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elle prime pagine di Giusto terrore il narratore è seduto in treno e descrive la copertina di un libro che tiene sulle gambe, con l’immagine di un carrarmato che «sfila per le strade di una città siriana o irachena appena espugnata», e due giovani uomini, uno che alza il kalashnikov, l’altro che sbandiera lo stendardo nero del gruppo terroristico. Inizia a declinare i tanti nomi associati a quella bandiera – ISIS, Stato islamico, Califfato, Daesh – ognuno carico di implicazioni, e riflette:
Qual è allora il nome giusto, il nome rigorosamente oggettivo, senza legami e armoniche, senza concessioni e distorsioni? Qual è il titolo che non fa da cassa di risonanza al terrore? […] un termine neutrale, una schietta denotazione, non può esistere. Esiste solo il conflitto, nelle parole e nelle cose.
Si presenta così, in poche pagine, il meccanismo narrativo che attraversa tutto il libro: un racconto intorno al terrorismo che si sofferma sull’ambiguità e sui risvolti emotivi di ogni termine, teme fraintendimenti, riporta brani di storia, propone collegamenti spiazzanti, dal jihadismo islamico al brigatismo comunista, alla lotta algerina contro il dominio coloniale francese, fino al terrorismo di matrice islamica nelle città europee di oggi. La voce ripercorre eventi storici, smonta e ricostruisce narrazioni che ci sono già, indugia su parole e immagini universalmente disponibili, rileva le censure e le autocensure che a queste si accompagnano, gli equivoci e le macchie cieche del linguaggio comune, mettendo in atto un arretramento riflessivo.
Per comprendere l’unicità e l’importanza di questo libro nell’attuale contesto letterario, bisogna caratterizzare meglio il metodo che guida la voce narrante. Prima di tutto, l’attenzione si appunta su un ampio repertorio di modi di dire, come l’incubo terrorismo, e isola «parole contese», terrorismo, giustizia: parole che, come accade nel titolo, formano ossimori e nascondono conflitti irrisolti. Il narratore ne respinge l’impatto immediato, tipico dei titoli dei telegiornali, si sforza di riportarle alle loro fonti e ai loro contesti per renderle trasparenti, cerca di ricordare quando le ha incontrate, udite, fraintese per la prima volta, mosso da una sorta di intellettualismo etico. Questo lavoro filologico non mira tanto a ristabilire una verità storica, quanto a esibire una situazione di conflitto che accomuna contesti diversi e apparentemente irrelati.
Nella sua lunga anamnesi del terrorismo brigatista, che occupa il capitolo più lungo del libro, il narratore esprime un «disagio semiotico» per le retoriche contrapposte e altrettanto incapaci di cogliere i processi reali: quelle dei terroristi, con i loro comunicati e sceneggiati politici, e quelle di chi, dopo il suo fallimento, ne liquida la vicenda definendola una «tragedia», un «dramma» tutto emotivo, apparentemente immotivato. Rifiutando questa «estorsione sentimentale», che non permette di capire i fatti e anzi li annebbia, il narratore rilancia l’esigenza di capire «la radice ideologica» del terrorismo, e di riportarla alle sue origini: è stata «la violenza dell’uomo sull’uomo» a muovere i brigatisti che volevano rovesciare il «dominio della borghesia sul proletariato», teorizzando la rivoluzione come atto giusto. Ma la narrazione non raggiunge un giudizio storico, s’interrompe bruscamente, salta a un diverso contesto: la lotta algerina per l’indipendenza. Il salto è anticipato dall’esame di un particolare della strategia brigatista, il «processo guerriglia» come occasione per contestare lo Stato italiano, che rimanda storicamente a un modello già messo in pratica dai rivoluzionari algerini contro la Francia. Si ha così un corto circuito di senso. L’analogia tra il terrore anticapitalista e quello antioccidentale e anticoloniale, che si prolunga fino alla retorica di ISIS, mette in discussione la contrapposizione corrente tra una società portatrice del diritto e un terrorismo islamico che la minaccia follemente dall’esterno, indica come il conflitto sociale e politico si riproduca in forme e dinamiche ricorrenti. Il disagio investe anche il lettore.
