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osa comporta un autentico processo di liberazione? È possibile liberarsi senza passare da un lavoro di ricostruzione di sé stessi? Non è forse sempre necessaria una creatività narrativa che, pur nel rispetto della verità, accompagni qualsiasi autentico processo di affrancamento? La questione della colonialità in Algeria, analizzata da Karima Lazali ne Il trauma coloniale, non può che rappresentare il laboratorio storico e teorico ideale per rispondere a queste domande. E ciò perché la colonizzazione francese dell’Algeria ha comportato non solo uno stillicidio in termini di vittime – il cui numero effettivo è ancora oggi oggetto di disputa – ma perché la violenza coloniale si è esercitata contemporaneamente e senza soluzione di continuità nello spazio simbolico e identitario dei colonizzati.
Violenza agita su diversi piani, e ripetuta in diversi tornanti storici, che affonda la sua logica nell’operazione tipica del dispositivo coloniale: la cancellazione della storia del colonizzato. La matrice di questa violenza si è quindi manifestata con la volontà di fare tabula rasa della cultura e della storia algerine. Nelle parole di Lazali: “Una delle specificità della conquista francese dell’Algeria è stata quella di affermare, contro ogni evidenza, che questo territorio era senza storia né cultura, una specie di terra vergine da conquistare. Questo ha causato un fenomeno particolare: l’impressione – nel senso primo di impressione dell’inchiostro sulla carta – nella mente degli individui coinvolti, coloni e ‘indigeni’, di uno spazio vuoto”.
La colonizzazione algerina è stata un macro-laboratorio storico di processi psico-collettivi che hanno trovato nella dislocazione geografica Francia-Algeria un supporto fantasmatico agli aspetti più scabrosi del processo coloniale.
Oltre ad essere un fenomeno storico, militare, politico, la colonizzazione algerina è stata quindi un macro-laboratorio storico di processi psico-collettivi che hanno trovato nella dislocazione geografica Francia-Algeria un supporto fantasmatico per gestire gli aspetti più scabrosi del processo coloniale tout court. Paradosso che l’autrice non manca di sottolineare quando nota che “la Repubblica esporta laggiù il rovescio della sua Costituzione”. Come in un gigantesco processo di idealizzazione e diniego, nel caso algerino si ha l’impressione di una vera e propria dislocazione per la quale, tanto più la Francia si identificava con l’ideale repubblicano, quanto più aveva bisogno di esternalizzare la violenza coloniale.
Un meccanismo che si ritrova operante ancora durante la guerra d’Algeria, e del quale sono testimoni quelle laceranti pagine del romanzo-diario di Henri Alleg La tortura, del 1958, testimonianza in prima persona delle torture subite dai prigionieri per mano degli occupanti francesi. Nella prefazione, Jean-Paul Sartre scriverà che “l’accesso dei bougnoules (termine spregiativo per indicare i nord-africani) alla condizione d’uomini” ripugna al colono “non soltanto perché ne vede le conseguenze economiche ma perché gli annunzia il suo decadimento personale” (in Henri Alleg, La tortura, 2022).
Ancorché informata dalla sua pratica di psicoanalista, la disamina proposta da Karima Lazali costituisce infatti anche un lavoro di ricostruzione storica e politica. Si tratta di un saggio dove il dispiegamento delle dinamiche simboliche e di rimozione collettive e individuali è descritto accanto ai tempi storici degli eventi e delle date cruciali che hanno segnato l’Algeria. Il richiamo alla testimonianza di Alleg non è casuale, probabilmente, e ci lasciamo volentieri guidare dalle parole, visto che un ingrediente delle torture raccontate in quel romanzo è proprio l’utilizzo del Pentothal, o siero della verità. Ed è proprio la questione della verità che torna insistentemente nelle sedute con i suoi pazienti, ci dice Lazali. Ci si ritrova con persone, dice l’autrice, che “hanno iniziato l’analisi per alcuni sintomi particolari che apparentemente non hanno alcun legame né vicino né lontano con questo episodio della Storia”, ma che nonostante ciò “a un certo punto del percorso di analisi […] hanno formulato la loro impressione dolorosa di essere ostaggio di una storia che non possono ricevere, e di cui non sanno cosa fare”.
Lazali, in quanto psicanalista, si rende conto che i suoi pazienti sono la cartina di tornasole di una dinamica più grande, di un processo di ‘silenzio attivo’.
