta la sua vita e lo spingono a identificarvisi. Dilagano diagnosi di disturbi dell’apprendimento, forme lievi di autismo, ADHD e prosegue il glorioso cammino di uno dei più fortunati figli delle prime edizioni del DSM-III, il Disturbo Depressivo Maggiore.
La vulnerabilità ha esteso la sfera del patologico in maniera indiscriminata.
“Se l’autonomia gonfiava il Sé di un’ebbrezza positiva, la vulnerabilità lo svuota e lo mortifica, esortandolo a vivere nella perenne insicurezza” scrive Cima e aggiunge: L’autonomia, ottusa e ottimista, relegava nel patologico chi non fosse in grado di adattarsi, quelle esistenze “deboli” incapaci di votarsi al mito della produzione e della carriera.
Al contrario, la vulnerabilità ha esteso la sfera del patologico in maniera indiscriminata. Oggi siamo tutti deboli, tutti fragili, tutti malati. A rimanere a galla sono coloro che accettano questa condizione e la rendono qualcosa di pubblico, che la espongono ovunque senza interrogarsi sulle conseguenze della loro testimonianza. Il web, i servizi pubblici e le piattaforme di tutto l’Occidente sono diventati degli sportelli terapeutici che assorbono informazioni senza fornire nulla in cambio. La confessione delle proprie sofferenze si è trasformata in un soliloquio mediatico fine a se stesso.
Alla base di entrambi gli orientamenti rimane però la presenza sempre più ingombrante del DSM al centro della società e del modo in cui pensiamo il disagio psichico.
A distinguere definitivamente il lavoro di Cima dalle lamentele da boomer sui giovani snowflake che si inventano i disturbi mentali è il rigore metodologico con cui critica frontalmente la base epistemologica di questa epoca, cioè il DSM stesso. Un testo dalle premesse teoriche traballanti, se non inesistenti. Cima analizza che tipo di filosofia informa la foga diagnostica della moderna psichiatria, passa al setaccio l’inconsistenza dei criteri e delle diagnosi cui conducono. Approfondisce, infine, la natura storicamente determinata del manuale stesso e delle patologie che entrano ed escono dal suo novero a seconda delle spinte politiche e dei climi culturali.
La psichiatria ha preteso di accreditarsi come scienza dura con tutto il prestigio e l’indiscutibilità che questo comporta. Pretesa senza dubbio accolta dalla società tutta, dall’uomo della strada agli esperti, passando per tutte le figure intermedie come gli influencer della mental health (rigorosamente in inglese) che spiegano agli altri cose che non hanno chiare neppure loro. Se questa o quella diagnosi può essere messa in dubbio, il DSM è una Bibbia i cui presupposti metodologici sono scolpiti nella roccia; criticarla segnala di per sé una pericolosa attitudine antiscientifica. Peccato che se cinque fisici misurano la caduta di un grave, ottengono lo stesso risultato mentre cinque perizie psichiatriche possono dare e spesso danno cinque diagnosi diverse.
A difesa della tenuta dell’edificio teorico della psichiatria, si ergono inoltre discorsi ricattatori che ammoniscono l’incauto critico ricordandogli tutto il bene che psichiatria e psicofarmaci procurano a migliaia di individui che soffrono. Volete forse abbandonarli a loro stessi o destinarli a dieci anni di infruttuosa psicanalisi? Pur non enunciando esplicitamente questa obiezione, Cima vi risponde a più riprese sottolineando che l’inflazione di diagnosi degli ultimi anni contribuisce proprio a marginalizzare e occultare coloro che versano in condizioni gravi e urgenti.
Ad essere messa in discussione non è l’esistenza della sofferenza psichica ma gli strumenti concettuali con i quali la abbiamo estesa ad ogni manifestazione che devia da una ancora più indefinibile normalità.
Si tratta forse di una distinzione tra “malati veri” e “malati finti”? L’ultimo capitolo del libro si occupa di scartare una simile facile scorciatoia e problematizza direttamente le nostre concettualizzazioni di normale e patologico, due termini inafferrabili che non possono fare a meno di definirsi a vicenda. Ad essere messa in discussione, infatti, non è l’esistenza della sofferenza psichica -che appunto può connotarsi del carattere di urgenza e debilitare gravemente un soggetto- ma gli strumenti concettuali con i quali abbiamo creduto di catturare il “patologico” e, nel corso dell’ultimo secolo, lo abbiamo esteso ad ogni manifestazione che devia da una ancora più indefinibile normalità.
Senza pretendere di offrire risposte definitive ma senza neppure trattenersi nella pars destruens, il saggio di Cima offre validi strumenti per interrogare la concezione contemporanea della patologia psichica anche a chi, a fine lettura, non si troverà d’accordo con lui.