Marco Arrigoni si è laureato in lettere moderne all'Università di Milano e ha conseguito la specialistica in Storia dell'arte dopo aver studiato alla Sorbonne Nouvelle e all'École Normale Supérieure de Paris. Ha scritto per anni per ATPdiary e ne è stato assistente editoriale. Ha frequentato la Scuola del Libro di Roma ed è il vincitore del Premio di Laurea Fondazione Prada 2018, grazie al quale sta frequentando il Postgraduate Programme in Curating alla ZHdK di Zurigo.
Gio Ponti e Milano (Quodlibet, 2018) non è un libro, ma una guida. Al suo interno ci sono le architetture che a Milano ha progettato Gio Ponti, affiancate dalle icastiche presentazioni della figlia Lisa Ponti e dalle fotografie di Paolo Rosselli.
Gio Ponti è designer, architetto, scrittore, teorico, editorialista, docente. Per lui si parla di “eclettismo” (lo fa anche Stefano Boeri nella prefazione alla guida), sia per le declinazioni del suo sapere, sia per la trasversalità di operazioni in cui lo applica, sia per l’attitudine accogliente con cui pensa.
Di sé Ponti dice di essere pittore prima che architetto. La pittura è stato il sogno (irreale, incontaminato e costante) che lo ha salvato. L’ala bianca con cui scappare dal committente, dalle imposizioni politiche, dalle costrizioni date dal contesto. Dice che per precarietà di salute non ha potuto o saputo partecipare ai movimenti milanesi del Futurismo e del Novecento, ma ne ha respirato il fervore.
Quindi, l’architettura che si vede in questa guida viene dopo la pittura (a cui ritorna però in vecchiaia, vivendola come legante del ciclo della sua vita, come consolazione alla nuova forma di solitudine che porta l’anzianità), ma forse è proprio questo interesse pittorico per il segno, la luce, il colore, la percezione ad averlo reso Gio Ponti.
La sua coscienza architettonica nasce, precisa lui, da autodidatta. “La partecipazione alla scuola deve essere un incentivo per trovare dentro di sé le ragioni della propria arte”. Non gli bastano quindi i corsi e gli esami dati alla facoltà d’architettura di Milano nelle varie licenze dalla guerra. La guerra stessa è stata una scuola, indimenticabile; le ville palladiane in cui si andava a rifugiare con i compagni; le case borghesi di Milano, come realtà da allontanare verso forme pure, “moderne” dice lui. Scuola sono stati i trattati e gli esempi di Marco Vitruvio Pollione, Sebastiano Serlio, Andrea Palladio, Walter Gropius, Le Corbusier, Eero Saarinen, Frank Lloyd Wright, Kenzō Tange, Oscar Niemeyer, Edoardo Persico, Adriano Olivetti, Bruno Zevi; ma anche le suggestioni in musica da Arturo Toscanini, Igor’ Fëdorovič Stravinskij. È invece a un Fidelio di Beethoven che rimane colpito dal direttore d’orchestra che dice con tenacia: “Senza espressione, senza espressione!”.
Trova l’espressione perfetta per esprimere in due parole il suo stile, fatto di “unità”, “essenzialità”, leggerezza, trasparenza, chiarezza, colore e semplicità. Un esempio è la Montecatini di via Turati a Milano, in cui se di espressione si vuole parlare bisogna allora ricercarla nell’unità del modulo, nell’avanzamento della tecnica edilizia, nell’avanguardia degli impianti (climatizzatori, ascensori, telefoni). “Il palazzo deve far capire che è stato fatto per il lavoro, nelle condizioni migliori”.
Quella di Gio Ponti è “una bravura segreta e non esibita” (dice la figlia), o una questione di “buonsenso” e non di bravura (dice lui). Basta prendere in considerazione la sedia Superleggera: è la chiavarina (esempio classico di sedia italiana), fatta con materiali comuni (legno e impagliato), svuotata fino all’osso (o al possibile) da ogni peso inutile e da ogni materiale inerte, resa sollevabile con un dito, iper resistente (si dice addirittura rimbalzi) nella sua vulnerabile levità, essenziale nella forma e nel colore.
“Nella sedia-sedia e nel tavolo-tavolo ci possono essere delle acrobazie poco visibili ma reali che sono molto più stimolanti che un capriccio facile”: il gioco sta tutto lì, nello studio meticoloso, nel processo pratico, nell’esperibilità del giorno per giorno, nei disegni, nei ripensamenti progettuali. Si arriva quindi a una sedia finissima in cui lo schienale si inclina nella parte finale di 12 gradi: non a causa di un’illuminazione rocambolesca, ma a partire da un consiglio di un ortopedico.
