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o stabilimento della General Motors a Janesville era il più vecchio d’America. La produzione di Chevrolet fu avviata nel 1923, lungo la riva del fiume Rock, in questa cittadina laboriosa, che conta poco più di sessantamila abitanti, nota nel mondo anche per la produzione le stilografiche della Parker Pen Company. Il Premio Pulitzer Amy Goldstein parte dall’epilogo di questa storia per raccontare l’impatto della grande recessione del 2008 su una comunità dalla radicatissima tradizione industriale: l’alba invernale del 23 dicembre 2008. Fuori dalla fabbrica, dal perimetro di 450.000 mila metri quadrati, gli operai e le operaie vedono uscire l’ultimo SUV dalla catena di montaggio. La città si trovava improvvisamente sguarnita del luogo che aveva segnato lo sviluppo, le relazioni e le lotte di un’intera comunità. Questa industria, in cui nelle fasi di piena occupazione lavoravano settemila persone, era destinata a divenire una cattedrale nel deserto.
Janesville. Una storia americana (Luiss University Press, traduzione di Chiara Veltri) è la storia di uomini e donne che si trovano a fronteggiare l’esplosione delle crisi cicliche del sistema produttivo. Goldstein, giornalista di spicco del Washington Post, si è immersa per anni nella città, aprendo il microfono ai lavoratori del settore automobilistico e alle loro famiglie, raccogliendo e studiando montagne di documenti. Sono proprio la genesi e i tempi di lavorazione del libro di Goldstein a fare differenza: la giornalista intendeva raccontare una storia che raffigurasse lo scenario della crisi economica nella vita delle persone. Dopo aver scelto Janesville, ha illustrato l’idea al proprio giornale, asserendo che si trattava della storia più importante della propria carriera e che avrebbe dovuto prendersi il tempo necessario. È arrivata in città senza aver stabilito contatti diretti in precedenza, ma con un approfondito e serio impegno di documentazione storica. Il periodo della ricerca sul campo si è protratto per tre anni, nei quali Goldstein ha saputo costruire i rapporti con le persone tanto da ottenerne la fiducia per rendere pubblici, menzionando nomi e cognomi. Per lunghi mesi ha evitato di porre domande personali, per poi riuscire a scavare nelle storie private.
Il suo viaggio è iniziato da una domanda: dopo 85 anni come può cambiare e reinventarsi un territorio che ha visto stravolgere i bioritmi di intere generazioni e andare in frantumi i propri equilibri socioeconomici? In questo reportage narrativo traspaiono lo smarrimento della classe media che non è più tale, e l’esito della marginalizzazione del mondo operaio. Emergono la volontà dei cittadini di non arrendersi e tutti gli errori da non commettere nel gestire crisi di così ampia portata.
La scena di apertura del libro vede Paul Ryan, ambizioso esponente repubblicano nato a Janesville, poi divenuto Speaker della Camera, mentre riceve una telefonata da Rick Wagoner, presidente e amministratore delegato di General Motors. Quest’ultimo gli anticipa che l’indomani avrebbero annunciato la chiusura a Janesville dello storico stabilimento. Gli operai lo scopriranno all’alba, recandosi alla catena di montaggio. La scalata di Ryan nelle gerarchie del Partito Repubblicano si fondava anche sul prestigio della città natia, quale simbolo della prosperità e forza tranquilla nordamericana: il controllo di Janesville costituiva un ruolo così determinante nel percorso politico da non abbandonarla mai del tutto per Capitol Hill dopo la prima elezione al Congresso. Eppure, la solidità e la costanza della relazione tra Ryan e i vertici di GM sembrano svanire. Non aveva ricevuto avvisaglie dell’ormai imminente catastrofe economica e occupazionale. Nella conversazione telefonica, dopo frammenti di silenzio, Ryan s’infuria, rivendica la lealtà di Janesville nei confronti della casa automobilistica, chiede che siano studiati nuovi modelli di vetture, ma la politica locale e nazionale sono sostanzialmente impotenti. I politici non riusciranno a incidere sul management della multinazionale di Detroit, che aveva scelto la chiusura e gettato nell’incertezza la vita di migliaia di famiglie.
Come può reinventarsi un territorio che ha visto andare in frantumi i propri equilibri socioeconomici?
Al primo turno in fabbrica sono le 5:48. Ancora non si scorge l’alba, ma la notizia inizia a circolare dalle frequenze della radio locale WCLO 1230 AM. Al momento di timbrare il cartellino, a oltre milleduecento operai viene consegnato un foglio di convocazione. Un dirigente della GM svolge il compito di comunicare in modo asettico la cessazione dell’attività. A Janesville non esisteranno più automobili da assemblare. Lo spettro delle reazioni è ampio: c’è chi piange per il salario da 28 dollari all’ora perso e il baratro sul quale si sporge, chi appare impassibile e chi, in fondo, si sente liberato dalla consuetudine faticosa e straniante della catena di montaggio, e immagina la protezione degli ammortizzatori sociali. Tuttavia il prezzo più alto è il trauma violento della perdita dell’identità della città, che aveva superato altre crisi, mentre ora deve guardarsi allo specchio e ricostruire la narrazione di sé stessa: Janesville illumina le conseguenze della monocultura industriale su una comunità, che ha vissuto per anni esorcizzando l’incubo del licenziamento di massa.
