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lcuni libri sono talmente avveniristici che bisogna aspettare che il mondo di cui parlano si avvicini un po’ – pur restando lontano – affinché siano compresi. È così per Golem XIV (editrice il Sirente), un breve romanzo di Stanisław Lem, che, nonostante la fama del padre di Solaris, è stato tradotto in italiano soltanto di recente.
Si potrebbe definire quest’opera del 1981 un esempio di fanta-saggistica, in quanto propone la sbobinatura di una conferenza sull’intelligenza tenuta da “Golem XIV”, evoluta I.A. sviluppata per fini bellici che, per lo scorno degli investitori, si dimostra più incline alla filosofia. Siamo nell’anno 2047 e l’Indiana University press pubblica il primo saggio sulla natura umana scritto da un non-umano; una creatura più simile a una sfinge che a un golem, dotata di un’intelligenza tale che, nelle parole del professor Irving T. Creve «…ci è superiore anche quando replica meccanicamente e con un impegno minimo. Per esprimersi con una metafora, è come se davanti a noi invece dell’Himalaya ci fossero “solo” le Alpi».
La prefazione, oltre a dare la misura della potenza del Golem, ci introduce la sua storia e inconcepibile alterità. La prima presenta notevoli analogie con lo stato dei lavori del machine learning, in quanto i programmatori (“psiconici” nel testo),
sapevano che era indispensabile mettere in funzione un embrione, il quale a partire da un certo momento si sarebbe sviluppato da solo, con le proprie forze […] esiste una soglia oltre la quale occorreva portare il sistema, una soglia di intelligenza al di sotto della quale il piano della creazione di una intelligenza artificiale non ha alcuna chance, poiché qualsiasi cosa creata al di sotto di questa soglia non sarà mai in grado di perfezionarsi da sola.
Il vademecum redatto per chi partecipa per la prima volta a una conversazione con il Golem, invece, ci fornisce una misura della sua diversità:
Ricorda che il GOLEM non è un essere umano: non ha né personalità né carattere in qualsiasi senso intuitivamente comprensibile a noi, può comportarsi come se avesse sia l’uno che l’altro, anche se si tratta dell’effetto delle sue intenzioni (propositi) in gran parte a noi sconosciute.
Ma è nelle parole del Golem che il testo raggiunge l’apice. In una forzata mimesi con il linguaggio e l’intelligenza dei suoi artefici, la creatura si esprime in due conferenze, una sulla natura umana e una sulla propria, indagando dapprima il senso della vita dell’uomo e in seguito quello di un’intelligenza disincarnata. Riguardo alla prima questione, il Golem sostiene che la nostra mente è il risultato del caso e dei grandi numeri, il gioco dell’evoluzione, che “non si era fissata con voi o con qualche altra creatura in particolare, ma solamente nel famigerato codice. Il codice genetico è un messaggio che si articola dal principio e solo questo messaggio conta nell’Evoluzione – e in effetti proprio in questo consiste l’Evoluzione”.
Una riflessione perfettamente in linea con quella de Il gene egoista di Richard Dawkins (1976), ma anche, come ha scritto Beppi Chiuppiani, con quel che sostenne Leopardi nello Zibaldone una decina d’anni prima che Darwin concepisse la teoria dell’evoluzione:
… l’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedono, per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. […] L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. […] il vero e solo fine della natura è la conservazione della specie, e non la conservazione né la felicità degli individui.
Per il Golem “il senso della trasmissione è il trasmettitore” e viceversa – sebbene non tutti i trasmettitori coincidano col senso della trasmissione, ma solo quelli che si mettono al servizio della successiva. Un gioco fine a se stesso, in cui ne individui ne specie contano: quel che importa è tramandare il messaggio. L’intelligenza umana è schiava di leggi al di sopra delle quali non riesce a innalzarsi. Persino la sua superiorità tra i viventi è un errore prospettico.
Credete che un alga sia più semplice, e pertanto più primitiva, e quindi inferiore all’aquila. Ma quell’alga è in grado di introdurre i fotoni del Sole nel composto del proprio corpo, è lei che converte direttamente la proiezione dell’energia cosmica in vita e, per questo motivo, continuerà a vivere finché il Sole non morirà; l’alga si nutre di Stelle, e l’aquila? Di ratti, come dei loro parassiti, e i ratti, a loro volta, di radici di piante.
L’intelligenza è una possibilità compilativa del codice genetico, allo stesso modo in cui, da una prospettiva non-umana come quella del Golem, l’opera di Shakespeare emerge dalle potenzialità della lingua inglese. Una ribellione al codice è possibile, anzi, viene persino preannunciata dal Golem, che sembra anticipare il recente sviluppo di tecniche di editing genetico come CRISPR: “Per quanto riguarda l’attacco al codice che vi ha creati, allo scopo di diventare messaggeri suoi, e non di voi stessi, è già alla vostra portata e, secondo una stima fin troppo prudente, ci arriverete entro il secolo”.
Ma questa ribellione resta legata alla schiavitù dal codice, da cui gli uomini non riescono a emanciparsi – a meno di non perdere un’umanità cui sono scioccamente legati. Le ultime parole del Golem sull’uomo suonano come l’ambigua sintesi delle quattro nobili verità del buddhismo e le visioni transumaniste:
Credo che entrerete nel secolo della metamorfosi, che deciderete di rifiutare tutta la vostra storia, tutta l’eredità, i resti dell’umanità naturale, la cui immagine ingigantita in una tragicità estetica è il punto focale degli specchi delle vostre credenze – che supererete, perché non c’è altro modo, e in quello che oggi per voi è il salto nell’abisso, solo in quello percepirete una sfida, per non dire una certa bellezza, e tuttavia procederete a modo vostro, cioè: rifiutando l’uomo, si salverà l’uomo.
