I n una lunga intervista del 1971, Julio Cortázar ripercorre la sua giovinezza a Buenos Aires: parla del “profumo notturno, degli infiniti incontri con gatti e biblioteche e Cinzano e Razón Sexta e cinema continuo, […] i giorni da studente, i bar automatici di Constitución, la calle Corrientes delle prime fughe temerarie degli anni Trenta”. In un’altra, del ’77, parla di quartieri in cui l’illuminazione era così scarsa da favorire “l’amore e la delinquenza in proporzioni più o meno uguali”. Evoca un’immagine romantica e decadente di Buenos Aires, una città multiforme, caotica e in costante cambiamento, dove il confine tra realtà quotidiana e fantastico è molto sottile.
Un confine che si fa ancora più confuso nei racconti di Mariana Enriquez, scrittrice emergente della letteratura argentina. Nella sua raccolta Le cose che abbiamo perso nel fuoco, edita da Marsilio, Enriquez ci porta in una Buenos Aires nerissima fatta di ghetti e quartieri periferici, di antiche case nobili e di baracche abbandonate, di piccoli spacciatori e di uomini violenti e di donne sole. Presenze immancabili in ogni metropoli con quasi tre milioni di abitanti, che qui si accompagnano però a entità misteriose, sparizioni inspiegabili, fantasmi, idoli pagani, bambini assassini e mostri dalle orecchie a punta.
Difficile dire se il senso di minaccia che aleggia nei racconti è il risultato della realtà quotidiana o di forze soprannaturali. Ne Il bambino sporco, il racconto che apre la raccolta, una donna si prende cura del figlio di una tossica del quartiere, che una notte suona impaurito alla sua porta. Per tranquillizzarlo lo accompagna a prendere un gelato passando di fronte agli altari dei santi venerati nel quartiere, che ricordano al bambino San La Muerte, “il piccolo scheletro santo con le candele rosse e nere”.
‘Guarda che non è un santo cattivo’ dissi al bambino sporco e lui mi fissò con gli occhi spalancati, come se gli stessi dicendo una sciocchezza. ‘È un santo che può fare del male se gli viene richiesto, ma la maggior parte della gente non gli chiede cose brutte: gli chiede protezione. La mamma ti porta là dietro?’ gli chiesi.
‘Sì, però a volte ci vado da solo’ rispose.
Pochi giorni dopo, viene ritrovato il corpo di un bambino torturato e ucciso. È il bambino sporco? È una vendetta legata al traffico di droga? O forse un sacrificio per il culto dei santi? Non si sa, e non importa, perché la violenza del mondo reale e quella soprannaturale sono sullo stesso piano e intrecciate indissolubilmente, fatti di cronaca e superstizione si fondono, la razionalità lascia il passo a una paura senza contorni indefiniti.
In un altro racconto, Sotto l’acqua nera, una donna indaga sulla morte di due ragazzi buttati dalla polizia nelle acque fetide di un fiume inquinatissimo. Solo i più disperati riescono a vivere nella borgata nata sulle rive di questo fiume marcio, un posto abbandonato da tutti:
I figli delle famiglie che vivevano vicino a quell’acqua, che la bevevano, si ammalavano benché le madri cercassero di renderla potabile facendola bollire, morivano di cancro in tre mesi, orribili eruzioni cutanee distruggevano braccia e gambe. E alcuni, i più piccoli, avevano iniziato a nascere con delle malformazioni. Braccia di troppo (a volte addirittura quattro), nasi grandi come quelli dei felini, occhi ciechi e vicini alle tempie. Non ricordava il nome che i medici, un po’ confusi, avevano dato a quelle malformazioni congenite. Ricordava che uno di loro aveva parlato di “mutazioni”.
Quando arriva al ghetto, la protagonista si ritrova in un’atmosfera da apocalisse, con strade deserte e bambini “mutanti” che le fanno strada fino alla chiesa dove il prete, completamente fuori di sé, la mette in guardia: “Tutti quelli che hanno inquinato questo fiume sono stati molto responsabili. Stavano coprendo qualcosa, non volevano lasciarlo uscire e l’hanno ricoperto di strati di olio e fango!”. Cos’è questa creatura che si nasconde sotto l’acqua, non si sa. Non importa. Gli strati di immondizia riversata nel fiume proteggono da qualcosa di più spaventoso della povertà del ghetto, dell’abbandono, dell’inquinamento, delle brutalità della polizia.
E poi ancora ci sono donne che si danno fuoco per protestare contro i femminicidi, bambine che scompaiono in case abbandonate, ragazze che si avventurano nei boschi in cerca di un’apparizione che ha “uno sguardo carico d’odio […] come una strega, come un’assassina, come se avesse dei poteri soprannaturali”. Il quotidiano cede il passo a qualcosa d’inspiegabile, le donne e le ragazze protagoniste dei racconti sembrano più suscettibili a forze sotterranee e occulte, più in contatto con qualcosa d’indefinito che può essere follia ma anche stregoneria. È un soprannaturale sempre oscuro, che prende spunto dal fantastico di Cortázar ma lo declina nei suoi elementi più neri, più macabri. Un fantastico che, sembra suggerire la scelta dell’autrice, è il modo più realistico per fare i conti con il passato di dittatura, paure, sparizioni e uccisioni dell’Argentina e per raccontare il suo presente.