U n ricordo lontano, rimasto per anni inesplorato, della nostra vita coniugale agli inizi, un periodo sospeso nel limbo di una relazione che, se non nelle consuetudini quotidiane, non ha mai trovato un fulcro e che ieri sera invece si addensava in quel nodo di esigenze concrete cui corrispondevano le mie aspettative e la sua riluttanza, insieme al male che mi faceva sentirla distante: una donna inquieta, con una sensibilità non comune, brillante, che ha fatto poco della sua esistenza, anche per colpa mia. Mi viene in mente soprattutto il peso che avevano nella nostra vita coniugale le sue aspirazioni letterarie”.
La voce narrante, il marito, sta ricordando uno dei tanti giorni nella casa al mare, dove lui ha deciso di trasferirsi dopo la separazione, mentre la moglie Natalia occupa, forse con un vecchio amico comune, l’appartamento in cui entrambi abitavano in città. In queste poche righe risulta già evidente la coscienza atona del protagonista a cui Giulia Corsalini nel suo secondo romanzo edito da Nottetempo Kolja. Una storia familiare ha dato intera la responsabilità di raccontare un’esperienza specifica del suo matrimonio fallito: l’affidamento temporaneo di tre bambini e poi il suo approccio alla vita e alla coppia.
Il racconto avviene solo attraverso la sua voce: è un filologo, si occupa di Virgilio in particolare e ancora più precisamente passa la maggior parte del suo tempo a verificare quale traduzione sia migliore, non di un intero canto ovviamente, ma di una parola all’interno di un verso, di un avverbio dell’Eneide per esempio: “la mia vita è arrivata a questo punto senza avvedersene, mentre facevo il mio lavoro di filologo accadevano delle tragedie e la mia esistenza si perdeva, e quello che mi resta da vivere non potrà essere in nessun modo risolutivo”.
L’approccio di questo personaggio al racconto di sé, della sua vita matrimoniale fallita, ma che continua a resistere per lui come l’unico luogo di possibile progettazione, innesca nella lettura un processo di riconoscimento tanto potente quanto inaspettato. Proseguendo, porgendo orecchio al racconto di questo marito, di questo studioso, di quest’uomo di mezza età riconosciamo la voce dell’inetto. Personaggio prototipico della grande letteratura del ‘900, di solito l’inetto, per antonomasia Alfonso Nitti creato da Italo Svevo, non può dedicarsi allo studio, per incapacità o per necessità. Corsalini invece associa a questa testardaggine di volersi dedicare alle imprese intellettuali, a questa dedizione sterile alle lettere una nuova inettitudine:
questo corpo a corpo con la parola scritta mi ha sottratto agli esseri amati in un tempo prezioso, che era il tempo breve in cui la sorte me li aveva messi accanto […] Ho bisogno di filtri letterari; la semplice presa d’atto della realtà mi annienta.
Questa specifica inettitudine impedisce prima di tutto al protagonista di godere: non esiste nel romanzo un singolo passo dedicato alla descrizione del piacere. Nonostante il testo tratti di una relazione di coppia, del suo presente amorfo e del suo passato matrimoniale, nonostante nella vicenda narrata ci sia un incontro sessuale fra i due, non troviamo parola che lo descriva, che dica del corpo come luogo di piacere. Del resto, neanche di dolore. L’incapacità di questo filologo, la sua cifra caratteriale restituiscono un personaggio incapace di provare emozioni.
Anche a causa della sua apatia, partecipa alla decisione della sua ex moglie di aderire a un progetto di vacanza per orfani ucraini: si tratta di offrire a dei ragazzini la possibilità di stare al mare, di vivere dei mesi di benessere e di agio. In un primo momento la situazione lo rende scettico e il fatto che Kolja, Nataša e Katja li chiamino “mamma” e “papà” appena arrivati, nonostante sappiano anche loro di essere figli stagionali, lo impensierisce. Poi questi ragazzini, la possibilità di prendersi un po’ cura di loro, di accudire Nataša in una notte di indigestione, di ritrovare Kolja che sembrava perduto nei meandri della burocrazia ucraina, dà un senso alla sua esistenza:
Quel tempo si congiunge al presente, l’infanzia più tenera e recondita perdura in un flusso di vita generale, profonda e indistinta, che riguarda tanto l’esistenza degli ospiti di quest’istituto (nelle poltroncine in fila, bambine e bambini che hanno bisogno di cure e di calma, inalano, sotto gli occhi di un’assistente, sostanze benefiche in un’ora lenta, nei pomeriggi invernali) quanto la mia.
Kolja, Nataša e Katja gli ricordano la sua infanzia, lo riportano al tempo dell’efficacia in potenza, prima che la possibilità di trasformarla in atto si infrangesse come la risacca delle infinite possibili traduzioni di un verso dell’Eneide.
Corsalini racconta, in un romanzo che ha come sottotitolo Una storia familiare, di una coppia separata da anni che a un certo punto scopre in un progetto di affido-vacanza di avere ancora qualche velleità genitoriale. Ne scrive in un testo che dice dell’idea di avere dei figli senza mai fare accenno a un barlume di desiderio sessuale fra Natalia e il marito. Natalia del resto viene raccontata solo a partire dallo sguardo mesto della voce narrante:
Considerando che il suo carattere è quello che è, inquieto, pieno di pretese, tendente a colpevolizzarmi, dal suo sfiorire mi sarei potuto aspettare una pacificazione. Tutto sommato quello che lei mi chiedeva era quanto voleva ed era incapace di ottenere dalla vita, e il fatto di invecchiare in questi casi giova.
Con la rassegnazione dell’età che a volte viene scambiata per saggezza, questa coppia inesistente, perché separata, progetta di creare una famiglia mescolando apatia, altruismo, ambizione e un bisogno cieco quanto comprensibile di dare un senso alla propria esistenza colta.
L’approccio di Corsalini a questa storia, alla scrittura, è profondo, tanto da pescare la verità.