C ome e più di ogni altro libro di Mari, Leggenda privata è un testo comandato. Una misteriosa Accademia, residente nei luoghi più reconditi di un’antica casa sul lago (quella di Verderame e di alcuni racconti, per chi conosce), pretende dallo scrittore nuovo materiale autobiografico, non paga di quanto già prodotto negli anni: quell’ormai vasto corpus letterario che tocca pressoché tutti i livelli dell’autobiografismo, dal diario (Filologia dell’anfibio) alla trasposizione fantastica a partire da una matrice reale (Di bestia in bestia, Io venìa pien d’angoscia a rimirarti, La stiva e l’abisso, alcuni racconti di Euridice aveva un cane e di Fantasmagonia, Tutto il ferro della torre Eiffel), fino a racconti e romanzi in prima persona “anagrafica” come l’ormai quasi classico Tu, sanguinosa infanzia e Rondini sul filo. Ma non basta: gli “Accademici” vogliono andare più a fondo, vogliono forzare la mitologia personale che lo scrittore milanese ha meticolosamente edificato in quasi trent’anni di attività per entrare nella parte più molle, sensibile, indifesa: il “bio” dell’auto-bio-grafia.
Ed ecco che, dopo alcuni tentativi insoddisfacenti, colui che ha imbastito la propria identità letteraria su un determinismo spietato che dal bambino solo e nevrotico, protagonista dei suoi libri, conduce allo stilista crudele e raffinato che in quegli stessi libri parla, deve retrocedere di un passo nella catena di cause che l’hanno prodotto, nell’anamnesi della stortura. E quale causa più cogente per andare all’origine, alla genesi, se non, appunto, i genitori? È così che scopriamo, in queste pagine bellissime, in questo romanzo famigliare diverso da ogni altro, essere Michele Mari “nato da un amplesso abominevole”, quello tra due individui, padre e madre, così diversi e antitetici da riassumere e prefigurare le scissioni di cui lo scrittore non ha smesso di parlare in ogni suo libro: corpo e spirito, materia e forma, sesso e intelletto, alto e basso, snobismo e vergogna, impotenza e creatività. Enzo Mari, il padre, non ha bisogno di presentazione: grafico e artista di fama internazionale, uno dei riferimenti del design italiano degli anni Sessanta e Settanta, nato da famiglia umilissima di pugliesi emigrati al nord, e la madre, Gabriella Ferrario – in arte Iela Mari – artista e illustratrice di libri per l’infanzia, di buona estrazione borghese e settentrionale, cresciuta con gente come Buzzati e Montale che girava per casa.
Due mondi sociali ma anche due universi emotivi antipodali: rigido, pragmatico, coriaceo e intransigente censore di ogni concessione alla fragilità (“all’intersezione di Mosé con John Huston”), il primo; introspettiva, volubile, malinconica, la seconda (“una perfetta macchina di dolore”, ma anche “ultracorpo” agli occhi dei giovane Michele, che non capendone i bruschi sbalzi bipolari finisce ad allucinarla come un fantoccio colonizzato da entità aliene). È difficile rendere in poche righe lo spessore e la complessità dei ritratti frammentari dei genitori che ci restituisce questo libro (e che si estendono fino a comprendere i nonni paterni e materni in una sorta di anti-saga famigliare), sempre filtrati dallo sguardo del bambino strattonato tra due mondi, condannato alla scissione. La vena confessionale di Mari tocca in queste pagine alcuni dei suoi punti più alti, gli angoli più scabrosi della personalità sono messi a nudo in un viaggio infero nella vergogna affrontato con coraggio e spregiudicatezza, comprese le tappe di una difficile educazione sessuale racchiusa tra lo spauracchio di diventare “culattina” (questo il termine usato dal padre) e spostamenti feticistici a sublimare il desiderio inappagato (vedi lo zoccolo più sotto).
Per gli argomenti trattati viene da paragonare quest’ultimo libro al già citato Rondini sul filo – durissimo autoritratto dell’artista come uomo ossessivamente geloso – che Mari ha dichiarato di non voler neppure riaprire, unico suo libro, in effetti, a non avere avuto ristampe. Una più lieve e salubre patina ironica viene tuttavia a stemperare la cupezza di Rondini sul filo, collocando Leggenda privata da qualche parte a metà tra quello e Tu, sanguinosa infanzia. Come negli altri due, anche nel nuovo romanzo l’elaborazione formale non cede mai il passo alla crudità fattuale degli eventi narrati (Mari è lontanissimo dagli che scrittori che pensano basti squadernare la propria interiorità per ottenere buona letteratura), sia nello stile – come sempre manierato e densissimo (soprattutto nella prima parte) – sia soprattutto (ed è questo, insieme al primo piano concesso ai genitori, tra i tratti più originali del romanzo) nella “tecnica letteraria” della memoria qui adottata. Il bambino coglie (e l’adulto coltiva) ossessive ricorrenze: oggetti, parole, paroline, eventi carichi di senso e scolpiti in una memoria la cui potenza è pari solo alla precisione e al gusto masochistico con cui il materiale rimembrato è cristallizzato, inserito in una trama di significati, collocato in uno spazio definitivo come simboli ermetici dipinti su uno stemma araldico.