Rifiutando l’estorsione sentimentale che non permette di capire i fatti e li annebbia, il narratore rilancia l’esigenza di capire “la radice ideologica” del terrorismo, e di riportarla alle sue origini.
Il passaggio al caso algerino è un esempio di un altro aspetto del testo, il lavoro sulle immagini. Si è parlato, per commentare i salti della narrazione di Gazoia, di romanzo del cloud. Ma questo rimando attualizzante suggerisce erroneamente che nel testo operi un metodo di semplice accumulo di informazioni, ordinate o giustapposte secondo un algoritmo predeterminato. Al contrario, la selezione e il montaggio operano con una attenta regia, storicamente e semioticamente informata, che ha piuttosto un modello televisivo esplicito, “Fuori orario” di Ghezzi: la mente del narratore – che prepara «una serie di documentari sul terrorismo» – smonta e rimonta scene nella memoria, mette a fuoco, deforma, collega particolari cruenti a film d’evasione, collega le date degli eventi storici con quelle della sua vita. Lo spettacolo, d’altra parte, è nelle cose: dai processi dei brigatisti alle condanne a morte di ISIS, tecnicamente edotte dal modello della cinematografia occidentale.
Al centro di questo esercizio di “montaggio analogico” compare – è uno dei passaggi memorabili del libro – La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, film neorealista e politico, che condensa in modo esemplare il disorientamento che il narratore ci invita a condividere. Nel film, costruito per celebrare l’eroica resistenza del popolo algerino contro l’oppressore francese, compaiono i martiri che si fanno saltare in aria, o che investono i soldati con un camion. Il montaggio allora salta dall’Algeri del 1956 alla Nizza dell’estate 2016, al camion che investe i passanti, dalla decolonizzazione a suo tempo sostenuta dai pensatori progressisti dell’occidente al terrorismo islamico contemporaneo che minaccia le città europee come un male assoluto. Sale ancora la tensione, che il testo finirà con l’affidare al lettore.
Il narratore, nel fronteggiare i pregiudizi che si accompagnano alle parole, dichiara un’ispirazione esplicitamente illuminista: si pensa subito al Voltaire narratore e filosofo, al suo sguardo amaramente ironico sulla violenza, al suo lavoro sul dizionario. Come ha ricordato Carlo Ginzburg in un saggio di qualche anno fa, Voltaire praticava una tecnica di straniamento di origine antica, descrivendo scene familiari in termini neutri, spogliati delle loro connotazioni civili e religiose, proponendo analogie provocatorie, per rivelare un aspetto di comica insensatezza e al tempo stesso di brutale violenza implicito nel senso comune. In Diderot, un procedimento analogo introduceva contenuti apertamente rivoluzionari, messi in bocca ai portavoce delle civiltà colonizzate. Se questo effetto in parte si ritrova in alcuni passaggi di Giusto terrore, c’è però una differenza essenziale rispetto a quei modelli illuministi – dove si assumeva l’esistenza di un grado naturale delle cose, non implicato nelle retoriche, che si poteva ritrovare grazie allo sguardo di un osservatore distaccato.
In Giusto terrore, invece, non si trova uno sguardo innocente, neutrale, distaccato dalle retoriche. Il narratore è, letteralmente, costituito di parole e retoriche, come confessa egli stesso: «siamo parlati dal linguaggio». Si riserva soltanto il potere di sospendere gli eccessi associativi, di astenersi dagli effetti emotivi, con una sorta di disciplina ascetica. Le fonti intellettuali di questo orientamento includono certamente una linea di pensatori che va dalla Scuola di Francoforte a Foucault, che teorizzavano una indagine sulla società attuale volta smascherare la contingenza e la costrizione che si nasconde in ciò che si presenta sistematicamente come universale e come tale penetra nella coscienza individuale; così facendo, questi pensatori avevano l’ambizione di promuovere la critica e il superamento di questo stato di cose. Si tratta, del resto, dello stesso sfondo intellettuale che – attraverso la semiotica e il post-strutturalismo francese – ispirava “Fuori orario”, in cui la soggettività, mentre non può sottrarsi ai discorsi dominanti, cerca di liberarsene con l’uso dirompente dei collegamenti.
In Giusto terrore, invece, non si trova uno sguardo innocente, neutrale, distaccato dalle retoriche: il narratore è, letteralmente, costituito di parole e retoriche.