Tra le figure interessanti narrate c’è Bob Borremans, al vertice del Southwest Wisconsin Workforce Development Board. La missione dell’ente pubblico che lui dirige consiste nel fornire denaro e competenze per la formazione degli americani in cerca di un lavoro o che dovranno reinventarsi dopo aver perso la propria occupazione. Con la sua lunga esperienza nel campo, dubita del protocollo governativo dal nome evocativo “Risposta rapida”. Sa che le agenzie non posseggono alcuna forza di reazione per impedire o cambiare il corso della crisi decretato da GM, mentre su di lui ricade la seconda fase: deve saper attutire il colpo e suturare l’emorragia. A Bob spetta di far arrivare a Janesville gli aiuti governativi, ma il compito più complesso è infondere fiducia in uno scenario denso di incognite.
Gli operai di Janesville non sono pezzi intercambiabili, perché hanno una storia da raccontare. Non è sufficiente proporre loro di sedersi dietro ai banchi e ricominciare a studiare. Janesville smonta quello che Goldstein definisce il mito culturale, che risale alla fondazione dell’America, di una terra che offre sempre alle persone una possibilità di reinvenzione personale: “Non ci sono molte prove che la formazione professionale negli Stati Uniti sia un modo efficace per ridare ai lavoratori licenziati un impiego stabile”. La fabbrica è una storia di padri, madri e figli. Un secolo prima le loro virtù produttive erano state messe in bella mostra a Chicago: all’Esposizione universale operai, retribuiti per la recita, assemblarono le berline Chevrolet Master Eagle in favore degli spettatori. Erano il fervore dell’industria moderna che guardava oltre la Grande Depressione. Dopo la Prima Guerra Mondiale una fabbrica locale di trattori affiancò il destino della cittadina a quello di General Motors. L’ingegno di Joseph Albert Craig, già giovane e intraprendente direttore generale della Janesville Machine Company, aveva attirato l’attenzione di William C. Durant, fondatore e presidente di GM, installando la produzione locale di trattori a benzina. L’interesse di Durant per quel segmento di mercato in forte crescita segnò la svolta. I due si incontrarono e trattarono a Detroit: dalla fusione di due fabbriche nacque la divisione trattori di GM. Nel 1920 furono investiti i capitali per la costruzione dell’impianto industriale. Durant celebrò con queste parole quel fermento: “In tutta la mia esperienza non ho mai visto in una cittadina di modeste dimensioni come questa uno spirito più positivo o dei risultati più encomiabili. Prevedo uno splendido futuro per Janesville”.
Nel 2007 il futuro invece appariva come una minaccia. General Motors annunciò che le perdite ammontavano a 39 miliardi di dollari, prevedendo 74mila prepensionamenti con le azioni al valore più basso da 50 anni. L’anno successivo nella lunga campagna elettorale, che lo portò alla Casa Bianca, Barack Obama passò da Janesville. Sul palco sedeva anche l’operaio Marv Wopat. Il futuro presidente sostenne che quella cittadina continuava a rappresentare la promessa di prosperità dell’America, era la marea in grado di tenere a galla ogni barca. Ma in realtà il precipizio era a un passo. Il ritratto di Wopat esprime il senso della parola solidarietà, che travalica la catena di montaggio. Se i luoghi appartengono a chi li abita e respira, Marv sembra possedere l’intero perimetro esteriore e interiore della fabbrica. Nell’ultimo discorso, alla fine di una giornata intensa, Wopat si commosse, e disse davanti agli altri operai: «La cosa più importante del lavoro è la solidarietà, poter cooperare con le persone e cercare di aiutarle». Era approdato nella fabbrica dalle fattorie del Wisconsin e quello è stato il suo unico luogo di lavoro, nel quale ormai erano cresciuti anche i figli, che avevano sempre percepito la sensazione di dover diventare un operaio automobilistico. Come accade spesso soprattutto nella storia industriale di grandi impianti in piccole città le assunzioni erano questione ereditaria e di rapporti personali. Dopo la fine del lavoro alla GM, ai figli è toccato riscoprire il mondo fuori. Per Wopat la fabbrica è stata un luogo di socialità, dove ha condiviso e affrontato con i compagni di lavoro anche il problema della dipendenza dall’alcol. Lui stesso poi ha creato un centro di ascolto interno per superare le dipendenze. A Janesville esisteva una lunga tradizione, che coinvolgeva tutta la città, per la colletta alimentare natalizia. Si è interrotta con la chiusura della fabbrica. Wopat asserisce che la rottura del sentimento di solidarietà è il segno più preoccupante della crisi: un grande vuoto nella comunità e nel suo cuore.
Goldstein si sofferma sull’aspetto psicologico: negli operai subentra quasi un senso di colpa, come se la responsabilità del licenziamento fosse loro.
