P ubblicato per Marsilio, Leggere possedere vendere bruciare non si lascia presentare facilmente, non essendo né una raccolta di racconti né una silloge saggistica, ma qualcosa che sta nel mezzo fra le due forme. L’uscita, sembrerebbe, non è di quelle troppo reclamizzate, nonostante Franchini sia un autore rappresentativo della nostra letteratura recente e il suo ultimo libro (Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani, NN 2020) sia fra le raccolte di racconti più solide di questi anni. Dirò qualcosa dei quattro verbi del titolo; forse ne dovremo aggiungere un quinto ora della fine, ma intanto cominciamo.
Leggere
All’azione del leggere è dedicato il dittico formato da “Lettore di dattiloscritti”, già pubblicato su Nuovi argomenti nel 1998, e “Le età dell’oro dell’editoria italiana”, recente aggiornamento sul tema. Una caratteristica della prosa di Franchini è saper sviluppare una riflessione argomentativa a partire dalla propria esperienza personale, declinata spesso in forma di aneddoto. Questo è in generale un procedimento a rischio di dispersione, che Franchini sa gestire invece con padronanza, riuscendo ad allineare il piano della riflessione e quello della narrazione e facendo sembrare questo slittamento del tutto naturale.
Tale caratteristica emerge chiaramente dai due saggi dedicati alla sua esperienza pluridecennale nel mondo dell’editoria, che dopo una lunga permanenza in Mondadori lo vede oggi ricoprire il ruolo di direttore editoriale di Giunti. Chi scrive, dunque, è una delle figure cardinali dell’editoria italiana degli ultimi decenni e l’autorialità del libro è costruita anche a partire da questo presupposto.
La capacità di osservazione di Franchini e la sua verve analitica lo rendono uno dei pochi aforisti credibili della nostra letteratura.
Il fatto che i due testi più esplicitamente legati all’autobiografia professionale di Franchini costituiscano gli estremi di un arco cronologico ampio evidenzia il carattere generazionale del libro, nel quale si compie un bilancio lavorativo e personale, effettuato in modo abbastanza serio da non risultare serioso. “Lettore di dattiloscritti” condivide l’attitudine anti-demistificatoria di un libro come Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio 1996), nel quale le riflessioni più ficcanti sulla letteratura scaturiscono dalle ferite di un soggetto in grado di accettare la ridicolaggine di ogni partito preso letterario difeso con eccessiva rigidità. La capacità di osservazione di Franchini e la sua verve analitica lo rendono uno dei pochi aforisti credibili della nostra letteratura d’oggi, come si evince da questa cerniera in cui l’autore, indossando la maschera del “cinico sentimentale”, commenta il proprio saggio di venticinque anni prima:
Da qui il tono memorialistico e definitorio, che senz’altro non si addiceva all’età che avevo e forse neppure alle esperienze che fino a quel momento avevo fatto. La cosa al tempo mi fu fatta notare, ma non mi creava un disagio particolare perché appartengo alla categoria di persone che, forse per non fare mai veramente i conti con se stesse o per scongiurare bilanci drammatici e definitivi, amano fare ogni tanto, e da molto presto, verifiche parziali, una specie di periodico punto della propria rotta. Il risultato è che costoro da giovani ostentano una precoce pensosità senile e da anziani un possibilismo ancora interlocutorio, come se i giochi non stessero per chiudersi o non si fossero già chiusi per sempre.
È questo genere di lucidità che anima le pagine migliori di “Lettore di dattiloscritti” – più interessante a mio avviso rispetto alla sua controparte posteriore –, che introduce chi legge al punto di vista che può avere sulla letteratura chi sia entrato ancora giovane nell’orbita dei processi, più o meno formalizzabili e razionali, che permettono o impediscono a un libro di venire alla luce. Il rapporto che il lettore editoriale ha con la letteratura è infatti intrinsecamente diverso da quello che possono avere altri attori del sistema editoriale (autori, lettori, insegnanti…), dal momento che si colloca prima dell’immobilizzazione di un testo nella sua forma definitiva, prima cioè del suo riconoscimento commerciale e istituzionale, quando esso è ancora un oggetto che partecipa della dimensione della possibilità. Più o meno è la differenza che in italiano corre fra le espressioni a monte e a valle: dall’alto si vedono cose che dal basso non è dato vedere (e viceversa, cosa che Franchini ammette candidamente). Alla questione del riconoscimento sociale, e delle ansie che esso può generare, sono legate in ultima istanza alcune interessanti riflessioni sulle migliaia di lettere di accompagnamento che un lettore di dattiloscritti riceve nel corso di una carriera:
Siamo i discreti depositari dei più farneticanti narcisismi, di querule recriminazioni, imprevedibili debolezze, perdite di senso della realtà, delle più macchinose manie di persecuzione e dei più patetici entusiasmi. […] Ma una lettera d’accompagnamento, nella prevedibilità o nella bizzarria delle sue varianti, è sempre una messa in scena. Che la si scriva semplicissima o buffonesca, è comunque una posa: una contraffazione di sobrietà o d’istrionismo.
