I
n esergo a Filosofia dei mezzi. Per una politica dei corpi di Elettra Stimilli si trova l’interrogazione materialistica di Friedrich Nietzsche, dalla Gaia scienza: L’inconsapevole travestimento di necessità fisiologiche sotto il mantello dell’obiettivo, dell’ideale, del puro-spirituale va tanto lontano da far rizzare i capelli – e abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto una spiegazione del corpo e un
fraintendimento del corpo.
L’autrice dà nuova vita all’indagine riformulando il quesito: domandandosi se la storia della filosofia occidentale non sia stata sin qui, in fondo, una spiegazione e un fraintendimento del rapporto tra mezzi e fini. Evidentemente sussiste un nesso intimo tra corpo e mezzi; ma precisamente, quale ruolo, meglio, quali differenti ruoli hanno giocato i mezzi nel discorso filosofico della nostra civiltà? Tenendo conto che la stessa sopravvivenza, per la specie che siamo, non è questione meramente biologica, ma chiama già sempre in causa un’arte? Ossia una techne basata, di solito per il tramite non secondario della violenza, su determinate divisioni sessuali, sociali ed etniche del lavoro condizione di possibilità della medesima sopravvivenza? Sono ancora oggi i fini a giustificare i mezzi in quella che sembrerebbe una completa amministrativizzazione del mondo? O, con altri termini, quali fini giustificano quali mezzi? E questi ultimi continuano comunque ad avere uno statuto opportunisticamente inferiore per lo spirito pubblico? Questo, l’intreccio di problemi da cui si dipana il percorso di Stimilli.
È anzitutto lo scavo genealogico a condurre l’analisi, la ricognizione quindi dei luoghi filosofici eminenti in cui i concetti in questione sono stati trattati, definiti, cristallizzati in tradizioni e senso comune. Da Aristotele a Machiavelli, a Spinoza, da Kant a Max Weber, da Marx ad Hannah Arendt, da Heidegger a Karl Löwith, alla Scuola di Francoforte, a Walter Benjamin (è la prima parte del libro, Le ragioni dei mezzi). Fino al confronto col femminismo radicale e con quello marxista della riproduzione sociale (è la seconda parte, Corpi che insorgono). E proprio di un certo femminismo Stimilli fa suo il gesto metodologico fondamentale: misurarsi e fare i conti critici con la nostra tradizione di pensiero, con le sue radici patriarcali, per decostruirle e immaginare il nuovo sulla base della decostruzione.
Confronto e critica, quindi, non censura e cancellazione della storia; più consapevole riacquisizione della profondità storica dopo il disastro postmoderno che ha eroso (e continua a voler erodere) la cognizione diacronica. Questo fare filosofia rivendica pertanto la non neutralità del pensiero, la sua intima politicità, abbattendo inoltre gli angusti steccati disciplinari che la superfetazione della razionalità tecnica ha voluto imporre perfino alla stessa filosofia. L’intento del libro: farla finita col dualismo (uno dei tanti fondanti la civiltà occidentale) mezzi-fini, per dare corpo al potere politico dei mezzi.
L’intento del libro: farla finita col dualismo mezzi-fini, per dare corpo al potere politico dei mezzi.
Risale al pensiero aristotelico l’idea di uno scopo, telos, indirizzo dei mezzi, concepiti pertanto come subordinati a esso. Il movimento medesimo dell’essere e dei suoi fenomeni è stato inteso finalisticamente orientato da Aristotele (l’entelecheia), tanto che anche la produzione tecnica nella sua opera assume come modello la cinetica naturale – che è infatti l’attività che si propone di realizzare fini (gli artefatti), e la sua riuscita dipende da questa stessa realizzazione. Produzione (poiesis), che Aristotele distingue dall’azione (praxis), e ci spostiamo così in ambito etico: se la prima ha il fine fuori di sé, la seconda no. Il fine della praxis è l’agire bene e coincide con la sua piena e propria esecuzione. La saggezza pratica (phronesis) si interrogherà allora sui mezzi adeguati al compimento di un tale “fine assoluto”. Interrogazione, che spetta però ad alcuni, non a tutti. Alla divisione teorica tra poiesis e praxis ne corrisponde infatti una socio-politica: la praxis è degli “uomini liberi” nella polis; la produzione, il lavoro, spetta ai subalterni, donne e schiavi – di qui, si potrebbe tirare una linea fino alla dialettica servo-signore.
