

U na delle confessioni più imbarazzanti che ogni tanto mi trovo a fare riguarda l’età in cui mi sono masturbata per la prima volta – o almeno, la prima volta che sono riuscita a farlo con un qualche risultato. L’imbarazzo viene dal fatto di essere anche costretta ad ammettere che sì, è accaduto parecchi anni dopo il mio primo rapporto sessuale e che sì, per una parte significativa della vita il mio piacere è stato legato a doppio filo alla presenza di un partner maschile, e che no, quando mi ritrovavo da sola non avevo idea di dove mettere le mani. Credevo che l’orgasmo femminile – o quantomeno il mio – fosse un meccanismo così complesso e misterioso, quasi alchemico, da richiedere almeno due persone – preferibilmente innamorate – per riuscire a innescarlo.
La mia educazione sessuale non è stata, credo, diversa da quella di molte altre donne della mia generazione: in famiglia non se n’è mai parlato, a scuola neppure. Ho appreso le prime, maldestre e per lungo tempo uniche, nozioni dalle pagine di Cioè e di Top Girl, dove però non si spiegava mai bene che cosa bisognasse fare – la foto di una papaya tagliata in due rappresentava soltanto un delizioso frutto esotico, non era ancora il supporto ideale per indicare alle adolescenti il punto su cui insistere. Tra amiche ci chiedevamo “l’avete fatto? È stato bello?”, e rispondevamo sempre, invariabilmente, di sì. Quando accennavamo alla masturbazione assumevamo un’aria evasiva, come se fosse una questione di scarso interesse, e passavamo oltre. La pornografia, va da sé, era roba da maschi.
Immagino che ci fossero anche adolescenti meno imbranate di me, beate loro, ma durante la lettura di Il piacere sovversivo. Breve storia della masturbazione (2025) di Alessia Dulbecco non ho potuto fare a meno di pensare che gli anni in cui ho delegato tutto il mio piacere a ragazzi che si mostravano, di volta in volta, più o meno attenti a soddisfarlo, non siano stati altro che la perfetta riproduzione di un dispositivo di potere che riaffermava la propria capacità disciplinare negandomi una conoscenza che mi avrebbe reso una donna più libera e consapevole.
Dulbecco traccia una storia della masturbazione che va dalla Genesi ai succhiaclitoridi che abitano i nostri cassetti, da Montaigne a Sex and the city, e indossando le lenti metodologiche della genealogia foucaultiana analizza le diverse configurazioni di un discorso ‒ quello sulla masturbazione, appunto – che nella storia ha assunto molteplici significati. Se il metodo ricorda da vicino i tre volumi della Storia della sessualità (1978-85, ed. or. 1976-84), si arriva qui però a conclusioni piuttosto distanti da quelle di Foucault: moltiplicare i discorsi intorno alla masturbazione non significa per Dulbecco moltiplicare anche i dispositivi di disciplina, ma, al contrario, innescare nuove potenzialità espressive, liberatorie e di scoperta.
Moltiplicare i discorsi intorno alla masturbazione significa per Dulbecco innescare nuove potenzialità espressive, liberatorie e di scoperta.
Con l’avvento del cristianesimo masturbarsi diventa un vero e proprio peccato contro Dio e la morale. Sono due gli elementi che concorrono alla gravità del gesto, e che segneranno la sua cattiva fama anche nei secoli a venire: la segretezza dell’atto, svolto lontano dallo sguardo normativo della società e quindi difficilmente sanzionabile, e il ricorso all’immaginazione, pozzo inesauribile di fantasie sfrenate e del tutto inconciliabili coi dettami della Chiesa – che, ricordiamolo, non vieta solo il sesso fuori del matrimonio, ma anche tutti gli atti consumati in posizioni “innaturali” o non strettamente finalizzati alla procreazione.
