V
incenzo Latronico è tra le voci più nitide della generazione dei geriatric millennials, che poi sarebbe la mia. Pur ammirandolo come traduttore e saggista avevo guardato alla sua narrativa con sospetto: la scrittura di Ginnastica e rivoluzione e La mentalità dell’alveare mi pareva consapevole al punto da risultare algida; dominante ne era la cancellazione, il far perdere al lettore le tracce delle proprie esitazioni. Non mi aspettavo qualcosa di diverso da Le perfezioni (Bompiani, 2022), tanto più dopo aver letto che questo romanzo breve aveva avuto origine come un esercizio a partire dal romanzo Le cose di Perec per riprendere a scrivere dopo anni di silenzio editoriale.
Mi sono dovuta ricredere: se lo stile di Latronico pare nato per materializzare quel detto di Greene per cui allo scrittore è indispensabile una scheggia di ghiaccio nel cuore, qui la scheggia ha lavorato a dovere. Le perfezioni riesce là dove i celebrati romanzi di Sally Rooney si smagliano, facendo propria la legge d’oro dei maestri dell’OuLiPo: abbracciare una contrainte, vincolo che regala libertà. La prima consiste nell’abbandono volontario del dialogo, elemento caratterizzante che, per mantenere il confronto con Rooney, rendeva i personaggi di Normal People o Conversation with Friends emanazione della sapienza dialettica dell’io scritturale, finendo per riuscire solo là dove (nei pillow talks, ondivaghi come nella vita vera) la voce della posa non ispessiva la pagina. Punti sul piano derivanti dall’intersezione tra l’ascissa e l’ordinata di classe e genere, i protagonisti dell’autrice irlandese risultano per paradosso “del tutto privi di mistero” (Lauren Oyler dixit); Latronico invece traduce l’ipercoscienza dell’esordio in abbandono, giocando sul filo della sottodeterminazione.
Le perfezioni riesce là dove i celebrati romanzi di Sally Rooney si smagliano, facendo propria la legge d’oro dei maestri dell’OuLiPo: abbracciare una contrainte, vincolo che regala libertà.
La voce narrante delle Perfezioni allenta la presa, abbassa le aspettative (così pare) al minimo. Ogni volontà di conferire tridimensionalità ai personaggi di Anna e Tom al di fuori dell’unità cellulare della coppia è lasciata da parte per dar spazio a un filtro sfumato che ne oscura i lineamenti come i timbri di voce. Di loro come singoli sappiamo poco e niente, se non che lavorano come graphic designer, hanno all’incirca trent’anni, vivono all’estero da quasi dieci. Un po’ come nella copertina firmata dall’ottima Clara Rubin, ogni altra presenza umana resta fuori dall’inquadratura; delle loro famiglie, degli amici o conoscenti ignoriamo tutto (se non qualche cuoricino su Instagram nel capitolo quattro), ma la cosa non ci disturba affatto. Come Sylvie e Jérôme di Le Cose, ci lasciamo sedurre dall’elemento cui nel racconto viene lasciato più spazio: vedute d’interni, oggetti descritti con fare iperrealistico e vischioso, in controcanto alle volatili immagini dei feed che, direbbe Bredekamp, ci guardano. Inevitabile conseguenza, il gioco del rispecchiamento cui veniamo invitati sin da pagina uno:
La luce del sole si riversa nella stanza dal bovindo, tinge di smeraldo le foglie traforate di una monstera tropicale vasta come una nube, va a riflettersi sul pavimento a doghe larghe del colore del miele. Gli steli sfiorano appena lo schienale di una poltroncina di taglio scandinavo, su cui è poggiata una rivista aperta col dorso verso l’alto. Il verde smagliante della pianta, il rosso della copertina, il petrolio dell’imbottitura e l’ocra chiaro del pavimento risaltano contro il bianco polveroso delle pareti, richiamato da un angolo di tappeto chiaro che svanisce nei margini dell’immagine. […] La cucina ha le piastrelle in rilievo lucide, rettangolari; il ripiano di legno spesso; il lavabo all’inglese di ceramica rialzata; i pensili a giorno coi barattoli da farmacia col riso e le granaglie e le spezie e il caffè; i piatti di smalto blu e bianco; la sbarra passante con appesi paioli di ferro non trattato e mestoli di legno d’ulivo. Sul piano c’è il bollitore di acciaio spazzolato e la teiera giapponese, il frullatore rosso. Ci sono i vasetti di coccio con gli odori sul davanzale della finestra, basilico e menta ed erba cipollina ma anche erba pepe, maggiorana, coriandolo, aneto. Il tavolo è una vecchia spianatoia di marmo, le seggiole sono recuperate da una scuola. Lo illumina una lampada a fisarmonica, assicurata alla parete fra la litografia botanica di un’araucaria e la riproduzione di un manifesto britannico dei tempi della guerra.
