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l programma di gestione dell’immigrazione circolare tra il Marocco e la provincia di Huelva (comune di Cartaya) prevede che migliaia di donne marocchine si rechino in Spagna a lavorare per un ciclo stagionale alla raccolta delle fragole. Da qualche decennio questa provincia spagnola è una tra le più grandi aree d’Europa per la raccolta e produzione di fragole, ed è amministrata con l’obiettivo di limitare l’immigrazione clandestina, accogliendo un grande numero di stranieri di varia provenienza. Se, alla fine degli anni Novanta, la Spagna aveva deciso di stipulare i primi contratti in origine con donne provenienti da paesi dell’Europa dell’Est (Romania, Bulgaria e Polonia), già all’epoca, le donne marocchine rappresentavano il 25% della popolazione straniera a Huelva e oggi i programmi di lavoro stagionale per la raccolta delle fragole coinvolgono quasi totalmente donne provenienti dal Marocco. Questa politica di gestione controllata dei flussi migratori per il lavoro stagionale nella raccolta delle fragole è basata su criteri di genere espliciti, che hanno portato nella regione migliaia di donne migranti a partire dal 1996.
Questo fenomeno ha avuto inizio nella città di Cartaya, dove il sindaco socialista Juan Antonio Jaldon ha sostenuto per primo il progetto di circolazione migratoria delle “stagionali marocchine” tra Marocco e Spagna. Oggi questo programma risponde a una triplice necessità: la domanda di forza lavoro da parte della Spagna, il controllo dei flussi migratori verso l’Europa e la possibilità di contribuire alla crescita economica dei paesi di partenza delle lavoratrici migranti. Fragole. Le donne invisibili della migrazione stagionale di Chadia Arab, geografa e ricercatrice francese di origine marocchina, indaga il legame tra la migrazione e i mutamenti dei rapporti di genere, o ancora meglio, come scrive Arab, “le pratiche e il discorso sull’emancipazione che la migrazione potrebbe eventualmente consentire alle donne”. Obiettivo del libro, per come lo presenta la sua autrice, è quindi “far uscire le donne dall’invisibilità” e, allo stesso tempo, e in questo sta l’originalità del saggio, “rompere con l’immagine di una migrazione di cui potevano essere protagonisti solamente gli uomini, mentre le donne rimanevano nel loro paese o li seguivano, subendo la migrazione”.
Il libro, edito in Italia da LUISS University Press e tradotto da Ondina Chirizzi, racconta la storia dello sfruttamento socio-lavorativo di cui sono vittime le braccianti donne e donne migranti coinvolte nelle politiche spagnolo-marocchine per la raccolta delle fragole a Huelva. Il saggio mette in luce “la condizione di vulnerabilità lavorativa ed esistenziale di queste donne schiacciate nella filiera delle fragole”, come scrive Aboubakar Soumahoro nella bella prefazione all’edizione italiana. Allo stesso tempo, però, il libro mette in risalto anche l’aspetto potenzialmente emancipatorio di queste storie o, per citare ancora Soumahoro, “la ricerca di una forma di riscatto ed emancipazione”.
Le storie delle donne tratteggiate da Chadia Arab in Fragole contribuiscono a decostruire l’immaginario dominante delle migranti viste come mere vittime delle migrazioni o come accompagnatrici passive degli uomini, soprattutto quando si parla di donne provenienti dall’Africa del Nord, precipitate all’interno di una rappresentazione del tutto sminuente, stereotipata e non veritiera. Chadia Arab è, invece, andata alla ricerca di queste donne “anche là dove spesso non si pensava di incontrarle” – ovvero negli spazi del lavoro salariato offerti dal programma di lavoro stagionale di Huelva – con l’obiettivo di renderle visibili e dar loro una rara occasione di potersi raccontare. Come ha sostenuto l’antropologa Nasima Moujoud, nella sua tesi di dottorato Migrantes seules et sans droits, au Maroc et en France. Dominations imbriquées et résistances individuelles (2007), la necessità che spinge queste donne a partire coincide spesso con una forte volontà di portare avanti una lotta di emancipazione già avviata nel proprio paese di origine. Ecco perché la migrazione stagionale a Huelva, per quanto in molti aspetti problematica dal punto di vista politico, sociale e umanitario, può allo stesso tempo diventare una possibile risposta alle esigenze di crescita e di sviluppo personali delle donne che vi prendono parte.
Le voci raccolte da Arab decostruiscono l’immagine dominante delle migranti come mere vittime o come accompagnatrici passive degli uomini.
I percorsi di vita di queste donne raccontano storie di famiglie spezzate, maltrattamenti, solitudine ed estrema povertà che, una volta giunte in Spagna si trovano a lavorare in condizioni che Chadia Arab descrive in questi termini: “si tratta di donne sfinite, che non hanno diritto al riposo. Lavorano all’interno di strutture che non sono cooperative ma prigioni, con un carico di lavoro disumano soprattutto per quelle che non hanno i documenti”. Kenza, una delle voci che si raccontano in Fragole, dopo aver partecipato a una manifestazione, parla, ad esempio, del suo licenziamento che è senza alcun dubbio un “abuso, fatto perché mi ero sindacalizzata e avevo guidato una manifestazione di donne per reclamare i nostri diritti. Abbiamo tantissimi problemi in Marocco”. La testimonianza di questa donna tocca anche la questione delle condizioni di vita quotidiane, compreso il trasporto per recarsi al lavoro: “siamo stipate come bestie, a volte fino a 140 donne per camion, strette come sardine, ed è successo che per arrivare sull’azienda agricola il tragitto durasse più di un’ora e mezza”. Gli orari e le condizioni di lavoro, si legge nel saggio, sono particolarmente dure: 13 ore al giorno per un guadagno di 30 dirham (3 euro circa).