Per la prima volta in oltre un secolo Janesville si sente come un marchio danneggiato. La narrazione sulla cittadina era cambiata: bisognava misurarsi con espressioni fino ad allora sconosciute quali ricollocazione e sussidio di disoccupazione. Goldstein si sofferma sull’aspetto psicologico: negli operai subentra quasi un senso di colpa, come se la responsabilità del licenziamento fosse loro. Si sentono a disagio nel condividere la colazione con i figli, che pongono domande: “Non dovresti essere già in fabbrica a quest’ora?”
Fino alla comunicazione ufficiale della chiusura, Janesville ha creduto di avere le carte in regola per convincere GM a restare, che invocava sovvenzioni e incentivi pubblici: “Quando i produttori di automobili americani decidono dove fabbricare nuovi prodotti ormai si aspettano che gli Stati e le comunità, che hanno preso in considerazione, offrano doti enormi sotto forma di agevolazioni fiscali e altri sgravi finanziari”, scrive Goldstein. I 195 milioni di dollari offerti dal Wisconsin per portare un nuovo modello non furono giudicati sufficienti da Detroit. Nel caso in esame il Michigan si aggiudicò la produzione del modello di GM con un’offerta più vantaggiosa. Ma non si tratta di un’eccezione: per esempio la Ford, a fronte di un investimento di 75 milioni di dollari per ristrutturare e riconvertire uno stabilimento di autocarri a Wayne nella produzione della nuova Ford Focus, ne ottenne sempre dal Michigan 387 tramite incentivi fiscali e rimborsi.
Janesville è un atto di realismo che tempera la narrativa persistente dell’America quale terra dei sogni e delle speranze: è proprio la dipendenza da questo immaginario che impedisce di affrontare i problemi alla radice. I milioni di dollari che affluiscono per rendere da un giorno all’altro gli operai brillanti studenti di college, non si trasformano automaticamente in posti di lavoro. In attesa del “passaporto di compatibilità professionale”, le persone che perdono l’impiego rischiano di perdere anche la casa. Si rimane indietro con le rate del mutuo, i nuclei familiari devono considerare l’opzione di separarsi per andare alla ricerca di una nuova occupazione. Matt, il figlio di Marv Wopatt, ha cinquant’anni e fatica a immaginarsi lontano dalla fabbrica: sente che si è rotto il vincolo generazionale.
Colpisce la storia dell’operaia Barb Vaughn, madre single di tre ragazze. In seguito al licenziamento di un’azienda dell’indotto, si diploma dopo due anni di studi per la nuova formazione con il massimo dei voti al Blackhawk Tech e viene assunta come guardia carceraria. Inizia a guadagnare 16.47 dollari all’ora, uno stipendio agognato da molti, ma quel mestiere non fa per lei. La mattina fatica ad alzarsi dal letto fino a piombare nella depressione più cupa. Goldstein sa restituire con profondità e rispetto le sue lacerazioni interiori. L’esperienza della deindustrializzazione di Janesville ci ricorda che il numero degli occupati non è l’unico indicatore da tenere in considerazione, contano la qualità del lavoro e gli equilibri sociali derivanti. Nei quattro anni successivi alla fine della fabbrica in città il tasso dei suicidi è raddoppiato. Dopo la tempesta della recessione, lo scenario è quello della precarizzazione degli impieghi, la sostanziale scomparsa del corpo intermedio del sindacato e il conflitto tra lavoratori a caccia di un impiego a qualsiasi costo.
La simmetria più pericolosa che emerge nella lettura, è la povertà nonostante il lavoro, che costringe i protagonisti del racconto in uno stato di ansietà.
L’autrice ha reso universale una vicenda locale, che in fondo interroga il nostro rapporto con il lavoro e spinge a chiedersi quanto ci condizioni anche nell’inconscio. La simmetria più pericolosa che emerge nella lettura, è la povertà nonostante il lavoro, che costringe i protagonisti del racconto in uno stato di ansietà. Il dover cambiare mestiere non è una banalità: a Janesville come altrove significa spesso il declino o comunque l’impoverimento dei precedenti standard di vita personali e della stessa città.
Nonostante siano passati molti anni la mega area industriale non è stata ancora bonificata e attualmente non esistono progetti di riconversione. Che cosa significa convivere con il fantasma di una fabbrica? Viene in mente il bel romanzo, insignito del Premio Goncourt, del francese Nicolas Mathieu, E i figli dopo di loro (Marsilio), in cui un gruppo di adolescenti si misura con il corpo di una grande fabbrica abbandonata nell’est della Francia. Non hanno più una storia sulla quale costruirsi e ballano sulle macerie della deindustrializzazione, che ha stravolto vite e paesaggi. È un mondo vissuto cent’anni, quello dell’industria siderurgica e dell’uomo di ferro che con sacrifici altissimi ha fatto vivere le famiglie. È un panorama in dissoluzione e gli adolescenti non sanno come rapportarsi a quell’eredità. Non è la fine del mondo, ma di un mondo.