Risvolto architettonico di questo discorso è il Grattacielo Pirelli, progettato assieme a Pier Luigi Nervi, che appunto dice: “si è andati a caccia dei pesi inutili”. “La sua architettura è di sottile equilibrio, non di slancio”, aggiungerà la figlia.
Si narra che Gio Ponti abbia combattuto una battaglia per la leggerezza, e la guida in questione la testimonia, passando le varie architetture in rassegna suddivise in decenni, dalla casa di via Randaccio 9 del 1925 al Palazzo Savoia Assicurazioni di via San Virgilio 1 del 1971. Gio Ponti e Milano è quindi anche campionario che testimonia l’evoluzione del suo stile, sempre più arioso, aperto, in contatto con l’atmosfera.
Le architetture di Gio Ponti non a caso hanno spesso quelle che lui definisce “finestre arredate”. Non sono le pareti di vetro americane, che si aprono totalmente verso l’esterno. La stanza, tradizionalmente e per definizione, ha quattro pareti: se una è trasparente si crea un vuoto. Allora, sì vetro, ma con una trama compositiva di linee di appoggio e colori che creano una barriera, diafana ma percepibile. “Non abbandonarsi all’immenso, ma vederlo attraverso un filtro calcolato”.
Gio Ponti progetta case, la “casa all’italiana”, come quella “dimostrativa” da lui creata e in cui ha vissuto in via Dezza a Milano. C’è la pianta a spazio unico con pareti scorrevoli (una pianta flessibile), che permettono di cambiare le misure della casa, di creare spazio là dove ce n’è poco. Si deve parlare, nelle case di Ponti, di versatilità: oltre alle pareti scomparenti, ci sono pochi e leggeri mobili su ruote: casa come quinta, scenografia; casa come dimensione teatrale. In via Dezza ci sono poi la finestra arredata, i mobili auto-illuminati, i pannelli organizzati, il pavimento e il soffitto rigati in diagonale, il colore unico per tutta la casa, le sedie e i letti uguali in tutta la casa, la pittura da tavolo.
La casa all’italiana è
bella come un cristallo, ma forata come una grotta piena di stalattiti, una casa vivente, versatile, silente che si adatti continuamente alla versatilità della nostra vita.
Un altro prerequisito della cultura architettonica di Gio Ponti è l’adattamento alla vita dell’uomo, un accordo con la necessità: “L’architettura corrisponde a esigenze che sono in categorie: casa, scuola, ospedale, sport, turismo… che fanno parte del complesso economico della nazione”. L’architettura ha per Ponti una parola d’ordine: funzione. Questa deve essere lo scopo, da rendere anche subito visibile a livello estetico, dall’esterno, comprensibile, avvicinandosi e soddisfacendo “i problemi dell’attualità della vita della gente”. Da questo nasce il concetto di “qualità della produzione industriale”, che diventa un suo motto, promosso anche attraverso la direzione di Domus e le mostre curate alla Triennale di Milano (tempio milanese del design e della mescolanza delle arti). “La qualità è rispetto per il popolo”: in Ponti “popolare” non è sinonimo di «robaccia». Nei suoi progetti “non ha mai previsto per gli altri una misura che non fosse quella che desiderava per sé”. Se si considera la Clinica Columbus di via Buonarroti, essa nasce dal principio fondamentale che una clinica non debba ricordare se stessa né fuori né dentro, ma piuttosto una casa: “Uscendo guarito dalla clinica, il paziente ringrazierà medici e infermieri, e un po’ anche l’architetto, che ha pensato a lui come uomo”. “Nella Columbus le stanze sono colorate, ognuna in un colore diverso, e hanno mobili di legno, non di metallo; nell’ala della maternità ogni stanza ha un suo balconcino e una pergola”.
La tecnologia va di pari passo con la progettazione, la “tecnologia è anche arte”. Occorre però trovare il modo per coniugare estetica e funzione, armonia e avanguardia. “Una prevalenza tecnologica ed economica hanno determinato un’eclissi del senso della bellezza, ossia del pensiero dell’architettura”, che “serve anche per guardarla”. La città ideale deve avere un’immagine “confortevole agli occhi e alla vita”: la tecnologia serve la funzionalità, ma deve anche rispondere a certi principi estetici.
