Philip Di Salvo è ricercatore post-doc presso la School of Humanities and Social Sciences della Universität St. Gallen, Svizzera. Si occupa di giornalismo investigativo, sorveglianza di Internet, black box tecnologiche e dei rapporti tra hacking e informazione. In precedenza, ha lavorato presso la London School of Economics and Political Science (LSE) e l’Università della Svizzera italiana (USI). Scrive per varie testate giornalistiche e conduce un programma su Radio Raheem. Vive a Zurigo.
I
n Solaris, romanzo di Stanisław Lem nel 1961 e poi film di Andrej Tarkovskij nel 1972, si immagina la scoperta e lo studio di un pianeta extrasolare ricoperto da un misterioso oceano capace di esercitare un forte potere psicologico nei confronti degli astronauti che vi gravitano attorno. Il mare, che nel film viene bombardato di radiazioni per cercare di carpirne i poteri, confonde gli umani giunti sul pianeta, fa loro dubitare di ogni certezza. Fino a farli impazzire. In Bitter Lake, il documentario del 2015 che esplora decenni di tentativi coloniali attuati sull’Afghanistan, il regista Adam Curtis cita proprio Solaris come metafora del Paese, e di come l’Afghanistan abbia mandato in crisi le potenze che hanno cercato di metterci le mani sopra.
Potremmo dire che nel nuovo saggio di Geert Lovink a svolgere una simile funzione disorientante sia invece una palude. Sin dal titolo: La paludi della piattaforma (edito in Itala da NERO editions, nella collana Not, e tradotto da Silvia Dal Dosso e Silvio Lorusso), Lovink affronta da vicino il collasso tecnologico, la crisi economica e la debacle simbolica delle piattaforme tecnologiche più popolari a cui stiamo assistendo ormai da qualche anno.
Le piattaforme hanno “eclissato Internet”, secondo Lovink, e le promesse di possibili alternative che avrebbero dovuto e potuto concretizzarsi, se le cose fossero andate diversamente.
Pur a dispetto di questa crisi, sembra sostenere Lovink, le piattaforme continuano però a esercitare un potere quasi occulto su chi le popola: siamo intrappolati dentro ai social e ai loro meccanismi, incatenati al modo in cui gli smartphone ci forniscono informazioni, e la nostra immaginazione è incapace di partorire una visione alternativa della rete. Le abitiamo, però, le piattaforme, come si abiterebbe un corpo morto che non sa più come muoversi: per inerzia, mentre diventiamo, direbbe qualcuno, sempre più simili agli eserciti che hanno cercato di prendere l’Afghanistan, secondo Curtis, o comprendere Solaris, come immaginato da Lem e Tarkovskij.
Il libro di Lovink non è però un saggio di area media studies, che cerca cioè di offrire una disanima di tutto quanto è andato storto con Internet negli anni dell’ascesa delle piattaforme e dell’economia dell’attenzione. Lovink tratta certamente di questi temi, ma il suo approccio è quasi psicologico: non è un caso, infatti, che il saggio si apra con una “anatomia della Zoom fatigue”, l’affaticamento da troppe videochiamate, call e riunioni online, una delle sensazioni – anche fisiche e mentali – più facilmente associabili all’esperienza di vivere dentro “la cosa” che è Internet oggi. Nell’ultimo decennio – che lo stesso Lovink chiama “un decennio perduto” in cui “non siamo riusciti a considerare vie alternative e abbiamo installato qualsiasi app con noncuranza” – la spinta propulsiva potenziale di Internet come scatola magica perfetta per la creazione di mondi e alternative si è progressivamente spenta, in favore dell’ascesa delle piattaforme, che hanno invece monopolizzato completamente l’orizzonte e la nostra immaginazione.
Così facendo, scrive Lovink, le piattaforme hanno “eclissato Internet” e le promesse di alternative possibili che avrebbero dovuto e potuto concretizzarsi, se le cose fossero andate diversamente. La scatola magica è diventata invece una scatola nera, dentro cui siamo rinchiusi, intrappolati in un “giardino recintato”, dove “gli utenti non sono più a piede libero nella rete” perché dentro le piattaforme a essere eliminate sono “le ambiguità e le aperture della rete” stessa. Svanito il contatto con l’incertezza che ha sempre caratterizzato Internet nelle sue visioni originarie – il senso formale dell’ipertesto e dei link –, la sua assenza è, nelle piattaforme, risolta dalla proposta di “un flusso incessante di messaggi” suggeriti se non addirittura sponsorizzati.