Perché è questo ciò di cui Lazali, in quanto psicanalista, si rende conto: i suoi pazienti sono la cartina di tornasole di una dinamica più grande, di un processo di silenzio attivo, potremmo dire (per distinguerlo da un mero stare in silenzio passivo). Chi dice la verità? E la risposta che sembra promanare dal lettino d’analisi è che non sia stato dato alcuno spazio o tempo per far parlare la verità. Perché all’indomani della colonizzazione non seguì l’inizio di un vero e proprio processo di elaborazione ma bensì il ripristino di un posticcio ideale nazionalista e tradizionalista; si badi, però, che qui si tratta di un “tradizionalismo” tarato per opposizione al fantasma “europeo”, occidentale, ecc. Dunque un fantasma di un fantasma. I pazienti si ritrovano così schiacciati tra due morse, tra due censure. Una alle spalle: il tentativo di cancellazione storica da parte dell’occupante. Un’altra davanti a sé: l’ideologia nazionale e il ripristino di un ordine omogeneizzante. Infatti, il processo di ricostruzione nazionale è passato attraverso un “lavoro di rastrellamento di qualsiasi forma di alterità per insediare il regno dell’omogenizzazione”. E tuttavia, proprio perché “l’ideologia nazionale si è costruita in opposizione, punto per punto, all’ideologia coloniale”, essa “si è rivelata essere solo il prolungamento della sua eredità”.
Plus ça change plus c’est la même chose, più cambia più è la stessa cosa. Ripristinare la propria identità nazionale è stato così equivalente a una chiusura forzosa dello spazio di elaborazione. E non è un caso se per Jacques Lacan la fretta nel selezionare la propria posizione identitaria può essere talvolta inversamente proporzionale al desiderio di sapere e di elaborare. Lazali non manca di analizzare come questa chiusura imposta dall’alto sia passata da un vero e proprio «dispositivo ‘Lingua, Religione, Politica’» o LRP che ha la funzione di appoggio censorio finanche all’interno dello spazio delle sedute analitiche con i suoi analizzanti. In altre parole, «i discorsi dei soggetti in analisi e le loro percezioni degli effetti dell’analisi durante il trattamento non sfuggono a questa moralizzazione del religioso come rinforzo alle censura già esistenti».
Ripristinare la propria identità nazionale è stato equivalente a una chiusura forzosa dello spazio di elaborazione.
Viene alla mente proprio quel meccanismo di censura per riempimenti e modulazioni al quale fa riferimento Freud in Introduzione alla psicanalisi utilizzando l’analogia con la censura di stampa. Infatti, si può censurare non solo omettendo o cancellando un passaggio, ma anche modificando i passaggi scabrosi:
Altre volte la censura non è intervenuta su una proposizione compiuta. L’autore ha previsto in quali punti ci si dovesse aspettare una contestazione alla censura e li ha quindi preventivamente mitigati, leggermente modificati, oppure si è accontentato di approssimazioni e allusioni a ciò che in effetti voleva uscirgli dalla penna. Il foglio non ha allora alcun punto vuoto, tuttavia potrete indovinare da certe circonlocuzioni e oscurità di espressione il riguardo preventivo usato verso la censura.
In altre parole, l’ufficialità re-inventata della lingua “pura” e l’elevazione della religione a codice comportamentale e di pensiero innervano tutto il lavoro d’analisi, e si aggiungono alle censure già esistenti nel lavoro dell’analizzante rinforzandole ancora di più. Perché parlare di un dispositivo di questo tipo? Perché “le lingue, qualunque esse siano, hanno un potenziale di guarigione e di ricucitura che può intervenire sui peggiori strappi umani”, e proprio per questo “i poteri politici ne hanno avuto l’intuizione all’indomani dell’indipendenza”. Pertanto, rinforzare il plesso Lingua-Religione-Politica (LRP), ritrovare e ricostruire quanto prima una dimensione di identità “pura e autentica”, sono stati gli obiettivi politici più urgenti: bisognava trovare velocemente le nuove lingue dell’indipendenza e “far sì che potessero lavorare sui vivi rifondando le loro interiorità lacerate”.
Mettendo all’opera la sua sensibilità psicanalitica, assieme alla cognizione storica degli eventi, Lazali non manca di sottolineare gli aspetti psicodinamici di questi processi di censura. Se è vero, infatti, che il primo agente della rimozione è proprio il linguaggio, ciò si manifesta in modo ancor più plateale nelle censure e negli sviamenti operanti sul lettino d’analisi. In questo senso, allora, si capisce il perché del ricorso continuo all’idea di uno spazio psichico blanc, laddove blanc è da intendersi non soltanto come mero “vuoto”, ma soprattutto come “bianco” nel senso di una parte di discorso apparentemente mancante, una parte della propria psiche che sembra essere stata sovrascritta, per così dire. L’analogia scritturale e il richiamo a Freud e alla censura giornalistica non è quindi casuale. Il riferimento è qui evidentemente a Lacan, e in particolare al Lacan che, negli Scritti, definirà l’inconscio come «quel capitolo della mia storia che è segnato da un bianco o occupato da una menzogna: è il capitolo censurato» (Lacan, Scritti, Einaudi).