Potremmo disegnarne una piantina, se solo ne avessimo voglia, di questa casa all’incrocio tra Anderson (luce), Sottsass (linee), Hopper (colori), versione aggiornata delle polverose pensioni di Balzac; non avremmo difficoltà a tracciare i contorni delle lampade di design, la “matericità delle terrine di coccio, delle cocotte di ghisa” in cui immaginiamo vengano mantecati deliziosi risotti light rubati al ricettario del Times. È nostra (o dell’amica/o hipster che detestiamo perché mette in luce una parte di noi che rifiutiamo di vedere), tanto quanto la consapevolezza dei gatti di polvere, pile di panni affastellate oltre le nemmeno troppo perfette schermate Zoom. La ricerca dell’indeterminatezza dei contorni della coppia protagonista è riflessa nella traiettoria geografico-sentimentale, in apparenza dipanata attraverso slittamenti grammaticali — come nell’avantesto la narrazione è scandita in quattro movimenti, corrispondenti a altrettanti stadi del rapporto — anziché dalla volontà dell’io autoriale di tratteggiare scenari.
Il vento gelido, i profumi, la topografia dell’amata Berlino sono sì evocati a più riprese, ma la vita di Anna e Tom potrebbe aver luogo inalterata ovunque: tanto più che Lisbona, dove a un certo punto decidono di trasferirsi, sembra una Berlino più calda, decadente, anonima come un mobile Ikea comprato online: “A Lisbona, Anna e Tom si annoiavano. Passati i primi giorni non sapevano bene cosa fare con tutto quel tempo”. Ma l’analisi della descrizione iniziale (perché dare tanto spazio agli interni?) ci rivela anche altro: a ben vedere, la voce narrante delle Perfezioni non è interessata a costruire ambientazioni coerenti dove i propri personaggi si possano muovere, stagliandosi in primo piano con accenni di realismo, al contrario: è come se i rapporti tra gli oggetti appartenessero a un tempo altro, che avvicina ciò che è distante separando elementi contigui. Soffermandosi su uno spazio che ha un che di ipnotico e demoniaco, Latronico vuol cancellare il tempo — o almeno il tempo come lo si è inteso fino al 2008, quando il Facebook degli status in terza persona ha iniziato a farsi spazio nelle nostre vite.
È come se i rapporti tra gli oggetti appartenessero a un tempo altro, che avvicina ciò che è distante separando elementi contigui.
L’alternanza (Presente, Imperfetto, Remoto, Futuro) che sembra costituire l’ossatura del romanzo allora non è che l’ennesimo doppio passo con cui lo scrittore, concentrato e dimentico di sé come ogni fuoriclasse, ci semina; perché il ritmo dell’esistenza di Anna e Tom, il flusso dei loro spostamenti da digital nomads è più d’ogni altra cosa simile a quello d’un qualsiasi feed, di cui viene mimata la liquidità a livello sintattico:
In questa vita, in primavera e in estate, si beve il caffè sul balcone approfittando del sole da est, scorrendo i titoli del New York Times e gli aggiornamenti dei social sullo schermo di un tablet. Si annaffiano le piante, come parte di una routine che comprende lo yoga e una prima colazione arricchita da vari tipi di semi. Si lavora dal laptop, certo, ma col ritmo di un pittore più che di un impiegato: a uno scatto di concentrazione intensa alla scrivania si intervalla una passeggiata, una videochiamata con un amico che propone un progetto, uno scambio di battute sui social, un salto al mercato biologico dietro casa. Le giornate sono lunghe, le ore lavorate, alla fine, sono probabilmente più di quelle di un impiegato. Però al contrario di quest’ultimo le ore non si contano, perché in questa vita il lavoro svolge un ruolo importante senza essere un’oppressione o una perdita di libertà. Al contrario: il lavoro è una fonte di crescita e stimolo creativo, il ritmo di fondo per la melodia del piacere…
Eppure questa melodia pare essere interrotta dal cattivo odore d’una vita perfetta come gli “oggetti soffici” di Claes Oldenburg; nel tripudio della vista manca il gusto. Anna e Tom si chiedono se la ricerca della “distinzione” promessa ai clienti (“Quello che creavano erano differenze”) non si sia trasformata nell’oscena esposizione pubblica di come loro stessi vorrebbero/vorremmo essere: circondati da amici, luoghi, libri giusti, in un’esistenza dai profili levigati come l’effetto polaroid abusato negli Instagram di certi influencer del culturalismo. Tutto pare scivolargli addosso, in questo simili, più che alla coppia delle Cose, a un altro indimenticabile personaggio di Perec, lo studente protagonista di Un uomo che dorme (1967), altro romanzo breve ancorato agli interni e all’assenza di giudizio. In tutto questo, una singolare scoperta: Latronico pare essersi trasformato in uno scrittore che quel che vuole dire lo scopre in punta di fioretto, il che rende le Perfezioni un libro che sopravanza felicemente le dichiarazioni d’autore che lo accompagnano.
