“L a scena in cui Sarah Cooper mima come una ventriloquia il consiglio medico di Donald Trump, quello secondo cui gli americani avrebbero potuto usare disinfettanti per combattere il virus, rappresenta una delle opere comiche più geniali, in un momento in cui ci sembrava che l’unica opzione fosse ridere per non piangere”. Questo passaggio su Sarah Cooper – brillante scrittrice e commediante statunitense, con un passato nell’industria tech – non si trova in qualche corsivo giornalistico o saggio d’occasione, ma in Il sé comico, ovvero la liberazione del sé (traduzione di Daniele Garritano), un’opera filosofica contemporanea di tutto rispetto. Gli autori del libro sono Timothy Campbell e Grant Farred, due professori della Cornell University.
Ora, la storia della filosofia contemporanea contempla libri e progetti firmati da più di una persona. In questo senso, Il sé comico di Campbell e Farred si può ricollegare a una linea che ha sicuramente in Deleuze e Guattari uno dei duetti più stabili e più noti. Nello stesso tempo, quando si ha a che fare con un’opera di due o più autori, c’è sempre da chiedersi chi abbia fatto cosa. O meglio: chi abbia portato cosa nel discorso complessivo che, quando funziona, non è mai solo una semplice somma di voci. Nel caso di Campbell e Farred, si ha a che fare con due menti con, alle spalle, una produzione teorica variegata e notevole. Campbell è, fra le tante cose, studioso del pensiero italiano, di cui ha tradotto molto in inglese, e della cultura italiana conosce molti dei suoi meandri, essendosi occupato di campi come la letteratura e cinema con letture autenticamente originali (fra queste, segnaliamo quella dei film di Antonioni con Vitti). Farred, invece, sembra avere un ventaglio di interessi che arriva a toccare temi la cui presenza, di solito, non si trova facilmente nell’opera di un accademico, come – per esempio – lo sport. Inoltre, Farred è anche autori di alcuni pamphlet (da qui, forse, il tono diretto che qua e là emerge in Il sé comico).
A proposito invece di elementi comuni tra Campbell e Farred, Michel Foucault è sicuramente la figura da cui i due autori partono per il progetto del loro libro, posizionandosi nell’ampio campo aperto dall’ultima parte dell’opera del filosofo francese, cioè quella focalizzata sulla cura del sé e sulle forme di soggettivazione. Nello stesso tempo però, i due autori si distanziano dal loro riferimento, mettendo in primo piano il motivo del loro interesse nel sondare la comicità come argomento filosofico:
Il problema è che Foucault non è abbastanza incisivo sulla questione cruciale che sta alla base del Sé comico: come pensare e criticare la proprietà privata, in relazione al possesso del sé e degli altri. Dalla nostra prospettiva, la principale debolezza della nozione foucaultiana di “cura di sé” consiste nel non aver messo alla prova la nozione di cura sul terreno della proprietà – ossia, nell’aver perso di vista l’istanza proprietaria che fonda la nozione di auto-proprietà. Infatti la cura non serve, almeno non nelle circostanze in cui ci troviamo. Non ne abbiamo bisogno, perché consolida la tirannia del possesso.
Sulla base di questa consapevolezza, Campbell e Farred individuano giustamente nella relazione tra sé e l’idea di comico il tema da affrontare per una critica proficua della nozione di (auto-)proprietà, e di tutto quello che ne può conseguire. L’intuizione di affidarsi alla comicità in un senso, per così dire, teorico, è molto giusta, piacevolmente sorprendente e di grande acutezza intellettuale, perché permette di “collocare il conflitto essenziale per l’attualità tra le lotte per il possesso, che ha origine – per noi – nella relazione tra individuo e sé”.