‘Blanc’è da intendersi non soltanto come mero ‘vuoto’, ma soprattutto come ‘bianco’ nel senso di una parte di discorso apparentemente mancante, una parte della propria psiche che sembra essere stata sovrascritta.
L’inconscio con il quale ha a che fare Lazali nella sua pratica di analista non è quindi un recesso di passioni indomabili ancestrali, come vorrebbe una certa banale vulgata, ma bensì proprio “quella parte del discorso concreto in quanto transindividuale, che difetta alla disposizione del soggetto per stabilire la continuità del suo discorso cosciente”. Spazio blanc dei pazienti algerini, quindi, che si caratterizza come un ripiegamento improvviso nel tessuto continuo dei discorsi, ripiegamento e solco di natura eminentemente politica e transindividuale. Il richiamo alla natura discorsiva dell’inconscio è giustificato da questa natura topologica di un inconscio come parte che, pur essendo immediatamente politica e storica, manca nella continuità dei discorsi snocciolati dal soggetto. Qui è dove si manifesta quella violenza coloniale non detta, dove si mostra “la crudeltà di un condiviso taciuto e illeggibile: silenzio [blanc] insistente assordante come una forza d’urto molto tangibile nella società, in Algeria come in Francia“.
L’autrice si interroga quindi anche su quale spazio politico di autentica emancipazione sia veramente a disposizione in un simile scenario. La domanda circa le pratiche sovversive possibili sorge infatti spontaneamente. Se è vero che il dispositivo Lingua-Religione-Politica interviene tempestivamente a tappare i buchi, a saturare i punti interrogativi e gli spazi bianchi, come possono gli algerini mettere in moto degli autentici processi di sovversione? Lo fanno, nota Lazali, non attraverso la sovversione vera e propria, che rimane una possibilità preclusa, ma bensì attraverso lo sviamento. Gli sviamenti sono piccole pratiche sovversive del quotidiano, infingimenti per aggirare il discorso dominante, per crearsi dei piccoli spazi dove muoversi e praticare la propria libertà. Lo sviamento non corrisponde ad un’autentica sovversione, che richiederebbe la messa in discussione politica dell’ordine dato. “La pratica dello sviamento”, nota Lazali, “apre un campo possibile per i desideri e le fantasie, ma conferma i pieni poteri alle censure e ad altri divieti”. Si tratta di “piccole trasgressioni necessarie al respiro dei desideri nell’intimo” che pur tuttavia “imboccano meravigliosamente bene i solchi già tracciati”. In altre parole, gli sviamenti sono piccoli compromessi e azioni individuali che escono dalla legalità del discorso ufficiale. Non ultime, in questo senso, sono per esempio le relazioni tra donne omosessuali consumate di nascosto. Sono azioni che mettono in discussione l’onnipresenza del grande Altro della lingua e della religione ufficiali, ma che non riescono ad assurgere comunque ad una dimensione di radicale messa in discussione collettiva dell’ordine costituito. Si tratta, in altre parole, di un mero vitalismo interstiziale: lo sviamento non ribalta nulla, ma fa proliferare “la produzione di altre scene”. Le pratiche di infingimento, i desideri e le fantasie consumati nottetempo, i rapporti vissuti di nascosto ecc., sono pratiche di sviamento che permettono agli algerini di far respirare la vita fuori dalle griglie del codice morale ufficiale. Eppure, nota Lazali, è impossibile non vedere come queste dinamiche sottolineino la presenza delle censure dando ad esse, paradossalmente, un consenso.
Gli sviamenti mettono in discussione l’onnipresenza del grande Altro della lingua e della religione ufficiali, ma non assurgono a una dimensione di radicale messa in discussione collettiva dell’ordine costituito.
Questi aspetti hanno a che fare con il presente algerino, e con lo stato di salute, evidentemente, della società civile, per cui è utile soffermarsi sul contesto politico-sociale all’indomani della guerra di liberazione algerina. La temperie è qui caratterizzata da un diuturno affacciarsi di nuovi gruppi che vogliono imporsi gli uni a scapito degli altri. Si tratta di quella prosecuzione della guerra di liberazione nazionale, poi diventata guerra civile negli anni Novanta, che di fatto comporta uno stato di instabilità e precarietà continui. Perché anche se è cambiata la molarità degli attori – non è più de Gaulle – i “significanti e metodi si sono riproposti, nella lingua, nell’immaginazione e nelle azioni”. Adesso a essere contestato è il potere politico, che i nuovi mujaheddin vogliono ripulire da ogni traccia di colonialità interna, “una cancellazione pura e semplice”. Si genera così una peculiare confusione, nota l’autrice. I nuovi mujaheddin, ovvero gli islamisti che richiamandosi a Dio si fregiano del compito di ripristinare una politica immacolata e depurata dalla storia coloniale e nazionale, assumono lo stesso nome (appunto, mujaheddin) con il quale venivano chiamati i combattenti per la liberazione nazionale. In poche parole, “la guerra di liberazione è stata a poco a poco ‘islamizzata’”, e i nuovi mujaheddin islamisti “combattono ancora contro il colonialismo, ma in questo caso si riferiscono a molti ex mujaheddin (combattenti nazionali contro l’occupazione francese) come a nuovi coloni”.