Da qui nasce l’interesse totale per i muri e le facciate delle sue architetture, che non sono portanti ma portate, aeree, quasi ignare della gravità. Ottiene questo con i giochi di colore, di luci, di riflessi. Un esempio eclatante lo si trova nella guida: la Chiesa dell’Ospedale San Carlo. “Pianta a diamante, ingressi trasparenti, rivestita di ceramica a diamante, ‘pura, semplice ed espressiva forma della navata’. Gioca con la luce ed esclude ogni altra decorazione. Gio Ponti diceva: ‘Per la città fumosa con vie strette, facciate lucenti illuminate dal cielo’”. Non bisogna dimenticare che le primissime cose disegnate da Gio Ponti sono state le ceramiche di Richard Ginori.
Per questo, anche, la sua attenzione architettonica si è rivolta così tanto a Milano: dice lui, questa città non ha avuto la fortuna ambientale di possedere un grande e affascinante fiume come è successo a Parigi, Londra, Roma, Firenze, Torino; o di affacciarsi sul mare, di essere cinta da montagne, o di galleggiare come isola tra le isole. “Per noi di Milano Dio non ha fatto nulla, quindi sta a noi architetti far diventare Milano una bella città… è una questione di creazione”. A questo proposito aggiunge: “quando si opera con la dovuta e più che naturale attenzione alle condizioni climatiche del luogo (il che è doveroso, elementare, facile) l’architettura vi si inquadra ‘naturalmente’ senza bisogno di richiami o copiature ambientali”.
Allora niente case basse e lontane, ma case che siano perimetri di vie “moderne”, con
facciate in ceramica (la pioggia le lava), di ceramica che sia a diamante (rispecchiano il cielo, lo portano dentro la strada), facciate aeree, che appaiano senza peso e senza spessore, perché il gioco non è più tra pieni e vuoti ma tra superfici riflettenti e non. Le facciate sono le pareti della strada, e di strade è fatta la città. Sono la parte visibile della città, sono ciò che della città appare.
Nel catalogo della mostra dedicata a Gio Ponti in corso fino al 5 maggio 2019 al Musée des Arts Décoratifs di Parigi si parla di “facciate architettoniche come dei fogli di carta piegati su cui figurano delle forme geometriche traforate”. A Milano se ne possono vedere alla Chiesa di San Francesco d’Assisi al Fopponino, esperimento che poi trova il suo massimo splendore nella Concattedrale Gran Madre di Dio di Taranto. “Ho pensato: due facciate. Una, la minore, salendo una scalinata, con le porte per accedere alla Chiesa. L’altra, la maggiore, accessibile solo allo sguardo e al vento: una facciata ‘per l’aria’, per una cattedrale sommersa nell’aria, una facciata composta da facciate gemelle, con ottanta finestre aperte sull”‘immenso’, che è la dimensione del mistero della presenza perenne di Dio”.
Gio Ponti e Milano ci insegna che il capoluogo lombardo è il teatro in cui vedere realizzati i principi di Gio Ponti, in cui visitare architetture che sono storia dell’architettura, progettazioni da manuale, esperimenti ingegneristici d’avanguardia. Caso più unico che raro, Milano accoglie circa il 90% della progettazione pontiana.
“L’edificio che mi piace di più è forse quello che gli architetti realizzeranno per il futuro”: così lui risponde quando gli si chiede quale sia la sua architettura preferita. Milano è quindi custode di edifici sorti per la posterità, come la letteratura degli albori, il cui pubblico era lontano, sconosciuto, attraente nella sua malleabilità costitutiva. Deve servire a chi verrà, non a chi ha da morire.
Ponti racconta che dopo aver completato la celebre Villa Planchart a Caracas qualcuno gli ha detto di aver fatto una villa fiorentina, quando lui aveva invece agito seguendo le esigenze del territorio, ascoltando il contesto, soddisfacendo le richieste dei committenti, al di là di ogni minimo sguardo nazionalistico. “Anche facendo una architettura spregiudicatamente conseguente al proprio tempo, si è (o si resta) inconsapevolmente ma felicemente del proprio paese, italiani cioè, in più nella tradizione profonda e vera, e non formale e accademica”.
A Milano si vedono quindi architetture istintivamente ma involontariamente milanesi (non potrebbero essere da nessun’altra parte: autoctone, non create per essere rifatte con lo stampino), nate da un pensiero d’avanguardia e contro la storia, per diventare poi storia della città. La guida offre quindi l’evoluzione teorica del pensiero alto e sovranazionale di una mente che ha poi dato luce a edifici felicemente milanesi. E la guida e chi ne sta dietro ne è ben consapevole. La guida è una tra le cose migliori nate negli ultimi tre anni per rinforzare una certa mitologia milanese, per rinverdirne il sex appeal col ferormone della eccezionalità di questa città a metà tra la metropoli e il paese anni ’50, fatto di ceramiche lucenti, linoleum, studi di design, portoni in radica.