Nel Settecento i timori si spostano, o meglio, si moltiplicano: la medicina, grazie agli studi di ispirazione galenica del medico svizzero Simon-André Tissot, si interessa alla pratica, dichiarandola rischiosissima per la salute – in particolare per quella maschile, che si ritroverebbe infiacchita, svuotata tanto dal punto di vista fisico quanto da quello mentale. In questi anni si pongono anche le basi per discernere la normalità dalla devianza, codificando una sessualità che rispetti i principi naturali e una che invece va contronatura – e che prende le mosse proprio dall’onanismo. Col diffondersi di tali credenze a partire dal secolo successivo si moltiplicano gli strumenti – cinture e anelli uretrali – che impediscono la masturbazione; veri e propri strumenti di ortopedia morale da fare indossare già durante l’infanzia e l’adolescenza per correggere sul nascere tutte le deviazioni del comportamento sessuale.
È solo nel Novecento, grazie al pioniere della sessuologia Havelock Ellis, che all’autoerotismo viene riconosciuto un ruolo benefico e rilassante per l’organismo, sebbene nel sistema freudiano esso rappresenti la manifestazione di una sessualità bloccata a una fase infantile di sviluppo. Grazie ai progressi della medicina, i timori legati all’insorgenza di malattie sembrano ormai tramontati, e la progressiva secolarizzazione della società consente una maggiore disinvoltura nella sfera sessuale. Dai rapporti Kinsey degli anni Cinquanta emerge che il 90% degli americani e il 60% delle americane pratica la masturbazione – anche se queste faticano a liberarsi dalla vergogna e dal senso di colpa.
La masturbazione insinua un principio di rivolta: quello di una pratica che, in definitiva, non produce e non consuma nulla, che rappresenta uno spreco libero e gratuito di risorse.
Nel mentre, da circa un decennio, assistiamo a una trasformazione di segno opposto che riguarda l’autoerotismo maschile. No nut November è una challenge legata al movimento dell’androsfera NoFap che prescrive l’astensione dalla masturbazione per un mese intero. Le promesse sono le stesse di duecento anni fa – migliorare la salute e aumentare la concentrazione – ma la sfida emerge in realtà da un’esigenza di matrice prettamente ideologica: quella di ristabilire una differenza tra una sessualità normale, che tuteli la virilità dalle pratiche sessuali non eteronormate, e una anormale, inquinata dall’industria del porno e dalle perversioni dei movimenti queer. L’universo NoFap è piuttosto eterogeneo e spazia dai fondamentalisti religiosi ai gruppi dell’Alt-Right, che associano esplicitamente la masturbazione all’indebolimento della mascolinità e, per estensione, dell’Occidente.
Sul versante diametralmente opposto abbiamo pensatori luminosi come Paul B. Preciado, che in Manifesto controsessuale (2019) offre una visione prettamente politica dell’autoerotismo, individuato come l’atto antiborghese par excellence – e perciò condannato così aspramente nel corso del Diciottesimo secolo, che ha visto il potere della borghesia imporsi su quello della nobiltà. Masturbarsi, nella lettura di Preciado, comporta un rischio per la tenuta della classe borghese non perché dreni le energie del singolo privandolo della sua funzionalità, ma perché sfugge alle maglie del controllo e insinua un principio di rivolta all’interno stesso della società: quello di una pratica che, in definitiva, non produce e non consuma nulla, che rappresenta uno spreco libero e gratuito di risorse.
L’onanista slega la sessualità dal suo incarico riproduttivo e ostacola perciò l’accumulo del capitale; non crea nuovi legami economicamente vantaggiosi e non rinsalda quelli già esistenti, ma innesca un potenziale liberatorio, sovversivo e gravido di nuove soggettività desideranti. Quello che fa è, semplicemente, ciò che un buon borghese non farebbe mai: perde tempo. Oltre a scardinare le logiche del pensiero capitalista, l’autoerotismo si configura come una pratica di autodeterminazione e scoperta di sé in grado di sfidare i dispositivi patriarcali, liberando il piacere femminile e svincolandolo dall’universo prescrittivo della coppia. Citando la poeta femminista Audre Lorde, “Dopo aver sperimentato la pienezza di questo sentire profondo e averne riconosciuto il potere noi non possiamo, in onore e rispetto di noi, pretendere di meno da noi stesse”.