Il saggio, che si basa su un’analisi etnografica del fenomeno, non manca di denunciare le condizioni di sfruttamento cui le raccoglitrici stagionali di fragole sono vittime, ma propone anche una chiave di lettura diversa delle esperienze di queste donne: nel caso in esame, infatti, la migrazione si costruisce e si determina esplicitamente su una scelta di genere che va a interessare donne marocchine, povere, spesso analfabete e provenienti da zone rurali. Queste donne, nell’ottica di Chadia Arab, appaiono però sotto una luce differente ed emancipatoria: sono, soprattutto, donne piene di coraggio e di vita, combattive, determinate e spesso ironiche nella loro capacità di raccontare gli aspetti più assurdi dell’umano. L’autoironia che caratterizza la loro intelligenza, ci racconta sempre Chadia Arab, è spesso un antidoto alle atrocità subite.
Le vite di queste donne, giunte nelle filiere spagnole delle fragole, sono il più delle volte già stratificate e segnate da esperienze pregresse estremamente dure. Il libro racconta di vissuti segnati da maltrattamenti, povertà, matrimoni-prigione o falliti, prostituzione ed emarginazione sociale e lavorativa. La condizione delle vedove marocchine, in particolare, comporta severi problemi di natura sociale: alla morte del marito “tutte le porte si chiudono” e ha di solito inizio “una vera e propria discesa agli inferi”, scrive Arab. Ecco perché la migrazione stagionale può diventare una rara e minima opportunità di emancipazione, se non l’unica. Prerogativa per l’accesso al programma è infatti essere donna e avere dei figli, dunque avere radici nel paese di origine, così da poter prevedere il ritorno a casa a stagione conclusa – condizione per essere scelte. La possibilità della migrazione stagionale, in molti casi del tutto inattesa, trasforma l’esistenza di queste donne nel profondo, forse contribuendo a emanciparle, sostiene Arab.
Nonostante le terribili condizioni di lavoro, lo sfruttamento e la precarietà esistenziale delle migrazioni stagionali, partecipando a questi programmi, le donne raccontane in Fragole si sentono per la prima volta indipendenti: mentre molte di loro respirano una minima finestra di libertà, gli uomini – rimasti nel paese di origine – si scoprono in una nuova condizione che prevede indubbiamente una perdita di potere e un ridimensionamento, se non ribaltamento, dei ruoli familiari, sociali e di genere.
La migrazione femminile prevede un ridimensionamento, se non un ribaltamento, dei ruoli familiari, sociali e di genere.
L’esperienza di Zahra, madre single, arrivata in Spagna nel 2008 dopo essere stata rinnegata dalla famiglia, è emblematica in questo senso: “la migrazione all’estero le ha permesso di diventare più mobile anche sul territorio del suo paese, le ha dato sicurezza e il riconoscimento da parte degli altri”, scrive Chadia Arab raccontando la sua storia. Da questa esperienza in Spagna, infatti, Zahra è tornata in Marocco più consapevole dei cambiamenti avvenuti nella sua vita e, scrive Arab, pronta a “continuare a essere attrice di questo cambiamento”, un’occasione resa possibile grazie anche ai suoi guadagni e al denaro inviato a casa, che le ha fornito una posizione più forte nella sua famiglia di origine – che l’aveva ripudiata – e complessivamente nella società.
In questa ottica, Fragole sembra inserirsi in un discorso nuovo sulle migrazioni, puntando esplicitamente l’attenzione sulle fondamentali questioni di genere coinvolte. Come sostiene Helma Lutz, in “Gender in the migratory process”, paper pubblicato nel 2010 dal Journal of Ethnic and Migration Studies, il genere deve essere considerato un elemento determinante nell’analisi del processo di migrazione: “strutturato dalle migrazioni e strutturante le migrazioni, prodotto e produttore dell’ordine sociale”. È proprio questa la prospettiva di Chadia Arab: rinnovare la dimensione semantica della donna-migrante, la quale è capace di attribuire un nuovo significato al lavoro che svolge, consapevole della possibilità di trarne un qualche vantaggio – sebbene sia stata scelta a raccogliere l’ortaggio più fragile e allo stesso tempo più corrosivo per le sue mani.
Il titolo originale del libro, Dames de fraises, doigts de fèe, ovvero Donne delle fragole, dita di fata, è, infatti, denso di significato per la condizione delle donne e i rapporti tra i sessi in Marocco. La testimonianza di Saïda, un’altra donna la cui voce emerge nel libro, spiega chiaramente questo aspetto: All’inizio mettevamo dei guanti, ma gli spagnoli ci hanno chiesto di toglierli perché così schiacciavamo le fragole. Li abbiamo tolti, ma la raccolta delle fragole rovina le mani. Non importa, è per quello che eravamo venute. Le polacche invece non erano d’accordo e si sono rivoltate, volevano tenere i guanti. Noi non abbiamo detto nulla, non osavamo. Portavamo il velo, i pantaloni, il collo alto e il cappello, perché non volevamo tornare in Marocco nere. Però nelle serre fa molto caldo e a volte le ragazze si sentivano male.
Saïda, una delle 2000-3000 donne delle fragole raccontate da Chadia Arab, è fra le poche ad aver ottenuto i documenti e un permesso di soggiorno per la durata di un anno. Così è potuta tornare in Marocco per un mese, la prima volta dopo quattro anni, e oggi Saïda “ha le dita macchiate e rovinate dalla durezza del lavoro quotidiano”, ma “gli occhi fieri”.