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ora Krug nasce nel 1977. Molti anni dopo la caduta di Berlino, la capitolazione della Germania, le riparazioni di guerra, i processi ai criminali nazisti. Nora Krug cresce nella Germania dell’Ovest, una nazione indebolita dalla divisione del Muro, politicamente soggetta agli Stati Uniti, orgogliosa ma senza il coraggio di sollevare lo sguardo dall’impietoso lastricato della Storia. Gli anni passano e Krug diventa una professionista unica nell’arte sequenziale e nell’illustrazione, vince premi a decine, realizza piccoli capolavori (uno su tutti è Shadow Atlas pubblicato e distribuito da Strane Edizioni), si trasferisce a New York dove la sua carriera si fa esemplare, e la sua opera finalmente universalmente riconosciuta.
Appena arrivata nella grande città, lei che ha passato tutti gli anni della sua vita a Karlsruhe, sbatte contro un’imprevedibile realtà: è una tedesca negli Stati Uniti. La guerra è finita da anni, ma pesa ancora nelle parole, nelle battute, negli sguardi della gente. E pesa anche in un incontro fortuito con un’anziana signora, una sopravvissuta ai campi di sterminio tedeschi, che fa fatica a guardarla negli occhi quando gli chiede da dove proviene. Nora risponde che viene dalla Germania. Lei dice – Mi pareva – intendendo che si può imparare un’altra lingua, ma il proprio accento, quello con cui hai imparato a dire Mamma Papà Pappa, non si dissimula, non scompare, rimane come un marchio. E quel marchio inizia a bruciare non tanto sulla pelle, ma nel cuore e nell’anima di Nora Krug. E quello è il marchio del proprio paese d’origine, delle proprie radici, della propria Heimat.
L’autrice mette subito in chiaro che per un tedesco non esiste parola più importante di questa. Heimat vuol dire luogo familiare, fidato, luogo dove trovare serenità e sicurezza. È riduttiva la semplice traduzione in Patria. Nora Krug, decenni e decenni dopo, quella Heimat, quella culla confortevole dove prendere respiro e rigenerarsi, stenta a trovarla. Qualcosa di terribile arriva ad ammorbargli l’aria di New York; è il dubbio nei rapporti con i vari rami della sua famiglia, l’incertezza delle informazioni fornite dai suoi genitori, l’opacità del passato dei propri nonni che la rende irrequieta. Senza Heimat. Questo libro è la testimonianza di una ricerca di requie, prima che di risposte.
Bisogna sminare con delicatezza il passato. Le radici di un albero sono stabili e sicure, ancorano il tronco al terreno, dandogli al contempo nutrimento per crescere e prosperare. Le radici sono anche ineffabili, scompaiono alla vista dentro la terra. Si nascondono. Si tratta infatti di una ricerca in un contesto complesso, articolato, fatti di camuffamenti, in cui ognuno cerca di nascondere sé stesso, di coprire l’altro.
Nora Krug scopre le sue risorse insperate. Lascia la sua casa a New York e torna in Germania, nel paese nativo di suo padre – Külsheim – e di sua madre – Karlsrhue. Riavvicina parenti, telefona a sopravvissuti, scrive a sconosciuti, fruga dentro archivi, compulsa elenchi telefonici dal 1940 al 1945, beve birre con storici amatoriali che però sanno e rivelano più cose dei libri di storia.
Siccome la memoria è irrequieta, viene meno, è soggetta ad alterazioni, si falsifica, Krug ha l’intuizione di vedere nelle foto, negli artefatti, nelle cose, la chiave dei segreti più inconfessabili, non solo della propria famiglia, ma di tutta la Germania.
