N egli anni Duemila Giorgio Falco si è fatto conoscere da un pubblico non così numeroso ma decisamente ammirato con due libri, Pausa caffè (2004, Sironi) e L’ubicazione del bene (2009, Einaudi), fortemente improntati al mondo del lavoro e alle sue metamorfosi nel primo scorcio di ventunesimo secolo. In seguito ha pubblicato altro, alcuni volumi passati un po’ in sordina, e La gemella H, il libro della consacrazione, un romanzo premiato e molto ben accolto da pubblico e critica, che nonostante l’ambientazione storica comprendeva e in parte trasfigurava le tematiche degli esordi. Come ben testimoniava la presenza di un personaggio che lascio presentare allo stesso Falco, con le parole contenute dentro Ipotesi di una sconfitta, il suo nuovo libro pubblicato da Einaudi:
Dentro La gemella H viveva un personaggio senza nome e cognome: L’Uomo di Lenhart, l’essere umano anonimo, subalterno, così schiacciato dalle istituzioni politiche, economiche, burocratiche e lavorative da non avere nemmeno nome e cognome. Era il piccolo impiegato, il funzionario imperturbabile e irrilevante, il capoufficio potenziale, l’uomo tecnico e burocratico con i baffetti, i capelli unti di brillantina e lutto, l’occhio danzante sull’orologio per vedere quanto tempo impiegava a passare la vita. L’uomo che voleva qualcosa senza sapere esattamente cosa, e sentiva l’assenza al proprio fianco (…) L’inespugnabile uomo economico ammalato di fragilità e inadeguatezze congenite.
Come per l’Uomo di Lenhart, così nei primi libri di Falco era difficile indicare il posto di quel narratore solitario, malinconico, vagamente monomaniacale, al di fuori del mondo nel quale le sue parole ci immergevano e dove lui stesso era immerso: come se, ormai assuefatto, o adattato al suo ambiente malsano, non potesse sopravvivere altrove. O come se, creatura letteraria meticolosamente desunta dalle premesse postulate dal suo universo, da quel mondo squallido e insensato, la sua esistenza non avesse pertinenza in un altro e diverso mondo possibile. Senonché il mondo di cui parlava Giorgio Falco non era affatto possibile, bensì rigorosamente reale. Falco è uno scrittore realista, abbastanza realista da poter essere annoverato nella lista dei molti autori che negli ultimi vent’anni si sono dedicati al problema del precariato, dell’esistenza flessibile, della frammentazione sociale. Scrittore di denuncia, a modo suo, e mosso da un evidente e necessario disgusto per il degrado spaventoso del lavoro e per il tracollo dell’“indotto” sociale ed esistenziale che da quello discende.
A differenza di molti suoi colleghi è però sempre mancato in Falco – ed è questo che dona alla sua parola quella potenza assertiva, quell’inerzia incontestabile, come di cosa che precipita, più poetica forse che narrativa – qualsiasi cipiglio, qualsiasi postura inquisitoria, qualsiasi empito civile. La voce di Falco è troppo saldamente ancorata al dato per esercitare la distanza necessaria al giudice o al moralista. La sua visione troppo spaventata, troppo ricettiva per reagire al pericolo altrimenti che mimeticamente, come fanno gli animali quando non c’è via di scampo. Come un Robinson abbandonato nell’isola di un incubo post-fordista, il soggetto che presiedeva alle sue passate narrazioni si aggirava per il territorio disumano nel quale si trovava confinato con una sorta di furia entomologica. La fuga non sembrava appartenere alle possibilità da lui prese in considerazione – perciò procedeva, intento a raccogliere materiale, descrivere nuove specie, catalogare, collezionare, esaurire il mondo che lo circondava e lo opprimeva.
Nel nuovo libro Falco retrocede alla matrice autobiografica della sua ossessione (anti)lavorista e nel racconto della propria disgregata vita professionale, di tutte le occupazioni che hanno scandito gli anni e i decenni, nel confronto col padre e con la sua etica lavorativa dura come l’acciaio, finisce per scrivere qualcosa di assai vicino a quanto aveva fatto Vitaliano Trevisan, non molto tempo fa, con il suo Works, ovvero una massiccia opera letteraria sul nomadismo professionale del soggetto lavorativo in epoca neoliberista, a metà tra il memoir e il romanzo d’artista. Ipotesi di una sconfitta è anche un meta-libro che contiene i libri precedenti e ne chiarisce la genesi e le ragioni, quasi il bilancio letterario di una vita di scrittore, o meglio di una parte di essa (Falco non ha ancora compiuto cinquant’anni).