Questa è la radice di quel fratricidio continuo tra gruppi rivali, tra chi dall’oggi al domani si eleva a erede e missionario della purificazione e chi vi si oppone. Ma la missione degli islamisti è simbolicamente pregnante per un’altra ragione. Essa infatti non è espressione semplicemente del mito fondativo freudiano di un parricidio/fratricidio istituente, ma – se guardata da vicino – aiuta a capire i simboli e le narrazioni con i quali gli islamisti accompagnano le loro intenzioni. Alcune pratiche permangono, ma cambiate di senso, come per esempio la tradizione di cambiare nome, cancellando il patronimico, per sancire il proprio ingresso alla condizione di jihadisti (come si definiscono gli islamisti). Questa pratica, la kunya, è simbolicamente molto importante, ancorché rivela la cifra della loro missione. La posta in gioco è infatti quella di ripristinare una condizione identitaria primigenia cancellando il nome civile stabilito dalla colonizzazione. Ma c’è un curioso sovvertimento simbolico, nota Lazali, perché in questo caso “gli islamisti tentano di ristabilire il padre a partire dal figlio, ribaltando il solito circuito di riconoscimento dal padre al figlio”. In quest’operazione si rivela quella logica islamista per la quale “non c’è più alcun riferimento né alla storia coloniale e nazionale (patronimico civile) né al sistema tradizionale, per ascendenti (padri, nonni)”. Si tratta, in altre parole, di farsi un padre nuovo. É il figlio che istituisce il padre: “Gli islamisti sono infatti alla ricerca del padre, scomparso nella colonialità che rimane irrintracciabile per i fratelli al potere”. Queste operazioni di rinominazione sono sintomatiche. Per i nuovi combattenti si tratta di una sorta di parabola del figliol prodigo ma al contrario: l’invenzione (quasi “blasfema”, sottolinea giustamente l’autrice) da parte del figlio, di un nuovo Dio a partire dalla cancellazione di un padre spurio.
Il saggio di Lazali è un riuscito esempio di come l’attenzione verso la linearità storica possa accompagnarsi a quella verso il Reale sincopato del trauma.
Infine, ritorna di nuovo il tema della scrittura e della riscrittura, dei nuovi nomi-del-padre – per usare il lessico lacaniano – che si moltiplicano attorno al buco del trauma coloniale. Ma Lazali coglie qui, attraverso la sua lettura di Fanon, un ulteriore passaggio. Perché non esiste solo la narrazione di chi vuole ripristinare un Dio nuovo e autentico, finendo per affastellare nomi e corpi. Esiste anche il colonizzato la cui interiorità “fissurata”, diventa essa stessa la narrazione principale: “L’effrazione, lo spossessamento e la cancellazione finiscono alla lunga per diventare Storia”. Paradossalmente, la causa della malattia diventa essa stessa la sua cura. La crepa e il vuoto sono narrati e posti come mito originario su sé stessi. Proprio per questo curioso rovesciamento dialettico, Lazali può scrivere che “la colonizzazione in Algeria è tanto un mito quanto uno schermo per qualsiasi vera opera di soggettivazione, che sarebbe l’unica possibilità di accesso alla posizione di soggetto. Funziona saturando qualsiasi domanda attinente alla lettura e all’interpretazione che si possono fare di questa parte della Storia”.
Si tratta di foderare quella crepa, quello spazio bianco, e abitarlo: “Via, non c’è più nulla da vedere! È più facile aggrapparsi alla distruzione provocata all’Altro che a quella provocata da se stessi. L’occupazione coloniale funge da baluardo e da sotterfugio”. Una vera e propria traumatofilia inconsciente, per usare le parole di Ferenczi. Ne Il trauma coloniale è quindi evidente come lo sforzo di ricostruzione storica delle vicende coloniali non debba fungere da modello lineare di una storia psichica del colonizzato e che questa, invece, può essere luogo di rovesciamenti, di soluzioni di compromesso e di paradossi difensivi. In ciò, il saggio di Karima Lazali è un riuscito esempio di come l’attenzione verso la linearità storica possa accompagnarsi a quella verso il Reale sincopato del trauma, di come le temporalità storiche e quelle psichiche possano essere lette e rinviate l’una all’altra senza ridurne la rispettiva importanza.