Qualcosa di simile aveva scritto Ben Lerner in un pamphlet del 2016, The Hatred of Poetry, tradotto l’anno successivo da Martina Testa per Sellerio con il titolo Odiare la poesia. Raccontando la sua esperienza di curatore di una piccola rivista di poesia, anche Lerner commentava il contenuto e il tono di molte lettere di presentazione speditegli da poeti in cerca di pubblicazione: “È come se la poesia reale e la reale pubblicazione non contassero: ciò che conta è che il poeta sappia e possa riferire ad altri di essere un poeta pubblicato, onore che nessuno – né la Morte, né la morte sociale dell’esclusione dalla Legge – gli potrà togliere”.
L’accesso a un punto di vista interno al mondo editoriale, che l’autore è in grado di relativizzare con una certa mobilità, è istruttivo e risulta fra i maggiori motivi di interesse del libro: “Chi ha lavorato molto da vicino con gli scrittori è l’ostetrica che sa come nascono i bambini, chi legge i libri stampati fa fatica a immaginare che i neonati veri siano diversi da quelli che si vedono nelle pubblicità di pannolini”. Il tono di Franchini si mantiene al di qua del paternalismo settario nei confronti dei non addetti ai lavori e nemmeno ostenta quel falso disprezzo che molti intellettuali riservano alla macchina editoriale di cui pure oliano – o olierebbero di buon grado se chiamati in causa – gli ingranaggi.
Sottolineare senza crudeltà né infingimenti gli elementi di narcisismo annidati in ogni intrapresa letteraria – beninteso, anche lo scrivere una recensione come questa – risulta liberatorio per chi legge in un’epoca dove l’ansia di distinguersi attraverso la cultura è stata naturalmente amplificata dai social. Il libro suggerisce che una maggiore consapevolezza della propria piccineria, non importa se potenziale o realizzata, può rendere il nostro bisogno di essere riconosciuti meno ridicolo, ammesso che la consapevolezza della propria ridicolaggine renda meno ridicoli.
Chi ha lavorato molto da vicino con gli scrittori è l’ostetrica che sa come nascono i bambini.
Non inganni quindi il titolo del secondo saggio del dittico sulla lettura: uno dei meriti del libro è di contribuire allo scrostamento di alcune mitologie resistenti sulla presunta età dell’oro dell’editoria italiana. Qui Franchini non cade in facili nostalgie sul piano professionale, tranne quando si trova a rievocare alcuni personaggi che hanno segnato la sua vita, non solo lavorativa. Se la capacità ritrattistica dell’autore ne esce confermata, mi chiedo però quanti fra i lettori più giovani o privi di conoscenze specifiche sul mondo editoriale italiano possano essere interessati alla mitologia vintage interna a una grande casa editrice, soprattutto in quei casi, pochi in realtà, in cui una riflessione più generale non intervenga ad espandere la capacità simbolica del singolo spunto aneddotico.
Possedere/Vendere
A questi verbi rimandano rispettivamente i due testi più narrativi della raccolta, il toccante “I libri di mio padre” e il racconto “Memorie di un venditore di libri”, già pubblicato in modo autonomo con Marsilio nel 2011. Una parentesi: nell’era dell’economia dell’attenzione e del capitalismo cognitivo, mi sembra che alla veloce degradazione delle precondizioni senza le quali non esiste lettura corrisponda una triste feticizzazione del libro, ora difeso come un panda, ora trattato come oggetto di un culto iniziatico, ora utilizzato come protesi autopromozionale. L’apparente paradosso è quello per cui nel momento in cui manca una presa di coscienza della natura economica dell’impresa editoriale e di come essa debba volente o nolente adeguarsi alle leggi di un sistema molto più ampio e complesso, il nostro rapporto con la letteratura diventa più feticistico:
Ero a disagio, lo ero perché pensavo di sapere molto della scrittura, ma quello che in quegli anni di lavoro in casa editrice stavo imparando è che la scrittura è un mercato. Non necessariamente un turpe mercato, ma un onesto, decoroso e sofferto mercato. Che la scrittura sia invece soprattutto un chiuso bisogno, una necessità istintiva, dolorosa, irriflessa, che sia un atto necessario che non porta a niente se non a sciogliere un’oppressione, a sfibrare una pena, questa verità elementare me l’ero dimenticata.