La scrittura è infatti il prodotto paradossale del lavoro: compensazione clandestina e unico orizzonte di senso negli anni di occupazione; sbocco naturale nel momento della resa, quando l’autore decide di rinunciare al quel ruolo sociale uscendo dal lavoro in un gesto che contiene uguali dosi di rovina e di catarsi, poiché la scrittura non diventerà mai a sua volta lavoro, quasi non potesse o non volesse farlo. È interessante in questo senso, e perfettamente in linea col profilo discreto di una resistenza sommessa e tenace che emerge dalla sua scrittura, la totale assenza di Falco dal brulicame del web e dei social network, principali canali di autopromozione del lavoratore culturale/artistico divenuto imprenditore di se stesso.
La scrittura è dunque quella fuga che non si dava, che non vedevamo nei mondi raccontati nei primi libri: la fuga erano i libri stessi, l’atto della loro scrittura. La voce, il ritmo, il pensiero di Falco si sono formati come un’identità renitente in quell’invisibile parte dell’io che, nel mezzo del lavoro degradato e delle degradanti relazioni umane che lo circondano, disertava. Non una scelta da bohème, niente di simile, ma una formula minima di sopravvivenza psichica e morale. Nello stesso tempo, fatalmente debitrice del suo peggior nemico, la scrittura portava (e porta) impressa in ogni pagina la vicenda lavorativa dello scrittore, anche laddove, abbandonatosi all’ipotesi della sconfitta, esce di scena il militante disilluso, il rappresentante dei lavoratori che baccaglia col padronato, e lascia il posto all’esistenzialista dell’antropocene cantore di ambienti desolatissimi, paesaggi alienanti e marginali: “la fantascienza dell’oggi pomeriggio” per usare una sua espressione.
È insomma, il suo, un caso specifico di scrittura in reclusione: durante l’ultimo anno di impiego presso una grande compagnia multinazionale di telecomunicazione, racconta Falco, è riuscito a scrivere segregandosi come un odierno Bartleby in un ripostiglio di ascetismo e rifiuto al lavoro, prima di essere scoperto e quindi allontanato. “Avevo fallito per liberare anche mio padre” scrive poi, ma non è facile indovinare il valore di questa liberazione sofferta e piena di retropensieri: il puritanesimo professionale paterno da una parte, la disgustata inettitudine del figlio per le nuove forme del lavoro dall’altro. In fondo Falco resta fedele al padre: “intrappolato tra le due epoche economiche nelle quali ero cresciuto non volevo soccombere alla seconda, e allora, a costo di essere nostalgico, meglio scomparire con la prima, quando tutto sembrava potesse durare per sempre.” Lo sfondo ostinatamente marxista, l’eredità di un lavoro diverso, di una dignità perduta e da riconquistare è ancora il sale della sua scrittura, il pigmento che dà alle sue parole la tinta di malinconia estrema e la disarmata, ma geniale, ironia che le rendono uniche nel panorama letterario italiano, anche quando non parlano di lavoro e si limitano a descrivere mondi, o scorci di mondo:
Da lì mi ero affacciato sul bordo posteriore del deposito, tra vetri di una bottiglia di birra rotta, mozziconi di sigarette e filtri di canne, fazzoletti bianchi accartocciati, lascito di qualche orgasmo notturno, la solita scenografia creata dagli esseri umani in una strada periferica a fondo chiuso.
Con il solito incedere andante e svagato capace di insinuarsi non visto tra i più amari dettagli del reale, Falco ci racconta la sua misera epopea: come è trascorso di lavoro in lavoro – dalla fabbrica alle vendite porta a porta, dai call center alle consulenze aziendali fino a finire, in uno scivolare progressivo nei più vischiosi gorghi del reddito odierno, a campare di scommesse sportive (soprattutto tennistiche, seguendo via internet a orari improbabili partite secondarie di tornei minori in qualche paese remoto). Tutto ciò diventa, nelle notazioni e nello stile dello scrittore, anche un ritratto dell’Italia dagli anni Ottanta a oggi, delle sue forme di produzione e di espressione, della sua politica, di un paese che precipita col narratore, che lo accompagna come un’ombra nel suo sconsolato sperimentare la degenerazione progressiva del mestiere di vivere.
Alla fine di tutto, dopo fabbrica, strada, azienda, dopo la reclusione solitaria dello scommettitore 24/7, abbandonato anche quest’ultimo assurdo girone dell’esistenza contemporanea, così si esprime il disoccupato (in)felice: “Sapevo di essere uscito per sempre dal mondo del lavoro. Mi restava quanto restava del mondo”. Non molto, in un mondo dove la dimensione economica ingloba ogni giorno nuove porzioni della vita pubblica e privata. Le quasi quattrocento pagine del libro – non tutte ugualmente riuscite e appassionanti benché sempre precise, oneste e motivate – servono a fare la tara, il bilancio di questa differenza, a dare forma alla spoliazione, a quel poco che resta e che sopravvive.