C osa sono le nuvole del titolo di questo romanzo di Saer pubblicato da La Nuova Frontiera, nell’elegante traduzione di Gina Maneri? Rappresentano l’irascibile natura e il clima ostile delle Americhe del Sud, che sono uno dei protagonisti del libro stesso, tra inondazioni e incendi spaventosi, ma anche presenze animali lussureggianti? O descrivono piuttosto i cirri della malattia mentale dei suoi personaggi, colti in ritratti emblematici, da incastonare ognuno per accuratezza e maestria? O piuttosto ancora sono una metafora del viaggio, o meglio della condizione d’esilio perenne dei latinoamericani, come degli argentini, un tentativo di tradurla fuori (e liberarla) dal campo della letteratura engagé o della sociologia? Con questo romanzo, che è ad un tempo raffinato trattato sulla pazzia – non estraneo al legame d’etimologia tutt’oggi incerta tra i luoghi e i pazzi, i loci e locos – e avvincente racconto picaresco di un’armata composta da “malati, indios, donne di malaffare, gauchos, soldati e persino animali domestici e non”, che avanza in carrozze e a cavallo per i deserti minacciati dal bandito Josésito come in un classico gauchesco, Saer tiene assieme varie tradizioni, e presenta un libro dal gusto parodico, straniante.
Con quella capacità molto fluida di combinare i generi che aveva già presentato nei precedenti Cicatrici, L’arcano e L’Indagine, sempre usciti in Italia per La Nuova Frontiera, e in cui il romanzo criminale si faceva disamina prospettica delle sfaccettature della ragione, l’autore si lega ancora una volta a quello che è uno dei suoi maestri: Edgar Allan Poe. Se già Cortázar aveva dedicato una biografia all’autore dei Delitti della Rue Morgue, qui Saer, anch’egli parigino d’adozione, riecheggia quella l’influenza di Poe, capace di irrompere nel picaresco, ma anche di filosofeggiare meditativo, senza dimenticare gli approdi ad un sovrannaturale naturale, qui rintracciabile in una pampa argentina che evoca vertigini e profonda solitudine nel protagonista e voce narrante (e sono alcune delle pagine più belle).
Le nuvole è così un romanzo allegorico sulla follia umana nel preciso contesto culturale e storico sureño. La lettura di questo testo parte innanzitutto legandosi agli altri romanzi di Saer: ritroviamo non solo la ricerca del romanzo storico già de L’arcano e de La ocasión, ma alcuni dei personaggi a lui più cari, Pichon, Tomatis, Marcelo Sordi, che qui è redattore fedele di questa storia ambientata nell’agosto del 1804, ricevuta da una novantenne distratta, quindi aperta e letta – letta per noi lettori, quindi letta due volte – da Pichon Garay stesso in una afosissima notte parigina. E così inizia il manoscritto scaricato da un floppy: “Fiumi cresciuti a dismisura, un’estate inattesa e quel trasporto così singolare…”.
Chi racconta in un diario quel viaggio “troppo lungo e difficoltoso” da Santa Fe a Buenos Aires è il Dottor Real, giovane psichiatra allievo del geniale Dottor Weiss e assistente della sua rivoluzionaria Casa di Salute, che ha il compito di portare con sé una carovana di pazzi singolari in un viaggio “le cui centro leghe scarse furono moltiplicate da ostacoli, prevedibili o inattesi”, e anche da “fenomeni naturali che sconvolsero i nostri piani”. I suoi malati sono Prudencio Parra, catatonico dal pugno perennemente serrato, figlio di una famiglia abbiente così come Troncoso, che si muove “con quell’indifferenza che a volte i pazzi adottano per piegarsi alla ragione esterna”; Suor Teresita, in preda ad un misticismo blasfemo che la spinge ad amplessi ininterrotti, perché “ordinati da Cristo in persona nell’Alto Perù al fine di ristabilire l’unità tra l’amore divino e l’amore umano” e Juan Verde che ripete la formula Mattino, pomeriggio e sera all’infinito, assieme suo fratello Verdecito che grugnisce, bofonchia, emette suoni continuamente.
Ma cosa ci dicono questi pazzi (cinque e non sette, come in Arlt, altro argentino abilissimo nello scompigliare la pazzia, facendone un tratto tipico del Sur, sebbene in tono più modernista) se non che essi stessi sono gli emblemi di una locura tutta latinoamericana, che è inadeguatezza e ricerca continua di un’identità, alimentata da colpe represse, di spiritualità amalgamate a forza, patrie dislocate? I matti di Saer sono ognuno facce instabili dei luoghi instabili e sterminati che rappresentano, che spesso si fanno essi stessi estranei e spingono la ragione a spezzarsi (“Se questo luogo estraneo non fa perdere la ragione a un uomo, o non è un uomo, oppure è già pazzo”).
I matti colti nella cura amorevole e non detentiva del Dottor Real sono segnali dell’eterno esilio e speranza rimandata del futuro dei Sur del mondo – non a caso è l’Eneide ma soprattutto la IV Bucolica, quella che annuncia l’avvento dell’Età dell’Oro, che il dottore associa di frequente alla peregrinazione, fino all’epilogo. La follia come allegoria dell’esilio: come marchio della Storia latinoamericana tutt’altro che ironico o parodico, anzi terribile: “è risaputo che la pazzia”, annota Real, “quando non fa ridere, genera disagio e soprattutto orrore”. Perché non c’è tesi finale, in fondo, non c’è il sollievo della deduzione e dell’analisi, in questo originale romanzo filosofico.