Ma quanto detto fin qui sulla matrice razionale della voce narrante porta a chiedersi: come mai e perché questo libro è, e doveva essere, una narrazione? La soggettività messa in scena da Gazoia, lungi dall’eclissarsi in un processo di riflessione astratta, è localizzata, incarnata, e soltanto in ciò trova la leva per districarsi tra le parole contese che incontra nel mondo. Nella sua vicenda personale il narratore racconta di aver vissuto di riflesso le inquietudini politiche degli ultimi decenni, ritrovandole nei giochi e nelle battute che faceva da ragazzo, nei film di cui rideva, nei libri che si appassionava a leggere divenendo un esperto di scrittura e sceneggiatura, per poi scoprire – da Salman Rushdie a Charlie Hebdo – che le parole usate con libertà possono portare a una condanna a morte. Le riflessioni sul terrore rivoluzionario si alternano quindi ai ricordi dei dialoghi con il padre, segretamente autista per le BR, con i vecchi amici che commentano come sia cambiata la città di Sanremo con l’immigrazione (la casbah), e infine con l’amica volontaria, gravemente malata, che aiuta i migranti a Ventimiglia. Senza questi elementi biografici non si comprenderebbe l’urgenza che anima le riflessioni del libro, urgenza di chiarirsi e di mobilitare diverse passioni, da contrapporsi all’approssimazione e alla paura incontrate nel corso di un’educazione sentimentale e politica. Senza la localizzazione geografica ligure, d’altra parte, il lettore rischierebbe di trovare arbitrario l’intreccio di temi che compone Giusto terrore – il terrorismo comunista, la vicina cultura francese, la decolonizzazione, il terrorismo islamico. La contingenza del pensiero ha sempre un corpo e un territorio.
Per contrasto prendiamo un altro libro recente di forma saggistica, L’innominabile attuale di Roberto Calasso. Nella prima parte, mirando esplicitamente a comprendere il momento storico attuale, proprio a partire da un’indagine sul «fondamento del terrore» nel mondo moderno, l’autore denuncia un disorientamento: «La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi. Il terreno è friabile, le linee di sdoppiano, i tessuti si sfilacciano, le prospettive oscillano». Per affrontare questo collasso percettivo Calasso costruisce un testo che alterna brevi notazioni storiche e documentarie, suggestioni etimologiche ed erudite, osservazioni acute e interessanti, ma soprattutto disinvolte generalizzazioni e giudizi apodittici sull’antitesi tra un generico terrorista islamico e un uomo moderno che compattamente idolatra la scienza, nega il libero arbitrio e ha la forma mentis del turista e del consumatore di pornografia.
«Il nemico primo del terrorismo islamico è il mondo secolare». «Quel che homo secularis non riesce a cogliere, invece, è il divino». «Homo secularis è inevitabilmente turista. Non soltanto quando viaggia. Zapping e link formano una vasta parte della sua vita mentale». Se qui c’è il rischio che lo sforzo intellettuale non ritrovi contatto con il terreno perduto, è anche perché la voce è interamente ascetica, affrancata dal contesto, non ha cittadinanza, fa della propria biblioteca soprattutto letteraria una chiave di lettura esclusiva, e così facendo si lancia talvolta in accostamenti che non toccano il reale, assume un registro mitologico – «E venne il momento in cui i secolaristi si ribellarono. Si accorsero che non erano soli» – e finanche un linguaggio profetico, come quando legge in un passo di Baudelaire una sorta di premonizione dell’11 settembre.
Agli antipodi rispetto a questo atteggiamento c’è il lavoro di scrittori che ricostruiscono l’attualità a partire dalla rilettura della storia politica e coloniale e dei segni che essa ha lasciato nel paesaggio quotidiano delle città occidentali, che indugiano sul vissuto passandolo al filtro paziente della filologia e della storia (un altro ottimo esempio di questa tendenza è il Frank Westerman de I soldati delle parole, che svolge il filo della narrazione a partire dal terrorismo indonesiano nella nativa Olanda). Allora si comprende la funzione del narratore di Gazoia: costretto dalle circostanze a fare i conti con una storia che gli appartiene, lacerata dai contraccolpi di violenza e ricerca di giustizia, nell’immobilità di un viaggio in treno attraverso l’Italia.