Il fine, nella sua priorità rispetto ai mezzi, è andato poi confondendosi nel corso della storia con il senso, con la ragione, la ragionevolezza e la razionalità. Fede nel progresso e sviluppo tecnico hanno giocato un ruolo fondamentale. Pensiamo ancora a Hegel e alla sua filosofia della storia, alla marcia gloriosa dello Spirito i cui presupposti teologici sono noti ai più. Poi, al paradigma della calcolabilità che ridefinisce la ragione secondo Max Weber: la Zweckrationalität, la razionalità volta allo scopo in sostituzione di quella volta ai valori (è il celebre “disincantamento” del mondo occidentale); in entrambi i casi, sottolinea Stimilli, la razionalità sempre si autopalesa come attività di individuazione di scopi atti a orientare l’azione.
Tecnica, astrazione, calcolo quantitativo-scientifico sono i pilastri della ragione strumentale che con l’insorgere del capitalismo avanzato attecchisce predominante. Una capriola nell’altalena del dualismo che stiamo trattando: la strumentalità si fa telos. È il “mondo amministrato” che totalizza e offende la vita, che annichilisce il pensiero speculativo, secondo le categorie della Scuola di Francoforte; è la ratio del soggetto metafisico, che manipola, all’apice della sua espressione nell’epoca della tecnica, con fare appropriativo gli oggetti, obliando l’Essere e la differenza ontologica tra questo e gli enti, stando alla versione più oscurantista, ossia a Martin Heidegger.
Hannah Arendt è un altro nome decisivo tra quelli che hanno radicalmente messo in discussione il primato della logica strumentale. Debitrice sia di Aristotele che di Heidegger, nonché critica di Marx e della sua concezione del lavoro, manifesta, forse proprio in quanto donna, un rifiuto peculiare per la sfera non solo della produzione, ma anche della riproduzione. La critica alla modernità di Arendt si fonda sulla critica alla “strumentalizzazione dell’azione”, ricorda la nostra autrice, all’utilitarismo come catena interminabile di mezzi e fini capace di ridurre (e la ha ridotta) anche la politica a un mezzo per altri scopi. Ritorna l’idea aristotelica di una praxis come esecuzione fine a se stessa, al di fuori sia del paradigma dell’operare tecnico, della fabbricazione, della produttività a tutti costi (di qui muoveranno poi le riflessione sull’inoperosità di Jean-Luc Nancy e Giorgio Agamben) che del ciclo interminabile del lavoro in quanto attività legata alla mera sussistenza biologica (circolare perciò come il ritmo della natura).
Tecnica, astrazione, calcolo quantitativo-scientifico sono i pilastri della ragione strumentale che con l’insorgere del capitalismo avanzato attecchisce predominante.
L’azione sarebbe l’espressione più alta dell’umano, perché libera, autonoma (dalle coazioni fisiologiche e dalla mediazione delle cose materiali) e in grado di mettere in relazione i singoli in una comunità. Oltre a riprendere il modello aristotelico di un’attività “vuota e autofinalizzata”, chiosa Stimilli, Arendt rimuove le condizioni materiali da cui l’azione sorge. Con queste, rimuove il corpo. Col finale paradosso, però, di chiamare “seconda nascita” – altro tipo di generatività rispetto a quella biologica propria del femminile – il nuovo che solo dall’azione così intesa può scaturire.
Ritorniamo all’intento: dare corpo al potere politico dei mezzi, una volta di più a fronte e contro la rinnovata tecnicizzazione della politica introdotta dal neoliberalismo. Sono due i passaggi che rendono possibile l’operazione a Stimilli: Marx (con rifiniture benjaminiane) e il femminismo. Marx rappresenta lo scarto nella storia della nostra filosofia: è stato infatti il primo ad attribuire una valenza propriamente politica al concetto di mezzo. Mezzi di produzione, soprattutto, quello particolare e prioritario di forza-lavoro. Con la nozione di forza-lavoro, secondo le parole dell’autrice, “i mezzi si soggettivano”, il lavoro si fa figura politica per eccellenza, mezzo “con forza rivoluzionaria”. Perché il lavoro, oltre a quello astratto, quantificabile e in base a questa quantificazione salarizzato, è anche e anzitutto lavoro vivo (lebendige Arbeit), ossia il lavoratore o la lavoratrice vivente, in carne e ossa. Come tale, ci ricorda in pagine assai belle Enrique Dussel, condizione di possibilità del capitale, presupposto della sua stessa esistenza (da cui il carattere parassitario del capitale medesimo). Pertanto, il lavoro è al contempo subordinato, sfruttato, ma è anche un’esteriorità che sempre da capo deve essere catturata dal sistema-capitalismo e che nella lotta per la propria autonomia può spezzare la fantasmagoria della totalità di questo sistema. Ecco cosa consente lo spostamento di prospettiva dalla più generale logica strumentale al ruolo politico dei mezzi, in particolare al ruolo politico del mezzo-soggetto-lavoro: l’apertura della totalità, l’individuazione del fuori della resistenza.