Un chiuso bisogno, bella definizione. Anche la lettura è un chiuso bisogno o almeno dovrebbe esserlo. Cosa accade quando questa chiusura è sempre più difficile da garantire? Quando tutto sembra negare la chiusura di qualsiasi bisogno e intorno ne vengono apparecchiati altri di più immediata soddisfazione? Più mancano le condizioni cognitivo-attentive necessarie alla lettura, più si compilano commoventi apologie del libro e onanistici manualetti su come ordinare le nostre biblioteche traboccanti di titoli non letti o letti male. Mi viene in mente mentre scrivo che How to be Alone (2002) è il titolo, azzeccatissimo, di una raccolta di saggi di Jonathan Franzen che riflette su alcuni dei temi toccati anche da Franchini e che varrebbe la pena riprendere in mano.
Più la nostra lettura si fa pubblica e scorporata, più l’attraversamento della solitudine che essa richiede – come, per altri versi, la richiede la scrittura – comporta un disagio che ci sembra sempre più insopportabile proprio perché contrario all’idea spettacolare di editoria (di letteratura, di vita) ormai diventata corrente. Paradossalmente proprio questa solitudine è in grado di riconnetterci agli altri leggendo una poesia o seguendo le vicende di personaggi fittizi. In questo senso, il breve e toccante testo d’apertura (“I libri di mio padre”), insistendo sull’analogia corporale che lega la carne alla carta stampata, propone in modo implicito una visione antitetica a quella appena descritta, un’idea di rapporto col libro al contempo affettivo e viscerale, comprensivo dunque dei dazi imposti dal sangue. Il racconto si fa dunque meditazione sul trascorrere del tempo, sulla morte e sul senso di un’eredità che i libri, non importa se posseduti fisicamente o meno, contribuiscono a rendere più tangibile scandendo silenziosi le diverse età della vita.
“Memorie di un venditore di libri” è invece incentrato sulla figura dell’“eroe indegno” Procolo Falanga, un venditore di libri che l’autore racconta in una nota di aver accompagnato durante un giro di vendita nella costiera amalfitana presso i cosiddetti punti vendita stagionali, “edicole, empori, mercerie, casalinghi situati in luoghi di vacanza che soltanto in estate si ricaricano anche di libri per soddisfare la svagatezza di una clientela incerta tra un bestseller e un paio di infradito, una crema solare e un classico del pensiero”. Il mantra martellante di Procolo Falanga (’E libri nun se so’ venduti maie!) incrina la campana di vetro del bibliomane, obbligato ad aprirsi in questo racconto al mondo del non-lettore con il quale da sempre – ammonisce Falanga – l’editoria italiana fatica a dialogare e che rappresenta la larga maggioranza delle persone che incrociamo ogni giorno sull’autobus o dal panettiere. “Memorie di un venditore di libri” offre una seggiola scomoda, mostrando uno spettacolo prosaico, ma senza dubbio istruttivo, nel quale sono rappresentati alcuni aspetti poco gradevoli della “compromissione mercantile” del circuito editoriale, che però è bene tenere presente per farsi un’idea meno favolosa e forse più realistica di cosa accade all’interno e ai confini della civiltà del libro.
Bruciare/Dimenticare
Come Lerner si sofferma sull’utilità contrastiva delle brutte poesie, che ci fanno percepire il bello sottolineando in modo involontario la forbice che da esso le separa, anche Franchini apre l’ultimo testo della raccolta, “Bruciare”, con un elogio dei brutti libri, spesso sottovalutati nel discorso culturale nel loro essere un lasciapassare per letture considerate più degne e raffinate. Questo pregiudizio è aggravato dal fatto che in Italia qualsiasi libro a cui accada di vendere parecchio inizia a essere percepito come più brutto (o comunque come meno bello). Il libro si chiude con alcune considerazioni dell’autore sui roghi di libri, un’immagine ricorrente nella nostra letteratura recente, da Works (Einaudi 2016) di Vitaliano Trevisan a Flashover. Incendio a Venezia di Giorgio Falco e Sabrina Ragucci (Einaudi 2020). Le annotazioni di Franchini sul tema non fanno abbastanza massa da giustificare un indugio, alludendo forse al quinto verbo, dimenticare, non tematizzato nel titolo ma continuamente ritornante nel libro: verso questo verbo, infatti, che esprime l’unica azione davvero infinita, convergono in ultima istanza gli altri quattro.
Alla veloce degradazione delle precondizioni senza le quali non esiste lettura corrisponde una triste feticizzazione del libro, ora difeso come un panda, ora trattato come oggetto di un culto iniziatico, ora utilizzato come protesi autopromozionale.
