“V a detto però che questo popolo, e chiunque abbia conosciuto quello autentico ve lo confermerà, non ha più niente di familiare: è stato sostituito. Non si sa chi sia questa gente”. La citazione di Carrère che apre La Gente: viaggio nell’Italia del risentimento è suggestiva e azzeccata. Lo scopo del libro di Leonardo Bianchi è infatti duplice: ricostruire gli eventi riconducibili al “gentismo” che hanno caratterizzato gli ultimi dieci anni di politica italiana e, così facendo, immergere il lettore in quella fetta di società che li ha alimentati e di cui si sa poco, malgrado le migliaia di commenti, status e tweet sgrammaticati che quotidianamente esprimono rabbia nei confronti di un mondo percepito come ostile. Una dissonanza cognitiva non da poco, dovuta in larga parte al fatto che gli stessi gentisti rifuggono le cornici ideologiche tradizionali così come le categorie sociali d’antan, preferendovi un’identità collettiva riconducibile alla sola appartenenza alla – appunto – Gente, ossia la declinazione in termini sondaggistici dell’ormai obsoleto concetto di Popolo.
Ovviamente la pretesa neutralità di questa posizione è una favola, e in tempi recenti sono stati pubblicati diversi volumi che si occupano di sbugiardarla, soprattutto sul piano teorico. A differenza di questi ultimi, La Gente si concentra soprattutto sulle manifestazioni concrete che hanno avuto come protagonisti gli ineffabili – e spesso inconsapevoli, gentisti. E così, segnando come Ora Zero simbolica la pubblicazione del libro La casta nell’estate 2007, Bianchi ripercorre i primi vagiti del Movimento 5 Stelle (senza però mai perderlo di vista del tutto) per poi spostarsi al movimento dei Forconi, alle Catene umane intorno al Parlamento, alle numerose “proteste spontanee” sorte nelle periferie dell’Urbe e nei villaggi del ferrarese, per giungere infine alle più recenti polemiche sui vaccini e allo scontro tra .jpeg in occasione del referendum costituzionale dello scorso 4 dicembre.
Tutte cause formalmente diverse tra loro che però trovano un denominatore comune nel disorientamento esistenziale dei loro sostenitori, i quali, a prescindere da ceto d’appartenenza e grado d’istruzione, rappresentano l’evoluzione 2.0 di quella che un tempo era conosciuta come la “maggioranza silenziosa”. Personaggi in cerca di un autore, insomma, con la sostanziale differenza che laddove un tempo c’era l’apparatčik democristiano di turno a parlare per loro, oggi ci sono i vari Salvini, Calvani o Marcianò. Con risultati prevedibili: di capitolo in capitolo il lettore rimbalza tra le cacciate di immigrati e lo sbandieramento di una “cultura” intesa come semplice origine geografica; tra il rifiuto dell’autorevolezza e l’adorazione dell’autorità; tra lo scetticismo verso dati e ricerche e il fideismo nei confronti di scienziati improvvisati che propugnano le teorie più strampalate. Inutile girarci attorno: è un panorama avvilente.
Al netto dello sconforto e dell’eventuale autocompiacimento (dovuto anche a un sarcasmo dell’autore in sé inevitabile, ma troppo marcato nella seconda parte del libro), il vero valore de La Gente sta però nella ricostruzione dei fatti. Secondo Bianchi, il “viaggio nell’Italia del risentimento” non può dirsi completo limitandosi a presentarlo come un reportage di costume, ed ecco che dalle cronache emergono due fatti finora fin troppo sottovalutati.
La lezione più utile che si trae dall’opera di Bianchi è che se si vuole combattere il gentismo non si può assecondarne i tic, tra cui la deresponsabilizzazione personale.
Il primo è che, a prescindere dalle cause perorate, nessuno dei fenomeni citati sarebbe potuto durare nel tempo, diffondersi oltre i social e men che meno avere ripercussioni concrete di rilievo senza che vi fosse una tutela politica più o meno istituzionale. Il secondo, è che questa tutela arriva sempre più da partiti e organizzazioni di destra: tolte le comparsate dell’occasionale Carneade, emergono infatti con regolarità nomi di persone e organizzazioni quasi tutti sono ricollegabili alla destra reazionaria se non proprio al neofascismo. Salvini, Borghezio, Casa Pound, Forza Nuova, e perfino vecchie conoscenze dei camerati come il “barone nero” milanese Roberto Jonghi Lavarini e Adriano Tilgher. Discorso analogo si può fare sul fronte mediatico, dove, oltre agli onnipresenti Il Giornale e Libero, figurano di volta in volta penne prestate alla xenofobia più o meno dichiarata (Del Debbio), al reazionariato cattolico (Adinolfi) e al complottismo in salsa rossobruna (Fusaro). Coincidenze, come direbbero gli stessi gentisti? Oppure l’ennesima dimostrazione del fatto che il preteso spontaneismo di questi movimenti – che, nella narrazione tossica che spesso fa breccia anche a sinistra, li dovrebbe assolvere da ogni responsabilità – è una fesseria?
A queste domande Bianchi non fornisce risposte definitive e, anzi, ribadisce a più riprese che dal gentismo non è immune nessuno, citando a esempio la memorabile débâcle comunicativa del PD avvenuta lo scorso dicembre (quando alcuni suoi sostenitori “non ufficiali” decisero di ribattere ai sostenitori del No copiandone il lessico e l’estetica). Ciò che invece fa è spostare l’attenzione dalla gente al gentismo, ovvero dagli individui al fenomeno. È precisamente grazie a questo taglio analitico che La gente evita di trasformarsi nell’epigone fighetto de La Casta, ovvero un libro perfettamente inutile per comprendere le ragioni profonde delle storture di un sistema.
Voltata l’ultima pagina, la lezione più utile che si trae dall’opera di Bianchi è che se si vuole combattere il gentismo non si può assecondarne i tic, tra cui la deresponsabilizzazione personale unita alla suddivisione manichea della società in simili e diversi. Nel concreto, che deridere i cosiddetti “analfabeti funzionali” non porta a niente e, soprattutto, ci fa perdere di vista l’immagine d’insieme. Un’immagine preoccupante ma tutt’altro che confusa, in cui politicanti notoriamente senza scrupoli si concedono scorribande politiche i cui contenuti percolano infine attraverso la società intera. Perché se Salvini oggi può affermare tra gli applausi che darà “Mano libera alle forze dell’ordine” inquieta nonostante la prevedibilità, ben di più inquieta sentire un ministro di un sedicente governo di centrosinistra affermare senza vergogna che “La sicurezza è un sentire […] Dove si ragiona con le statistiche non c’è sentimento”.
Nessuno è al sicuro.