I
l libro La cura della natura della giornalista statunitense Florence Williams (Piano B, 2023), il cui sottotitolo è “Perché la natura ci rende più sani, creativi e felici”, è uno stimolo continuo. Mentre lo leggo vorrei ripetere le stesse esperienze dell’autrice, ma al contrario ho cominciato la mia giornata tra computer, email da inviare, almeno duecentocinquanta parole da scrivere per finire il capitolo a cui sto lavorando, mentre il cellulare squilla per i messaggi e ogni tanto entro ed esco social nel tentativo di riprendere il filo del ragionamento. Sono già stato mezz’ora nel traffico e nello smog cittadino, mi ci vuole un’altra mezz’ora per recuperare tranquillità e scrivere qualcosa di buono. Vorrei trovarmi in una foresta, proprio come Williams: forse perché generalmente scrivo di piante e l’affinità è evidente, o forse perché il verde rilassa. Ma c’è dell’altro, e lo imparo da questo libro: la natura può essere una cura. E non per modo di dire.
Come riporta l’autrice, vi sono infatti diversi aspetti negativi dello stile di vita che affliggono le società moderne, sempre più lontane da ciò che siamo soliti chiamare “natura”. Numerosi studi evidenziano una maggiore prevalenza dei disturbi d’ansia e dell’umore negli abitanti delle città, a cui si associa una maggiore attività di quelle regioni del cervello che sono collegate alla regolazione di paura e stress. In modo simile, anche la tecnologia è fonte di disturbi legati allo stress: l’uso dei cellulari e dei social media produce forme di dipendenza che conducono a insicurezza e depressione, con quest’ultima che è una delle cause principali dell’attuale perdita di benessere psicologico.
Per non dire nulla dei rischi di malattie che sono legati al vivere in città, e principalmente a smog e inquinamento – fatevelo dire da chi vive in una delle aree più inquinate d’Europa, la Pianura Padana. Se ci siamo abituati a questo stile di vita, ciò non significa che non ne avvertiamo le problematicità: l’inquinamento acustico, l’inquinamento dell’aria, lo stress del traffico in cui rimaniamo imbottigliati sono tutti fattori che influenzano negativamente le nostre vite, e la presenza invasiva della tecnologia non sembra essere d’aiuto. Qual è, allora, la soluzione? Qual è la cura? È sufficiente scappare dalla tecnologia e dalla quotidianità delle nostre vite urbane, ovvero dalla civiltà?
La natura può essere una cura, e non per modo di dire.
Di per sé, l’idea di una fuga dalla società per andare a cercare nella natura (nel bosco o nel giardino) un ambiente isolato di pace, serenità e tranquillità, risale in qualche modo all’antichità e nel corso dei secoli si è declinata nella contrapposizione tra natura e civiltà o, più recentemente, tra ambiente e tecnologia. La separazione tra umani e natura ha infatti da sempre assillato i pensatori dell’Occidente, con tutte le sfumature del caso. Nella modernità, il topos del “buon selvaggio” di Montaigne o quello della società rurale e campestre del Contratto sociale di Rousseau (1762) – così come l’idea di una formazione dell’individuo al di fuori dei percorsi scolastici tradizionali e più a contatto con la natura, si pensi all’Emilio (1762) – hanno segnato in modo indelebile il tentativo di ricucire la distanza tra umano e naturale.
Questo aspetto non si trova solo nelle filosofie dell’alterità, ma anche nel tentativo di costruire una conoscenza scientifica. Sin dalla medicina antica, per esempio, la concezione della natura come spazio di cura emerge con chiarezza. Nella medicina greca arcaica i luoghi di cura erano i famosi templi di Esculapio, santuari-ospedali in cui le pratiche magiche si mescolavano a quelle clinico-chirurgiche e in cui i pazienti venivano curati attraverso il benefico effetto della natura: i santuari erano infatti sanatori che sorgevano su alture e colli dove l’aria pura e un incontro diretto con la natura potevano avere un effetto positivo sui malati, così come la presenza di teatri, terme e palestre.
Inoltre, è attestato che già nella preistoria la guarigione venisse cercata attraverso pratiche magico-terapeutiche, riti, musiche e danze che favorivano la percezione di un ambiente favorevole e stimolavano uno stato di profondo rilassamento legato a un ambiente accogliente. Già nella preistoria si era colta l’influenza dell’ambiente sulle funzioni del sistema immunitario e gli effetti fisiologici dovuti al rilassamento cognitivo ed emozionale.
