L’ antropologo britannico Gregory Bateson utilizzò per primo il concetto di “fuori controllo” come passepartout teorico utile a spiegare certi aspetti della contemporaneità, soprattutto i più sfuggenti. Oggi la stessa nozione è ripresa da Thomas Hylland Eriksen, antropologo norvegese che ha titolato proprio così il suo saggio pubblicato in Italia da Einaudi. A essere fuori controllo sono le contraddizioni strutturali tra aspetti disparati dell’attività umana sul pianeta Terra, e, di conseguenza, l’ecologia del pianeta stesso. L’esempio più importante è quello dello sfruttamento delle risorse naturali, insostenibile dal punto di vista ambientale, ma necessario alla crescita economica – una contraddizione che ne implica molte altre, a partire dall’aumento esponenziale della produzione di rifiuti. A questo proposito l’autore, in uno dei passaggi più iconici del saggio, racconta una delle immagini emblematiche della contaminazione ambientale:
La grande chiazza di immondizia del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch) è stata scoperta solo nel 1997 dall’americano Charles Moore mentre stava rientrando dall’Asia in barca a vela. L’isola galleggiante costituita soprattutto da pezzi di plastica tenuti assieme dalle correnti copre un’area pari circa a quella del Texas.
Ma l’inquinamento non è certo l’unico problema fuori controllo. C’è la questione migratoria, ad esempio: laddove il sistema di mercato globalizzato si fonda sull’estrema dinamicità delle merci su scala globale, questa stessa dinamicità diventa un disvalore – o perfino un pericolo – quando si tratta di gestire i flussi di esseri umani. Vige insomma un sistema di parzialità, imperniato soprattutto sull’opposizione globale-locale. Questa contraddittorietà si acuisce quando si paragonano i vertiginosi aumenti caratteristici degli spostamenti umani nell’epoca contemporanea: quello dei flussi turistici e quello delle migrazioni. Nel primo caso c’è un progressivo aumento dell’invasività del fenomeno turistico:
Nel 2000 erano poco più di sette milioni le persone che andavano in crociera, nel 2014 il numero ha raggiunto i ventuno milioni: in altre parole, il numero dei passeggeri delle crociere è triplicato nel giro di quindici anni.
Nel secondo caso invece le migrazioni sono percepite come una minaccia: viste dall’autore contemporaneamente come naturali conseguenze della disparità di reddito e come armi politiche in mano ai nuovi nazionalismi nati proprio in risposta agli effetti destabilizzanti del mercato globalizzato. E la concomitanza di destabilizzazione e fenomeni migratori porta a conseguenze significative, come il cambio di valenza geopolitica del Mar Mediterraneo:
Il Mediterraneo ha rappresentato per molti anni uno dei contrasti più forti per ricchezza e opportunità di vita. Con il regime attuale delle frontiere in Europa, e con la crescente mobilità da Asia e Africa, il Mediterraneo non è solo la frontiera tra la Grecia e il Libano, tra la Spagna e il Marocco, ma anche il confine tra la Germania e il Congo, tra i Paesi Bassi e la Sierra Leone. Schengen ha fatto salire la logica del confine dalla scala nazionale a una scala superiore, quella europea.
Nel saggio di Eriksen, da un punto di vista più strettamente politico, questi cambi di prospettiva e queste contraddizioni ecologiche rispecchiano un’ipocrisia generalizzata: sono le conseguenze del fatto che nessuno è disposto a rinunciare alla prospettiva di miglioramento della propria condizione economica o sociale. Un insieme di contraddizioni strutturali che viene definito, con un’espressione dell’antropologo Gregory Bateson, “doppio legame”: “un tipo di comunicazione auto-confutante, come dire nello stesso momento due cose incoerenti tra loro”. La stessa coerenza in cui si incappa nel puntare contemporaneamente verso uno sviluppo che consuma risorse ecologiche e preoccuparsi del surriscaldamento globale. Più in generale cercare, schizofrenicamente, soluzioni alle proprie stesse azioni.
La nostra era, l’Antropocene, è descritta dallo studioso norvegese come “surriscaldata”, termine che viene utilizzato per indicare l’intensificazione di iperconnessione, contraddittorietà e mutamenti in accelerazione. Questa triade di aspetti problematici si incarna a sua volta in tre macro-aree: quella identitaria o politica (ritorno ai nazionalismi), quella ambientale (surriscaldamento globale) e quella economica (crisi finanziarie e bolle speculative). Tre filoni ecologici che nel saggio dell’antropologo norvegese sono impossibili da isolare perché indissolubilmente legati da nessi causali e legami di interdipendenza. E proprio questi vincoli costituiscono il cuore del saggio, perché il metodo necessario ad affrontare questa generica situazione fuori controllo è sfuggente almeno quanto lo sono i problemi che ne costituiscono le cause. Ma è affrontando questo insieme da un punto di vista ecologico, potremmo dire olistico, che se ne comprende la portata.
I problemi sono globali perché agiscono su scala planetaria, come il surriscaldamento climatico o la crisi finanziaria, ma spesso la risposta politica che viene proposta è locale e consiste nel ritorno alla chiusura dei confini e altri modi di assecondare paure ataviche e profonde. Eriksen tenta di scardinare proprio questo malinteso che pervade una grande varietà di questioni politiche contemporanee:
Affrontando l’impatto percepibile, e a volte drammatico, di eventi locali che hanno origine in luoghi lontani o su un piano di vertiginosa astrazione, le persone sperimentano ovunque problemi di riproduzione: da un punto di vista economico, culturale e ambientale, vedono minacciati la propria autonomia e il proprio diritto a definire se stessi e il proprio destino. Di fronte alla propria vulnerabilità, cominciano a valutare di chi – o di che cosa – possono fidarsi, e chi – o che cosa – possono incolpare.
E qui c’è una prima impasse nella possibilità di far fronte a problemi di questo tipo perché le risposte locali a problemi globali risultano essere delle false soluzioni. E anche quando i metodi sono globali, coerentemente con la natura dei problemi che affrontano, sorge comunque il problema che tali soluzioni siano troppo lente, deboli o si limitino al breve termine: come nel caso del surriscaldamento globale a cui corrispondono i tentativi diplomatici, per ora insufficienti, di arginare il problema attraverso la limitazione delle emissioni di CO2. E proprio a proposito di necessità di una visione d’insieme e di prospettive a lungo termine Eriksen rimarca l’importanza di combinare la prospettiva individuale con quella globale:
non esiste il punto di vista locale. All’interno di ogni comunità i punti di vista mutano con il mutare delle situazioni individuali. In una fase di cambiamento alcuni perdono e altri vincono alcuni vedono lo svantaggio e altri l’opportunità. Nessuno, però, può indovinare quali siano le conseguenze a lungo termine del cambiamento.
In questo tentativo di dare un ordine e una prospettiva non contraddittoria alla contemporaneità sta il valore del tentativo teorico di Eriksen. Prendere coscienza di un panorama ecologico globale davanti a cui si tende a percepire una propria inefficacia politica e sociale può diventare, paradossalmente, il modo per rimettere in prospettiva questioni complesse, interconnesse ed estremamente attuali, da quelle economiche fino a quelle ambientali. Chiedersi quale sia la prospettiva futura di un attivismo in epoca contemporanea equivale a chiedersi quale sia la propria, personale, valenza sulla bilancia globale – quella che gli antropologi chiamano “agentività”, cioè la capacità di agire sul sistema di cui si fa parte. E sebbene sia difficile trovare risposte universali a domande simili, rimane nitida la certezza che porsele sia comunque l’unico primo passo possibile.