Le foto che danno un volto ai protagonisti riproducono l’atmosfera tesissima dei rapporti famigliari, forzando l’intimità dell’album di famiglia per trasformarsi a loro volta in figure più universali, illustrazioni della leggenda.
Mari non si limita a raccontare il passato ma ne fa, parallelamente, una sorta di stenografia, a tratti di difficile comprensione, composta di lemmi, segnature tassonomiche, etichette, parole-chiave. Se la leggenda privata richiede una lingua privata e un lessico (più che famigliare) privato, Mari raccontandosi scrive anche la lingua della sua vita, o almeno della sua infanzia. Un lessico e una grammatica della memoria che costituiscono altresì una mappa: come nelle antiche tecniche della mnemonica il narratore costruisce, frammento dopo frammento, lemma dopo lemma, una sorta di edificio interiore stipato di feticci, nomi che cabalisticamente nascondono altri nomi, oggetti associati bizzarramente, emblemi, imagines agentes. Un esempio tra tutti: “le immagini potentissime, immagini del divino, quali poi elaboravo fantasticamente in vicende estenuanti” della barista concupita (etichetta: “la Dominatrice miope” o anche “Donatella-Ivana-Loretta”, sineddoche principale a lei associata: uno zoccolo), oggetto cruciale delle fantasie erotiche di un ragazzino attratto dalla volgarità e dall’umiliazione come reazione agli “zaratustrici apoftegmi” del fiero padre.
E non possono mancare, nel selettivo ma affollato arredamento di questo palazzo della memoria, gli spettri, i mostri, creature ctonie e lovecraftiane – specchio alla vocazione orrorifica dello scrittore, nonché ai suoi onnipresenti modelli gotici – un rigoglioso pantheon pagano di paure reificate in esseri dai nomi (ancora nomi) molteplici e inquietanti come il Mucogeno, la Vecchia , la Sagoma, Quello che Gorgoglia, Quello che Ansima, Quello che Biascica, Quella con il Velo, Quella dalle Orbite Vuote. Sono loro i rappresentanti della Accademia (anzi, delle due Accademie) che comandano il libro, pretendendo dallo scrittore la stesura dei suoi ricordi più torbidi e dolenti. Sono loro a intimare l’impresa auto-bio-grafica, loro che lievitano la pasta sfoglia verbale.
Altra peculiarità di questo romanzo su cui vale la pena spendere due parole è l’uso delle fotografie di famiglia: didascaliche ma puntuali, le immagini scelte dallo scrittore scandiscono il testo come prove di quelle che potrebbero ancora sembrare, agli occhi di un lettore scettico, delle iperboli letterarie (“Uscitone, e considerando dalla specola alta, tutta quella pena e quel turbamento diventano letteratura: ma a starci dentro garantisco che non lo erano, letteratura”). Le foto che danno un volto ai protagonisti riproducono, nell’involontaria fedeltà dello scatto, l’atmosfera tesissima dei rapporti famigliari, forzando l’intimità dell’album di famiglia per trasformarsi a loro volta in figure più universali, illustrazioni della leggenda.
L’impressione è insomma che Mari, per talento o necessità, pur facendo autobiografia in senso stretto, miri dritto all’archetipo, riducendo al massimo ogni notazione storico o sociologica e affidandosi piuttosto a un metodo di trasfigurazione, per così dire, “mitico-psicanalitico”. L’intimità dei ricordi è articolata in una lingua magica e iniziatica, nomi e oggetti potenti scandiscono i rituali famigliari, l’aneddoto diventa parabola e favola nera. Leggenda privata è un oggetto letterario incantevole e inquietante, degno di rilettura e studio, ed è chiaro che ci troviamo di fronte a un’opera che ambisce a restare, a durare nel tempo, con ottime probabilità di riuscirci. Come ogni libro di Mari d’altronde, ma meglio di altri: nella mia del tutto soggettiva opinione, Leggenda privata si colloca nella top five dei suoi testi migliori. Unico difetto per il lettore egoista sempre avido delle altrui sventure: la brevità.