Per Lovink ci troviamo ora dentro una “Grande Stagnazione” che non è solo quella delle piattaforme stesse e della loro evoluzione, ma una condizione generale di rassegnazione collettiva che emerge ovunque, nella politica, nella cultura, in forma di “lista dei desideri vuota”. È una condizione – la stessa della Zoom fatigue – da presente perpetuo e da “miseria simbolica”, un concetto che Lovink prende dal filosofo francese Bernard Stiegler, uno dei riferimenti più frequentemente citati nel libro. Dentro le piattaforme stagnanti non “succede mai niente” perché l’ascesa del loro modello organizzativo ed economico – il contratto sociale della Silicon Valley – ha al centro proprio questa necessità: fornire del grezzo zapping che ci tenga dentro le piattaforme nonostante l’intorpidimento che ne otteniamo e contribuiamo a generare.
L’esplorazione di questa palude offerta da Lovink sembra gravitare attorno a una questione in particolare: la logica della piattaforma ha sostituito la narrazione della rete degli albori e delle sue possibilità emancipatorie e comunitarie, di cui non si trova quasi più traccia. Per quanto ovviamente le eccezioni permangano, di solito però viene confermato lo status quo complessivo: dentro questi spazi commerciali abbiamo smesso da tempo di socializzare e aggregarci attorno a istanze e idee comuni. Oggi, nelle piattaforme, al massimo, siamo spinti a “seguire” altri by design (cioè per come sono costruite le piattaforme stesse, per citare un altro libro di Lovink) o sulla base del suggerimento algoritmico. È un inaridimento, un prosciugarsi progressivo delle possibilità dello stare online di cui però alle piattaforme e ai loro proprietari non sembra interessare molto: per quelli che sono i loro prerequisiti e le necessità economiche, anche solo la nostra stessa presenza in quelli spazi è “sufficiente”.
La proposta di Lovink per una potenziale possibile via di uscita dalle paludi comprende l’esodo, la fuga e la diserzione. Il punto è dove andare per poter riattivare nuovamente la nostra capacità collettiva di creare realtà. Il libro non fornisce questa risposta, perché questa risposta ancora non esiste o meglio ancora non esiste in forma di soluzione. Non c’è un luogo di approdo che possa assumere il ruolo che le piattaforme attuali avevano promesso di poter fornire. Esistono certamente già alcuni luoghi alternativi – come Mastodon, che di recente si è guadagnato le attenzioni degli esuli di Twitter post-acquisizione di Musk – ma la reale alternativa, al momento, è ancora senza nome, da costruire. Il discorso di Lovink va nella direzione dell’immaginazione di valori differenti su cui costruire un nuovo stare online, baricentri che serviranno in primis a proteggere questi spazi dal dominio del mercato e dalla ricerca del monopolio che hanno portato le piattaforme e la loro ideologia a paludarsi irrimediabilmente.
La proposta di Lovink comprende l’esodo, la fuga e la diserzione. Il punto è dove andare per poter riattivare nuovamente la nostra capacità collettiva di creare realtà.
Nel sostenere queste pozioni, Geert Lovink si inserisce in un filone intellettuale ben consolidato nella theory contemporanea cui egli stesso contribuisce da almeno due decenni. Questo suo nuovo libro non offre soluzioni, perché è una constatazione, prima ancora che una denuncia. È un saggio che ci ricorda che, sul lato pratico, al momento, la creazione di alternative sembra una battaglia tristemente persa. Ma che, sul piano dell’immaginazione, quella battaglia dovrà essere vinta.
Il progetto deve essere allora quello di depiattaformare le piattaforme, costruendo luoghi diversi di socialità basati su quattro elementi fondativi che, per Lovink, sono: “la lentezza”, “il minimale”, “il pubblico” e “il diversivo”. Significa, allo stato attuale, pensare luoghi più piccoli, costruiti attorno a “reti organizzate”, attorno a elementi realmente coesivi; significa abbandonare concetti come crescita costante, scala ed espansione a tutti gli effetti; significa tornare all’assunto che gli spazi online non debbano necessariamente essere commerciali e significa ricordare che l’autodeterminazione sarà inevitabilmente la ragione d’essere di questa nuova geografia.