Il lato più oscuro e subdolo del nazionalsocialismo trasforma la Nazione in qualcosa di diverso da un luogo confortevole, e trasforma anche i suoi abitanti in qualcosa di diverso. Se un soldato nella seconda guerra mondiale moriva, moriva per la propria Heimat. E così era scritto sulla lettera scritta a macchina e firmata a mano dal capitano di plotone che dichiarava che Franz-Karl, lo zio di Nora Krug, il fratello di suo padre, era l’ennesimo giovane tedesco che cadeva tragicamente sul fronte per difendere la Germania dalla furia funesta degli Alleati. E così è successo quando è morto in battaglia sul fronte russo il fratello del padre di sua madre, Edwin, che rispondeva a quelli che lo salutavano con un fervente Heil Hitler con un altrettanto fervente Drei Liter, ovvero “Tre litri”. Entrambe le famiglie di Krug hanno insomma versato il loro tributo di sangue per il terzo Reich, così come gran parte delle famiglie della Germania, dell’Europa, del Mondo. La Seconda Guerra Mondiale ha trasformato in Patria offensiva e balorda ogni singola città, ogni singola casa, ogni singolo letto del globo, e distorto il concetto di Nazione.
L’indagine che seguiamo assieme alla sua autrice è sottile. Krug passa a setaccio le due città della madre e del padre, ma facendolo il suo occhio si sofferma su dettagli trascendenti, che poco avrebbero interessato l’investigatore tipo. Immagina come i suoi nonni debbano aver vissuto i vari episodi che preannunciavano l’avvento del nazionalsocialismo. Come reagì suo nonno Willi quando andando a lavoro vide che la sinagoga di Karlsrhue aveva preso fuoco? Erano felici i genitori di suo zio Franz-Karl quando sfogliavano i quaderni di scuola del bambino disseminati di croci uncinate e drappi rossi inneggianti ad Adofl Hitler? Fa collegamenti e raccoglie indizi in maniera del tutto personale. Siccome la memoria è irrequieta, viene meno, è soggetta ad alterazioni, si falsifica, ha l’intuizione di vedere nelle foto, negli artefatti, nelle cose, la chiave dei segreti più inconfessabili, non solo della propria famiglia, ma di tutta la Germania.
La narrazione del libro è divisa in quindici capitoli e spezzata da otto interventi a margine dedicati a otto oggetti diversi. Per quanto fragili, questi oggetti hanno resistito alle epoche, alle guerre, alle famiglie e alle persone. Oggetti nati, ideati in Germania, oggetti che sanno di Germania, oggetti che compongono l’ideale culla di Krug, sono anzi il simbolo della sua Heimat confortevole e sicura. Questo percorso negli oggetti oblitera tappe precise nella presa di coscienza di Krug: non è infatti un caso che parta con il cerotto Hansaplast, roseo quadrato adesivo, e termini con la colla UHU, leggendario tubetto giallo. Quanti di noi avrebbero il coraggio di strappare il cerotto malamente arrangiato al fine di osservare lo stato della cicatrice? E quanti di noi avrebbero la sensibilità di apprezzare le imperfezioni lasciate dalla colla, che salda ma non sana le incrinature?
La parabola di Krug è la parabola di un’intera popolazione che cerca la propria identità frugando dentro archivi pubblici sempre aperti, tra dossier sempre a disposizione, sale per la consultazione ordinate, nessuna reticenza, nessuna omertà.
Difficile non pensare a Heimat di Edgar Reitz, un’altra indagine sul popolo tedesco, che per spiegare le tragedie della seconda guerra mondiale e delle lacerazioni seguenti parte da lontano, dal 1919. Un po’ come Krug che scavando nel pozzo asciutto della sua memoria, tocca le ossa dei suoi avi, di zii e zie, parenti e amici di nonni e nonne mai viste o conosciute. Ma mentre il film a puntate di Reitz ha un sguardo teutonico, scientifico, l’opera di Krug è una ricerca che parte autolesionisticamente da un’ossessione, e prende quindi il piglio dell’opera d’arte, i colori sgargianti della vivisezione, dove dietro un fumetto si camuffa lo spaesamento, l’inquietudine si stempera nella griglia a vignette, il senso di colpa acquista la forza di un semplice tratto di matita o di una tinta pastello. Al fianco di queste manifestazioni tipicamente “fumettose” vediamo foto, collage, lettere, ciclostilati, dossier, temi di scuola e disegni di infanti morti in guerra, libri e manuali, giocattoli, tutto un bagaglio che ha in comune l’atroce realismo di questa storia, anzi della Storia.