Più nello specifico, ciò che è comico – a prescindere dall’occasione della sua apparizione – è qualcosa che, secondo i due autori, espropria, ovvero “rinvia all’atto di districare l’io dal mio e l’io dal proprio”. In questa caratteristica c’è, probabilmente, la differenza più significativa rispetto al ben più noto sé tragico, tipico dell’uomo d’azione, capace di tutto ma non di andare oltre al definire “l’individuo in un rapporto di proprietà confuso con l’identità, cioè in una relazione con il sé reificato, ridotto allo stato di cosa o merce che gli appartiene”. Il sé comico invece è donna. Agisce come una sorta di divertente e divertito agente provocatore: scompagina le carte, sfugge alla rappresentazione, ma si trova sempre nella possibilità di poter istigare alla rivolta, andando anche contro i propri piani.
In filosofia, come in tutte le discipline non identificabili con le scienze dure (e pure), il nostro approccio al pensiero rimane sempre dentro una prospettiva temporale in cui passato e presente tendono sempre a compenetrarsi, e così a confondere le acque.
Il tramonto del sé, Rinnegare e rifiutare = rottura e rapimento, Elidi la tragedia, Il sé comico non è comico, “Io penso”, David Hume: il più grande critico dell’identità, Temporalità vs Cogito ergo sum, Da un cammino terminale a un funambolo sulla corda, I sé comici di Don Chisciotte, Il diseguale, La ripetizione tragica sono i titoli dati ai capitoli del libro. La progressione del ragionamento è costante, ma in alcune di queste sezioni le riflessioni di Campbell e Farred sembrano poter essere leggibili – e godibili – anche in autonomia, senza perdere nulla. Per esempio, si può citare il magnifico capitolo 4, Il sé comico non è comico (spoiler: non è nemmeno tragico), dove la trattazione delle doti da ventriloqua della già citata Cooper – o della comicità di un Dave Chappelle – condivide lo spazio con gente più vetusta ma dura a morire come Kierkegaard e Nietzsche, sotto il segno di una riflessione tra ripetizione e comicità. Oppure, si può citare il capitolo 6, sul sempre poco studiato (almeno in Italia) ma fondamentale David Hume, con incursioni di altri filosofi come Henri Bergson – nelle sue riflessioni sul riso – e un bel cameo di Don Chisciotte. In questo caso, cioè in questo capitolo, le riflessioni dei due autori sono tese a mettere in risalto una critica della nostra fiducia sconsiderata nell’identità come soluzione buona a salvare capra e cavoli, considerando che
Il pensiero di ogni io è sui generis, e in quanto tale, nel suo essere già stato pensato, è al di là della pretesa del mio, e resta ancora del tutto generico. In secondo luogo, la differenza tra “Io sto pensando” e “Cogito ergo sum” sta nell’intenzione del primo di far deflagrare la relazione dell’io con il pensiero, creando uno spazio in cui i pensieri accadono all’io. […] Come un sé fondato sul non-possesso-del-sé, questo genere di fedeltà a (tale) differenza è ciò che consente al sé comico di sapere che l’io sta pensando. Terzo, il sé comico, supponendo che esista qualcosa che potremmo definire “pensiero comico”, comprende che ogni tendenza al pensiero merita soltanto una risata […]. Quanta perversione nel lavoro arguto! Nel suo centro mobile, l’intenzione del sé comico si ritrova nella consapevolezza che l’io, in quanto io pensante, tenta disperatamente di appropriarsi dei pensieri.
Nel complesso, questa citazione può rappresentare bene lo sfondo che Campbell e Farred elaborano per descrivere l’azione del loro sé comico, un’azione tesa a farci ricordare che un altro approccio alle questioni “serie” della vita è possibile, un approccio meno possessivo e più aperto alla generosità senza tornaconti o secondi fini, ma solo a partire da una diversa relazione con la propria soggettività, in cui dare un giusto peso alla comicità. Però… cosa può voler dire questo oggi?