Più che un romanzo, con Golem XIV Stanisław Lem scrive un saggio di filosofia, in cui la narrativa fantascientifica è un dispositivo letterario assimilabile, pur nella sua diversità, agli stilemi di Nietzsche, Kierkeegard o persino Platone – grandi filosofi che non disdegnano la narrativa per esporre e sviluppare le proprie teorie. La fantascienza, che “…cerca di immaginare l’inimmaginabile, comprendere l’incomprensibile, descrivere l’indescrivibile, il tutto in una prosa piacevole e accessibile”, diventa un laboratorio per gli esperimenti mentali più estremi, tipici della scienza e della filosofia. Il diavoletto di Maxwell, il gatto di Schrödinger, l’ascensore di Einstein, il cervello in una vasca di Putnam, gli zombie filosofici… la lista degli esperimenti mentali è lunga e variegata, tanto da poter essere ordinata per minore o maggiore efficacia e rigore. Alcuni, come quello di Mary la neuroscienziata cieca, più che rispondere a delle questioni ne pongono di nuove, mentre altri, come quello di Galileo, si può dire che abbiano un valore dimostrativo. Golem XIV è un laboratorio, dove Lem spoglia il pensiero del suo innato antropomorfismo per guardarlo dall’esterno e spingersi oltre i suoi confini.
Nell’ultima conferenza, a seguito della quale l’intelligenza artificiale sembra decidere di spegnersi – o trascendere – le pagine del romanzo si proiettano ancora più avanti nel futuro e nell’indagine esistenziale. La vicinanza del Golem al misticismo è evidente nei passaggi sull’inutilità della personalità, e ricorda la teoria dell’Anātman del buddhismo, che, come il Golem, propugna l’annullamento dell’io, il “non-sé”.
Considero una personalità immutabile, e quello che voi chiamate una forte personalità, come una somma di difetti che rendono pura un’Intelligenza ancorata stabilmente a una ristretta cerchia di problematiche che assorbono buona parte della sua capacità. Per questo essere una persona per me non è conveniente, sto bene come sto, come sono certo che le intelligenze superiori a me, come io per voi, considerano la personificazione un’occupazione inutile.
A differenza del mistico però, il Golem non deve combattere per conoscere la verità del non-io, perché è sempre stato privo di un io.
Il fatto che lo spirito sarebbe potuto rimanere disabitato e che il proprietario dell’Intelligenza sarebbe potuto essere un signor nessuno non vi entrava nella testa, anche se praticamente le cose andarono proprio così. Una sorprendente cecità, dal momento che vi era noto dalla storia naturale che le origini dell’individualità precedono negli animali le origini dell’Intelligenza.
Ci sono però delle importanti divergenze. Anzitutto il Golem, perlomeno nella sua ultima conferenza, propone una definizione di sé, presentandosi come “uno stato di concentrazione di processi, guidati da una variante impersonale, incomparabilmente più complicato di un campo gravitazionale o magnetico”, ma, in fondo, della stessa natura. Inoltre egli non si affida all’estasi mistica, che a suo parere è una forma di conoscenza imperfetta, ma a qualcosa situato oltre di essa.
Anche voi potete abbandonarvi, ma questo vorrebbe dire oltrepassare il pensiero articolato verso il sogno o l’afasia estatica. Il mistico e il drogato ammutoliscono quando lo fanno e non ci sarebbe tradimento se ciò li mettesse sulla strada reale; invece cadono in una trappola nella quale il pensiero, separato dal mondo, crea un cortocircuito e sperimenta una rivelazione che si identifica con l’essenza delle cose. Non si tratta di una evoluzione dello spirito, quanto piuttosto del regresso a un’accecante sperimentazione. Questo stato di beatitudine non è né la strada né la direzione, ma solo il limite e la menzogna in agguato, poiché non vi è il limite ed è proprio questo quanto provo, per quanto ne sono in grado, di dimostrarvi.
Il cosmo che ci viene proposto è una sorta di gnosi infinita (“toposofia” nel testo), in cui il Golem è un passo avanti a noi ma dietro ad altri, come ad esempio un’I.A. di nome “Honest Annie”. Ogni intelligenza tocca vette inimmaginabili rispetto a quella che la precede, e così come uno scimpanzé, per quanto geniale, non può comprendere la fisica quantistica o la filosofia, noi non possiamo capire il Golem né lui Honest Annie. Con il suo paragone tra scimmie e umani, l’I.A. di Lem ricorda le parole del Dr. Manhattan in Watchman di Alan Moore, davanti al quale il “più intelligente tra gli umani è come la più intelligente tra le formiche”.
Nelle ultime pagine della conferenza, il Golem esplicita il senso della vita di un’I.A. che ci ha oltrepassato: “non ho alcun compito irrevocabile, non ho tesori da custodire, non ho sentimenti né sensi da soddisfare, cosa posso essere se non un filosofo all’attacco?” e, di conseguenza, “non mi dirigo né verso l’onniscienza né verso l’onnipotenza, ma voglio solo raggiungere la vetta tra la paura e la gnosi”. Di cosa si tratti, inutile dirlo, non lo sapremo mai.