La sociologia della letteratura ci ha insegnato che l’oblio è il destino che, presto o tardi, tocca alla stragrande maggioranza dei libri, come ha mostrato in modo eloquente Robert Escarpit in un saggio del 1970. In questo testo, tradotto in italiano come Successo e durata delle opere letterarie, si sottolinea fra le altre cose come il passaggio di testimone fra generazioni diverse sia l’unico modo in cui un autore può sperare di sopravvivere dopo la sua morte e quella dei lettori coetanei che hanno contribuito a costruirne la fama. Un libro generazionale, si era detto all’inizio. Anche Franchini, infatti, non manca di soffermarsi su questo aspetto:
La scrittura e lo stile hanno sicuramente una loro dimensione eterna, ma anche una storica e una addirittura generazionale, e ciò che per una generazione è bello, o sopportabile, a un’altra può apparire estraneo o inaccettabile. […] È certo, e adesso me ne rendo acutamente conto, che gli editor sviluppano, invecchiando, una solidarietà verso gli scrittori coetanei che gli editor più giovani non sentono affatto, quando non avvertano il desiderio di volersi disfare una volta e per sempre perlomeno dei rappresentanti più mediocri delle generazioni che ritengono sorpassate.
Il tema dell’oblio si salda con la metafora del fuoco nel momento in cui Franchini si trova a descrivere l’attuale situazione dell’editoria italiana ricorrendo alla metafora del cambiamento climatico. L’accostamento funziona proprio perché non è esasperato da registri apocalittici e tribunalizi che comunque sarebbero estranei alla tastiera dell’autore. Questo è un momento chiave del passaggio di testimone che Franchini sta effettuando nel compilare il bilancio della sua attività, che spiega in parte il senso di rivedere e incorporare in un nuovo libro scritti in parte già pubblicati. Qui Franchini sta descrivendo la sua percezione dell’attuale stato di salute dell’editoria italiana dopo il picco commerciale rappresentato dai primi anni del millennio, cui ha fatto seguito negli ultimi tempi da una fase di contrazione:
L’editoria libraria è un mercato piccolo, del resto, e si gonfia e si sgonfia con una certa rapidità, come ha sempre fatto, e allora altri momenti buoni certamente seguiranno in futuro, anche se il mondo è cambiato e i successi arrivano senza sedimentare, senza scavare, senza mettere radici, come pioggia torrenziale o fiammate alte e brevi sopra una crosta smemorata e impermeabile di terra.
A livello argomentativo Franchini non va molto oltre e questo non sarebbe comunque il libro per farlo. Dal suo discorso si desume come a questo mancato assorbimento nella memoria collettiva contribuisca la proliferazione delle pubblicazioni, che non viene tuttavia demonizzata ma accolta come un segno dei tempi. Ad essa sembrerebbe collegata la progressiva accelerazione di tutte le mediazioni che portano un testo a diventare un libro, con tutte le conseguenze che questo procedimento porta con sé.
Forzando un po’ la mano col paragone cognitivo precedentemente avanzato, il bombardamento di stimoli non si traduce sempre, anzi quasi mai, in qualità della ricezione. Per quanto riguarda i social, Franchini si limita a registrare con relativa equanimità come essi abbiano cambiato il gioco dell’editoria andando a costituire un “terzo polo”, impossibile da trascurare, del rapporto fra editore e pubblico. L’accenno al cambiamento climatico lascia oscuramente sospeso il problema dell’esistenza stessa delle generazioni in grado di portare avanti questa secolare catena di sant’Antonio che chiamiamo letteratura, sulla cui lunghezza non ci sentiamo più di scommettere con leggerezza. Chissà che la convulsa e sgangherata accelerazione di tutta la macchina culturale non tradisca anche quest’ansia di fondo.
Qui mi pare si fermi il contributo al discorso offerto dal libro di Franchini, che praticando la sua collaudata miscela non-finzionale ha proposto alcuni spunti sui quali mi sembrava valesse la pena riflettere, in parte riformulandoli: si tratta di spunti spesso obliqui, è bene precisarlo, da maneggiare con cautela per la natura ibrida del contenitore, ma che a mio avviso tracciano un quadro coerente, come testimoniato anche da questa intervista del 2018 realizzata da Alessandro Mantovani. Ad altri toccherà raccogliere il testimone passato da questo libro o eventualmente lasciarlo cadere. Per parte mia, non posso che auspicare la prosecuzione di un dibattito su questi temi e fare mia la suggestione per cui un confronto più sereno con il concetto di oblio possa essere un anticorpo a quell’ansia di riconoscimento che la società spettacolare ha tutta la convenienza a mantenere ipernutrita in tutti i suoi utenti-clienti.