L a lista di vocaboli è un fondamento dell’educazione linguistica nella scuola pubblica italiana, dove Livia Franchini ha studiato inglese prima di trasferirsi a Londra. Memorizzare parole accomunate da un tema – la casa, la strada, i mestieri, il cibo – è una strategia pedagogica ormai antiquata, che perde di utilità man mano che la resistenza della lingua straniera di ammorbidisce, e sparisce quando la lingua da oggetto diventa veicolo. La lista come aiuto mnemonico, però, resta certezza, conferisce ordine: l’esordio narrativo Gusci (uscito in Regno Unito nel 2019 con il titolo Shelf Life, edito in Italia da Mondadori nella traduzione-riscrittura di Veronica Raimo) ricostruisce la storia di Ruth e Neil a partire dalla lista della spesa che avrebbero dovuto fare il 4 gennaio 2016, se non si fossero lasciati. Una spesa consistente, resa pensabile dalla grande distribuzione che permette di trovare in Gran Bretagna pomodori e fragole d’inverno, fiori recisi e candeggina nello stesso punto vendita, olive e gamberetti importati dai paesi caldi, pizza e spaghetti assimilati da cucina etnica a fondamenti di ogni dispensa. Inglesissimi e opachi, Neil e Ruth stanno insieme da dieci anni, convivono e lavorano a Londra, lei come infermiera in una casa di riposo, lui in un non meglio specificato ruolo amministrativo d’ufficio. Neil la lascia dopo cena, mentre lavano i piatti, ritrattando la proposta di matrimonio e annunciando la sua immediata partenza per una “comunità di mindfulness in Cornovaglia”. Per Ruth iniziano settimane di lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione, ogni fase arriva in ordine, puntellata dai ricordi che ciascuna voce sulla lista della spesa evoca.
È così che Franchini ricostruisce la relazione tra Ruth e Neil, saltando tra prospettive e momenti di dieci, quattro, un anno fa e sfidando chi legge a individuare in ogni capitolo ruolo e posizione del prodotto che lo intitola. A volte la presenza è nitida: in “Vino bianco” Ruth si ubriaca da sola a casa, in “Tè” beve una tazza di tè amaro al lavoro. In “Pollo arrosto”, il primo racconto ad alta voce della rottura con Neil avviene durante il rituale domenicale con la madre, spellatura e dissezione del pollo con coltello e tovaglioli senza sporcare piatti. “Zuppa” è l’alimento che “fa bene”, si mangia senza masticare e fissando la scodella, “Fiori” sono un bouquet da sposa. Più spesso, però, l’oggetto è immateriale, metaforico, linguistico: “Sei uova” sono i primi sei giorni bui dopo la rottura, “Mele” illustra l’idea che Ruth ha delle relazioni, “Non servono due metà perfette per comporre un’unità. Ci sono tanti modi di tagliare una mela”. In “Miele” c’è l’SMS inviato da Neil a Ruth il 02/07/06 alle 00:48 per dirle “mi piacevi da prima da subito appena ti ho visto”, e quello delle 01:04 per dirle “scusa non volevo essere mieloso”. “Dopobarba” raccoglie le email untuose che Neil, col moniker cumulonimbus, invia a gattinacolbazooka, cameriera di Fasta Pasta conosciuta in “Spaghetti”. “Tampax” è una chat room MySpace del 2002 in cui le compagne di scuola ƒяαηкι ƒαямєя ωιll нανє нєя яєνєηgє ση ѕαιηт Jαмєѕ e `·. ̧ ̧.· ́ ́ ̄`··._.·ßΛßY Ṗ♡ĪS♡И`·. ̧ ̧.· ́ ́ ̄`··._.· sparlano di Ruth, esclusa senza giustificazione apparente dalla lezione di educazione fisica.
La creatività della riscrittura in italiano di Raimo è più evidente in capitoli come questi, in cui il gergo smozzicato originale diventa – con una sfilza di “amo”, “bimbe?????? cazzofateeeeeeeeee”, “troie!”, “presa male”, “topina”, “bellina”, “tvtrb xseo”, “na tragedia”, “scusa tvb” – un fulmineo equivalente in italiano d’inflessione romanesca. E quando la traduzione scopre il limite tra le lingue, Raimo si assume la responsabilità dell’intervento autoriale, anche cambiando quello che Franchini ha messo in lista. Il Neil che in “Menta” di Raimo scrive:
… perché «APPUNTAMENTO» è una parola così fresca, piacevole e sorprendente, e mi ha
sempre fatto pensare al nome di un cocktail alla menta, quell’improvviso scoppio di sapore, come si dischiudesse un mondo che nemmeno immaginavi e… ok, basta voli pindarici. Fissiamo un appuntamento, Lili?
nel capitolo “Dates” di Franchini gioca sulla polisemia della stessa parola inglese per dattero e appuntamento:
…because a DATE, the soft potential of it, sickly sweet and self-contained in the word like in its fruit
counterpart, compact and dry on the outside, but rich and melt-in-your-mouth once you bite into it… I’ll stop rambling on. Shall we go on a date, Lili?