Già nella preistoria si era colta l’influenza dell’ambiente sulle funzioni del sistema immunitario, sul rilassamento cognitivo ed emozionale.
Nella filosofia greca e romana, soprattutto quella legata allo stoicismo, l’idea di una fuga dal caos dei centri abitati diventa sempre più centrale. Se Socrate, Platone e Aristotele erano i filosofi della polis, Epicuro è il filosofo del giardino, ovvero di uno spazio lontano dal tumulto delle città e più vicino al silenzio della campagna, simbolo di una fuga dalla vita pubblica per un contatto più diretto con la natura, che caratterizza la cultura ellenistica.
In epoche più recenti, già sul finire del Medioevo, i comuni e le città ritornano a essere luoghi centrali della vita pubblica, e nel Rinascimento la fuga dalle città diventa un topos letterario di grande rilievo. I filosofi Francis Bacon e René Descartes, per esempio, lamentano il caos cittadino e importuno di Parigi e Londra, a cui preferiscono la vita ritirata nelle campagne, dove la solitudine intellettuale non è disimpegno e ozio, così come era nell’antichità romana o per Montaigne, ma attività di ricerca e sperimentazione scientifica.
Saranno poi il romanticismo tedesco, inglese e americano a ravvivare l’idea di una fuga dalla città e l’immersione nella natura come esperienza di vita nuova, o addirittura ancora di salvezza e varco per una realtà nuova. La poesia di Wordsworth e Coleridge, Whitman, Thoreau ed Emerson ha infatti rappresentato uno degli apogei letterari del mondo occidentale, in cui l’abbandono dell’Io nella natura incontaminata è un modo per ritrovare se stessi e per colmare il divario tra uomo e natura. Nel Novecento è Thomas Mann, con la sua Montagna incantata (1924), a consegnare all’immortalità letteraria la connessione tra l’idea di isolamento nella natura e la cura dalle malattie, come avviene nel famoso sanatorio Berghof a Davos, sulle Alpi svizzere, in cui i pazienti vengono ricoverati per recuperare la condizione di salute ottimale.
Nel Novecento è Thomas Mann a consegnare all’immortalità letteraria la connessione tra l’idea di isolamento nella natura e la cura dalle malattie.
Tutt’oggi nella nostra cultura è rimasta viva l’idea di una separazione dal caos della vita cittadina, del buen retiro in campagna o in collina, cioè in un luogo di immersione nella natura, che è madre e non matrigna come in Leopardi. È rimasta anche la convinzione che la salubrità dell’ambiente al di fuori dei centri urbani faccia bene di per sé, non solo ai nostri polmoni ma anche ai nostri nervi, per diminuire il nostro stress. Che la natura sia una cura, una medicina, fa ancora parte dell’immaginario collettivo e della saggezza popolare. Negli ultimi decenni, per altro, si è sviluppata anche un’altra contrapposizione tra l’idea di cura naturale, ovvero nella natura e attraverso i prodotti della natura, e la cura farmacologica delle multinazionali.
Ma davvero basta allontanarsi dalle città per stare meglio? La risposta non è così semplice, e nemmeno rinunciare alla città lo è. Sappiamo infatti che a livello mondiale l’urbanizzazione sta procedendo in modo inarrestabile, con lo spopolamento delle campagne e il trasferimento in città, mentre il movimento contrario risulta decisamente più marginale. Nemmeno lo smart working sembra poter invertire la tendenza: non aiuta a staccarsi totalmente dalla vita in città, e come ormai si è capito lavorare da casa vuol dire lavorare sempre. Da questo punto di vista, lo smart working non è certo “smart”, e non implica un abbassamento del livello di stress o di attenzione: al contrario, si è sempre connessi al proprio lavoro, attraverso smartphone e tablet, la posta elettronica, i social, la messaggistica istantanea, e via dicendo. Trovarsi fuori città non aiuterebbe.