Innanzitutto, è sovragenerazionale: più che analizzarne le dinamiche (per quello ci si può rivolgere al Profilo dell’altra, utile come documento più che per l’effettivo valore letterario), dimostra come i social non siano causa, ma conseguenza dell’età dell’ansia da prestazione. Arduo non riconoscersi nella nevrotica ricerca che porta i protagonisti a reinventarsi per diventare ciò che sono sempre stati (flessibili, con quella dose di intelligenza plastica che ne favorisce il successo nel paese d’arrivo ma che a volte sembra mancare il bersaglio), nella sindrome dell’impostore che attanaglia chiunque lavori in un settore ambito su scala globale, dove si viaggia di continuo per poi chiedersi se la propria vita non sia la fotografia delle aspettative altrui; ma questo non ha a che fare con il coincidere dell’età anagrafica di chi scrive e chi legge, piuttosto con lo sguardo strabico di chi racconta: “C’era la realtà tangibile, che li circondava, e c’erano le immagini; li circondavano anche quelle”.
Ne emerge una verità esplorata da altri romanzi contemporanei, l’impossibilità di separare i meccanismi del desiderio dai conflitti sociali.
L’esistenza patinata di Anna e Tom — A million girls would kill for that job!, sembrano ricordargli le stories dei coetanei rimasti a a casa, nel quartiere che rimpiangono sapendolo diverso da come l’avevano lasciato — viene scomposta in cinque istantanee, ciascuna volta a materializzarne un aspetto (dallo spazio domestico al lavoro, dal sesso all’attivismo politico). Ne emerge una verità esplorata da altri romanzi contemporanei, l’impossibilità di separare i meccanismi del desiderio dai conflitti sociali: ormai parte di una classe medio-agiata, i due temono di essere “contenti perché si erano accontentati”, e da buoni figli del neocapitalismo non riescono a sfuggire all’imperio dell’upgrade. Tentano l’azione — che ciò avvenga in un locale di scambisti o in una organizzazione non governativa non cambia poi granché — per scoprire ancora una volta la loro inettitudine, finendo per assestarsi in un equilibrio dolceamaro che non scambierebbero per nessun ideale al mondo; la rivoluzione è in pausa, per parafrasare l’incisivo longform su Isola (il romanzo avrebbe potuto essere ambientato lì, nel quartiere di provenienza, ma lo slittamento berlinese provvede a dare una dimensione ulteriore al tema).
O forse crescere significa questo, saper porre un limite alla propria libertà di scelta? Qualsiasi sia la risposta, e qui sta il bello, la voce narrante al più ironizza, ma non disprezza né si concede mai sarcasmo verso i protagonisti. Si limita a fare quello che ci si aspetterebbe da un autore: aderire con ogni mezzo alla novità del proprio oggetto. Per questo Le Perfezioni racchiude in centoventi pagine l’aspirazione irrealizzata di tanti romanzieri della posa, raccontare le contraddizioni di tutti senza moralismi, cioè senza nascondersi. Ne aspettiamo il seguito, fiduciosi che dopo quest’ottimo inizio Latronico saprà mettere a fuoco un rinnovato rapporto tra sfondo e figure, la voce delle cose in cui siamo immersi e la nostra.