Il rimbalzo tra italiano e inglese, Italia e Regno Unito, non è solo un tecnicismo circostanziale, o un dettaglio biografico per Franchini – autrice toscana di stanza a Londra da più di un decennio, che ha già all’attivo racconti, interventi accademici, EP con la sua band, Molar, e poesie nella sua seconda lingua – ma motivo tematico e pratica poetica attiva. Nella poesia Safe la traduzione letterale è generatrice di significato inedito nella lingua inglese: “L’ospite è come il pesce The guest is like the fish / Dopo tre giorni puzza After three day it stink”. Nella poesia Bark! (raccolta nell’antologia di poesie-incantesimo Spells: 21st-Century Occult Poetry) Franchini racconta la sua educazione magica italiana, iniziata con una formula imparata chiamando un numero di telemarketing. Il testo si apre traducendo una citazione dall’intervista per il programma della Rai Storie maledette di Franca Leosini a Wanna Marchi – la cui voce dalla TV è “lo stesso smalto scuro delle foglie di ficus” [traduzione mia]. Se la lettrice anglofona avrà così imparato il nome di un’oscura strega italica, impratichendosi con istanze di purissimo trash nostrano, quella italiana riderà riconoscendosi nella memoria di Franchini.
Quando Franchini sfrutta lo scarto culturale e la sua stessa identità transnazionale immaginando aspettative e reazioni di turiste inglesi in Italia, è al meglio della sua originalità e rilevanza. Non spreca l’ironia della Storia che nel tempo ribalta i poli geopolitici, e fa scegliere a Neil la firma “Claudius” per le sue email d’amore, il nome dell’imperatore romano Claudio che dal 43 d.C. intraprese la campagna di conquista della Britannia. E in quanto expat prima ancora che autrice, Franchini sembra cosciente del retaggio che decenni (secoli?) di commodificazione di cultura e geografia italiana impongono sia alla diaspora che ai turisti in Italia. In Gusci, Ruth e Neil si conoscono a Roma, per lei destinazione di vacanza, per lui ambiente di lavoro in uno studentato adattato a ostello per l’estate. “Mangerò tutto il gelato del mondo e mi fidanzerò con un GLADIATORE!” scrive prima di partire sul suo diario Alanna, compagna di viaggio di Ruth. E Roma è esattamente il “cumulo di vecchie pietre” promesso dalla Lonely Planet, dove fa caldo e si mangia: “tutto quello che si dice sull’Italia è vero. Ho mangiato un piatto enorme di pasta per tipo quattro sterline, e il tizio mi ha chiamato ‘bionda’ e mi ha offerto un limoncello”, appunta Alanna. L’immaginario turistico che bonifica e imbalsama un paese è una spinta economica che non si limita a rimodellare intere città per garantire pochi giorni di svago in sicurezza ai visitatori, ma ricodifica anche il pensiero di chi viaggia, si sposta, importa, si fa suggestionare.
Gusci ridicolizza il soggetto che si crede nomade, ma è in realtà un io in vacanza, intento alla scoperta del sé attraverso la curata selezione di pratiche spirituali, dietetiche, filosofiche, aerobiche, narcotiche importate da un generico (ed esotico) altrove. La serenità di cui Neil urla a Ruth di aver bisogno è l’ossessione che per dieci anni ha cercato di soddisfare a forza di yoga, clean eating, saune casalinghe, calzini di cachemire e tentativi di convertire Ruth al sesso tantrico, o almeno al poliamore. La spiritualità da supermercato di Neil è una leva di potere nella coppia con Ruth, la quale si piega ad ogni suo nuovo capriccio, si adatta a ogni moda culinaria o ricreativa nella speranza di tenere Neil con sé. La nuova sessualità “liberata” cui Neil aspira con il suo gergo tecnico-ornato, però, senza parità di devozione e impegno tra le parti non è altro che uno strumento per accumulare più potere senza cedere alcun controllo. Da bravo contabile, Neil resta fedele all’idea di relazione come business:
Sul lavoro eri sempre orgoglioso dei tuoi rendiconti finanziari di fine anno. Ma chi l’avrebbe detto che
facevi i conti pure sulla nostra vita privata? Non eri soddisfatto di come era andato l’investimento, per così dire, quindi mi stavi scaricando.
È quasi impossibile empatizzare con il vanitoso, mellifluo, fedifrago Neil, e molto difficile trattenersi dal minimizzare il dolore di Ruth – uno così meglio perderlo che trovarlo, di sicuro non la merita, un paio di mesi e sarà tutto passato, se ne sarà già dimenticata – ma la sua affermazione “Non sono mai stata una persona da sola” è un allarme sinistro. La guarigione di Ruth non è scontata, e la sfida che Franchini propone è seguirla con pazienza attraverso l’elaborazione del suo lutto, nonostante la sua perdita possa sembrare di scarso rilievo. Eppure un intero romanzo basta appena a Ruth come spazio di manovra per ripensare la sua vita, che nonostante tutto resta ordinaria, senza evidenti sbilanciamenti di classe (da un polo all’altro), libera dall’ambizione di distinguersi in un qualche modo “di successo”. Insieme alla domanda sul che farsene del dolore causato da uomini stupidi, Gusci indica un altro problema narrativo: che cosa c’è di interessante nella vita semplice che cerca sollievo per sé, senza fondare il proprio valore su produttività o utilità? Cosa salvare, per renderlo materia da romanzo, della vita ridotta al minimo, che esiste e basta? Gusci lavora per piani semplici: una lista della spesa, una vacanza prenotata, un piano di studi che porta dritto a un’occupazione sicura, l’aspettativa che non serva molto di più per costruire una vita. Le persone normali di Franchini non hanno lati nascosti che l’incontro giusto può riconoscere o la situazione propizia far fiorire. Sono a loro agio nella loro normalità, così comuni che è più facile dimenticarseli dopo averli incrociati piuttosto che riconoscervi un po’ della propria insipidezza.