Se la tesi di fondo del libro di Williams è che la natura sia utile per alleviare i tanti mali che ci affliggono, l’intento dell’autrice non è però quello di abbandonare interamente la vita cittadina, ma di comprendere quali sono le modalità di combinare l’importanza della natura con la vita quotidiana, ovvero con la tecnologia che la contraddistingue. Il progresso è in qualche modo ineluttabile e Williams non intende rinunciarvi. In questo senso, pur riconoscendo – sulla scia di numerosi studi – l’importanza di porre un limite alla tecnologia, e in particolare ai social e alla iperinvasività degli smartphone e della realtà virtuale, il libro di Williams non è un’accusa alla tecnologia tout court. Al contrario, è attraverso la tecnologia che l’autrice ha potuto confrontarsi con diversi tentativi di recuperare il legame con la natura, per comprendere in quale modo il contatto con essa riesca a ristabilire il benessere del nostro sistema nervoso e quale possa essere il corretto bilanciamento tra tecnologia e natura.
Tutt’oggi rimane la convinzione che la salubrità dell’ambiente al di fuori dei centri urbani faccia bene, non solo ai nostri polmoni ma anche ai nostri nervi.
Nel suo libro Williams viaggia in centri di ricerca di mezzo mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Finlandia alla Corea del Sud, per raccontare il lavoro di quegli scienziati che hanno cercato di decifrare un enigma che ci interroga sin dall’antichità, quantificando gli effetti positivi della natura sull’umore e il benessere, ma anche sulle capacità cognitive e relazionali degli individui. La conclusione è forse scontata, ma unanime: in un mondo sempre più frenetico, trascorrere qualche ora in un bosco o in campagna, lontano dal traffico e dai rumori della città e possibilmente con il telefono spento, è un’esperienza rigenerante, perché la dimensione originaria degli esseri umani è in fondo quella di stare in mezzo alla natura.
La ricerca degli scienziati incontrati da Williams non si limita a questo dato banale, ma cerca anche di comprenderne il motivo: perché, infatti, l’odore della pioggia o del terreno bagnato suscita in noi benessere? Perché inalare il profumo di certe piante o di certi fiori ci dà tanto piacere? Attraverso quali sensi, olfatto, udito o vista, è possibile acquisire la dose raccomandata di natura, che per i finlandesi è di almeno cinque ore al mese? E in quale misura questo benessere può essere impiegato, sia nel recupero dei malati che nelle forme sociali più diffuse?
Williams descrive l’importanza del verde – non solo del colore, ma proprio di avere una pianta in casa o poter vedere un albero dalla propria finestra – nel migliorare le performance lavorative. Questo accade perché la vista del verde riporta i nostri cervelli afflitti da deficit dell’attenzione a uno stato di cognizione più attivo, come hanno dimostrato molti studi condotti assieme a pazienti degli ospedali, carcerati e studenti. Quel che preme a Williams è di mettere in luce la necessità di ripensare le città proprio a partire dall’importanza che lo spazio verde ha sull’umore, sulle capacità cognitive e sul benessere, oltre che sulla salute, degli individui.
Perché l’odore della pioggia o del terreno bagnato suscita in noi benessere?
Per esempio: la possibilità per gli studenti di scuola di non stare sempre solo seduti sui banchi, ma di poter avere momenti ricreativi o addirittura lezioni in mezzo al parco, secondo la tradizione aristotelica del peripato ricordata in una famosa scena del film L’attimo fuggente di Peter Weir (1990), sembra essere alla base di risultati scolastici migliori e soprattutto di un minore tasso di stress, accresciuto invece dalle forme di depressione, solitudine e senso di infelicità che derivano dall’isolamento nella realtà virtuale.
Attingendo da una ricca bibliografia scientifica, Williams descrive i cambiamenti che avvengono nel nostro cervello quando entriamo a contatto con la natura secondo una piramide di immersioni, ovvero un “menù” per ottenere gli effetti migliori: da iterazioni rapide di natura cittadina a periodi prolungati ma più rarefatti di natura campestre. Il contatto con la natura rinvigorisce i nostri sensi e il nostro intelletto, allevia il nostro carico di stress e migliora le nostre capacità cognitive ed empatiche.
Il libro offre spunti preziosi per costruire al meglio le nostre giornate, le nostre vite e anche le nostre comunità, certamente non abbandonano la tecnologia, ma riscrivendo il rapporto tra tecnologia e natura in modalità che siano proficue al benessere di ciascuno e per esteso di tutta la società. Fa bene ricordarlo ancora una volta: la natura ci cura, e come scrive Williams i suoi benefici sono i più sottili, profondi, e duraturi.