Marx, si diceva, più il femminismo, meglio, il disvelamento non solo dell’“arcano della produzione”, ma, con Leopoldina Fortunati (e, con lei, Silvia Federici, Selma James, Alisa Del Re, tra le altre), anche di quello della riproduzione. In primo luogo, a onor della storia, sappiamo ormai che già con la prima transizione al capitalismo nel XVII secolo le enclosures non hanno riguardato soltanto le terre demaniali, ma anche e non secondariamente i corpi delle donne – confinamento tra le mura domestiche, primo controllo da parte dello Stato su nascite e sessualità; fino ad arrivare alla fine del XIX secolo con l’“invenzione” della casalinga a tempo pieno. Infatti, se col passaggio dalla manifattura alla grande industria si assiste inizialmente all’ingresso massiccio di donne e bambini in fabbrica (regolato sul piano giuridico dal contratto di matrimonio, l’operaio capofamiglia che, vendendo moglie e figli, dice lo stesso Marx, si fa “mercante di schiavi”); successivamente, le donne vengono costrette al lavoro in casa e alla dipendenza dal salario maschile. Questa costrizione costituisce l’“arcano della riproduzione” (è il verso appunto al capitolo XXIV del I Libro del Capitale): impresa di naturalizzazione, svalutazione e occultamento di tale lavoro riproduttivo, che diventa così oggetto di estrazione gratuita di plusvalore da parte del capitale (risorsa disponibile all’appropriazione al pari della natura). Presupposto del presupposto: senza attività domestiche e di cura che assicurano la sussistenza dell’operaio non si darebbe, difatti, forza-lavoro; senza forza-lavoro, non ci sarebbero né fabbrica né profitto.
Questo “contratto sessuale” (Carole Pateman) storicamente determinato è all’origine dell’apparenza sociale della riproduzione come “vocazione” e “destino biologico” delle donne. I mezzi di riproduzione, innanzitutto le donne. E dopo le loro battaglie, una parziale socializzazione di tali attività attraverso il welfare state, oggi depredato e assaltato dalle privatizzazioni. Ma, in secondo luogo, sappiamo che col cosiddetto postfordismo, con la fabbrica che si è fatta diffusa e globale tra le metropoli e in rete, la riproduzione è diventata direttamente produttiva. Facciamo cioè riferimento al cosiddetto processo della femminilizzazione del lavoro: intendendo con ciò non tanto (o non solo) il maggiore ingresso delle donne nel mercato del lavoro, quanto l’estensione a tutta (o quasi) la forza-lavoro dei tratti che hanno storicamente caratterizzato il lavoro femminile; quindi, domanda e messa a valore delle capacità relazionali, affettive, di cura (soft skills), da un lato; obbligo a una piena disponibilità del tempo, intermittenza e precarietà lavorativa, altissimo grado di sfruttamento con bassi salari, fino alla gratuità, dall’altro.
Il lavoro, esteriorità che sempre da capo deve essere catturata dal capitalismo, nella lotta per la propria autonomia può spezzare la fantasmagoria della totalità di questo sistema.
La riproduzione sociale permette allora a Stimilli di reinterrogare la crisi del paradigma moderno, di uscire fuori non solo dal dualismo mezzi-fini, ma anche corpo-intelletto. I corpi viventi – materia già sempre intelligente e mai solo inerte – prendono la scena. In tal senso, Carla Lonzi pensava “il problema femminile” come “di per sé mezzo e fine dei mutamenti sostanziali dell’umanità”. Ripensare la riproduzione sociale significa d’altronde ripensare il modo in cui una società viene messa in forma e vive (ecosistemi inclusi). Ripensare la riproduzione sociale, insieme alle altre trasformazioni del lavoro – industria 4.0, mechanical turk, globalizzazione che ha composto molteplici regimi di sfruttamento, dai più tradizionali e ancora schiavili all’high tech avanzato –, significa anche tornare a interrogare il concetto di classe. Mai stato un che di omogeneo, le donne o gli ex paesi coloniali lo sanno bene, ora più che mai intrinsecamente striato, internamente differenziato.
Quale scienza dell’organizzazione, quale filosofia della praxis per le moltitudini in lotta irriducibili all’Uno (del Popolo o del Partito)? Cosa vuol dire, con Walter Benjamin, ripensare anche il comunismo non come scopo finale, ma come una pratica? Pensare cioè una pluralità di scopi immanenti ai mezzi, una pluralità immanente di scopi? La riappropriazione democratica dei mezzi di produzione e riproduzione, immaginando innervazioni tecniche alternative, foriere di liberazione e accrescimento collettivo e non più di guerra e distruzione? Ecco, Elettra Stimilli ci ha consegnato tra le mani un pregevole “mezzo” per riflettere sulle domande urgenti del nostro presente.