In filosofia, come in tutte le discipline non identificabili con le scienze dure (e pure), il nostro approccio al pensiero rimane sempre dentro una prospettiva temporale in cui passato e presente tendono sempre a compenetrarsi, e così a confondere le acque. Se, per esempio, scoperte come quella della penicillina hanno sancito un prima e un dopo nell’ambito della cura medica, cancellando il prima favore del dopo, in ambiti come la filosofia troviamo invece concetti di filosofi del passato che, di fatto, possono dialogare con la nostra contemporaneità, con una continuità che – per dire – non ci sogneremmo mai di avere con certi parenti.
Tornando quindi al nostro discorso: pesare la comicità oggi non significherebbe negare una certa sua funzione sociale storicamente determinata a favore di qualcos’altro. Il castigat ridendo mores vale sempre, come vale sempre, in generale, ridere del potere. A quanto detto, si aggiungerebbe però qualcos’altro, cioè un valore maieutico, verso una rinnovata capacità di farsi beffe di sé, e quindi del sé, fino a far capire che, nel puro gioco del linguaggio, non c’è mai possessione di qualcosa, perché non si danno – per così dire – beni immobili. Semmai, in come ci relazioniamo col mondo, ogni momento può virtualmente portarci a cadere tra continui inciampi o scivolamenti, elementi alla base della nostra vita quotidiana, e che dobbiamo solo imparare a riconoscere con olimpica autoironia.
Campbell e Farred ci ricordano più o meno sempre come un uso creativo del linguaggio contro il nostro interesse non sia, in fondo, poi tanto male.
È in quest’ottica che si possono leggere le conclusioni dei due autori, il loro invito a considerare la nostra cieca volontà di fare del linguaggio una conseguenza delle nostre intenzioni come un fallimento, ma dentro un disegno più ampio:
Talvolta un esperimento ti scoppia in faccia, allora non ti resta che rimboccarti le maniche e spiegare cosa è appena accaduto, in un linguaggio che non conosci più e di cui certamente non ti fidi. In una situazione così disperata, né il sé né qualsiasi altra forma di linguaggio basato sull’(auto-)possesso ti potranno soccorrere. “Povero Yorick”. In alternativa, come abbiamo imparato a riconoscere, l’espropriazione si ritrova sempre trionfante, nonostante la (o talvolta grazie alla) nostra determinazione di impadronirci del linguaggio che ci parla.
Questo disegno più ampio prenderebbe dunque la forma di una sorta di prestazione comica: alla maniera di un film di Buster Keaton (“un esperimento che ti scoppia in faccia,” con una faccia – la nostra – da immaginarsi ovviamente basita e inenarrabile come quelle del grande artista statunitense), con noi pronti a far di tutto per tenere insieme il tutto.
Ma nelle magnifiche righe finali di Campbell e Farred echeggia anche il lavorio sul comico nel fare artistico di uno che fu, a sua modo – e fuori modo – un grande erede di Keaton, cioè Carmelo Bene. Il sé comico è un libro in un certo senso beniano. Non nelle premesse però, ma negli esiti, quantomeno nel delineare come l’aspirazione massima per una vera liberazione di ogni senso di possessione – sé incluso – sia in ciò che Poe chiamò a suo tempo “The Imp of the Perverse”, e che potremmo definire oggi come un uso perverso del linguaggio. Si tratta di una intuizione che Bene ha fatto sua e che ha sintetizzato nel suo lavoro sull’Amleto, che – guarda caso – figura proprio fra i testi principali presi in esame ne Il sé comico.
Nella loro analisi del capolavoro di Shakespeare – ma anche di altre opere – Campbell e Farred ci ricordano più o meno sempre come un uso creativo del linguaggio contro il nostro interesse non sia, in fondo, poi tanto male. Anzi: può essere qualcosa da cui trarre una sorprendente lezione di estetica… Come direbbe Bene a proposito del suo Amleto: “è bello al minatore saltare in aria della sua stessa mina”.