Ai tedeschi sopravvissuti alla Seconda Guerra Mondiale venne sottoposto un questionario per scandagliarne l’attività dal 1933 alla fine del conflitto. Nessun poteva scampare a queste domande, nessuno poteva mentire. A seconda delle risposte il soggetto poteva corrispondere a cinque profili: 1) Criminale maggiore, 2) Criminale, 3) Criminale minore, 4) Gregario 5) Mitlaufer – che sarebbe a dire codardo, pavido, o ancora una “pecora”. Per ogni tedesco, ogni singolo tedesco, ci fu una specie di processo bollato e controbollato dalla burocrazia americana e colui che voleva scamparsela, che voleva tornare alla vita da civile, doveva autodefinirsi, compitandolo con le sue stesse mani, CODARDO, PAVIDO e PECORA. Solo dopo questa forca caudina poteva tornare alla “normalità” e ricominciare da capo. Solo come PECORA. Chi è padrone della lingua, è padrone delle persone, teorizzava la propaganda hitleriana.
La parabola di Krug è la parabola di un’intera popolazione che cerca la propria identità frugando dentro archivi pubblici sempre aperti, tra dossier sempre a disposizione, sale per la consultazione ordinate, nessuna reticenza, nessuna omertà. È straziante immaginare il medesimo libro inquadrato qui in Italia, dove il regime fascista ha lasciato altrettante crude eredità di quello nazista e ben più annodati grumi, che pochissimi si prendono la briga di cercare, anche solamente cercare, di sciogliere. Mi è difficile immaginare una Nora Boccale (a proposito di oggetti, il Krug è il tipico boccale di metallo bavarese, quello con il coperchio) che qui in Italia indaga senza difficoltà sulle connivenza del nonno di Schiavi d’Abruzzo con il podestà locale o l’attività dello zio Balilla sul fronte dell’Etiopia o della Grecia. Auspico che lo stesso coraggio di Krug tocchi prima o poi la nostra nazione, tocchi prima o poi ognuno di noi, affinché, fare una buona volta i conti con il passato bellico e prebellico dell’Italia, non sia un mero augurio che ci facciamo miseramente da anni, ma corrisponda ad una maturazione politica di questa nazione e una maturazione civile del suo popolo.
Il New York Times ha definito Heimat “un modo geniale di fare i conti con il proprio passato”. Non sono molto d’accordo con questo pur così autorevole blurb. Il termine “geniale” appare fuori posto e arriva a sminuire l’operazione di Krug. Non c’è niente di geniale o trionfale nel sentire il dovere di rimestare il proprio albero genealogico in cerca di assopite, scomode verità; semmai è più lecito scorgerci un’astratta, disperata ricerca di una dimensione umana. Talmente umana che questa ricerca diventa un diario, il mezzo più indifeso che lo scrittore ha di porsi allo sguardo affamato del lettore. Nora riporta parola per parola, documento per documento, l’amara sciagura della sua persona, perduta e sola, in mezzo al guado bloccata, vittima di un senso di colpa sì, penetrante come una coltellata, ma indecifrabile. Non pochi infatti sono i passaggi in cui la scrittura diventa avvolgente e dolorosa a rimarcare le sensazioni della scrittrice che senza risparmiarsi nulla, scava in un terreno su cui tanti avrebbero desistito.
“Non sai mai dove sei. Non sei mai dove sai.”, così la lezione di Giorgio Caproni fotografa l’anima, il midollo direi, di questo Heimat, straordinaria opera ibrida tra effemeride e fumetto. Io ho messo questo libro nella mia libreria a fianco di Maus di Art Spiegelman senza paura di superficialità, anzi ho avuto la sensazione di aver riunito le parti per un nuovo, più profondo armistizio, pacificato dal dolore comune, come raramente mi è sembrato possibile in questi anni, con la letteratura tradizionale.