I
l manifesto femminista (come da sottotitolo) di Jessa Crispin si chiama Perché non sono femminista. Per comprendere il paradosso occorre anzitutto intendersi su quale sia il femminismo da cui l’autrice, fondatrice del blog letterario Bookslut e per anni attiva presso Planned Parenthood, intende prendere le distanze. Obiettivo polemico di Crispin sono quelle “femministe che dispensano pompini con zelo missionario”. Quello che propone è cioè una critica radicale (e già lo stile colorito lo dimostra) dell’ultima incarnazione, perversa e sbiadita, di un femminismo ormai vuotamente conciliante e politicamente corretto. Quello che lei chiama “femminismo universale” e a cui in Italia ci si riferisce come femminsimo mainstream, femminismo pop o femminismo della terza (o addirittura quarta) ondata.
Anche in Italia è infatti evidente come il femminismo, da ideologia radicale, si sia trasformato rapidamente in argomento prêt-à-porter capace di mettere tutti d’accordo (almeno sulla carta, specie quella stampata) e, soprattutto, di favorire ingenti profitti. Ne è esempio lampante lo sfuggente progetto editoriale Freeda, lanciato, tra gli altri, dall’ex dirigente della sezione “branded entertainment” di Publitalia. Stile grafico giovane e fresco; marketing aggressivo e onnipresente sui social; contenuti celebrativi e molto spesso sponsorizzati: storie di successo al femminile, consigli su abbigliamento e trucco, confessioni private su corpo e sessualità e qualche modello di donna che sfida le convenzioni di genere. Forse non troppo diverso da un qualsiasi femminile degli ultimi due decenni, con la differenza che l’aggettivo (o piuttosto il brand) applicato non è “femminile” ma “femminista”. Il risultato? Più di un milione di followers su Facebook in meno di un anno.
Da movimento contro il sistema, quale è stato il femminismo storico, a movimento di regime, che non solo non discute più il sistema ma che addirittura lo alimenta e lo rafforza, il nuovo femminismo sembra orami una semplice sovrastruttura che, parlando di parità (di genere), dimentica e ottenebra le altre drammatiche differenze (di classe, di razza, di abilità, solo per citarne alcune) che ancora lo percorrono. Nel suo accorato pamphlet, che è un’autentica boccata d’aria fresca nel dibattito mainstream attuale, Crispin mette alla berlina le forme attraverso le quali questa “normalizzazione” del messaggio femminista ha avuto luogo in Occidente. Non solo: ne indaga le responsabilità, senza fare sconti a nessuno.
I suoi strali non si rivolgono solo alla capacità del capitale di appropriarsi efficacemente di ogni critica gli venga mossa, ma al femminismo stesso. Anzi, più precisamente, a quelle donne che si identificano come femministe e che pensano che questa etichetta legittimi ogni loro scelta individuale. Ma il femminismo, ricorda Crispin, non implicava la libertà di fare quello che si vuole, semplicemente invertendo le dinamiche di potere senza metterne in discussione l’essenza violenta. Riguardava proprio l’assunzione di una responsabilità, e una buona dose di coraggio. Quello di non piacere, di spaventare, di rappresentare una minaccia (qualcuno ricorderà lo slogan “Tremate, tremate, le streghe son tornate”), o, per meglio dire, di offrire un’autentica critica al sistema vigente. Critica che si esprimeva anche nello stile sconcertante e sgradevole di esistenze e posizioni non conformi e non assimilabili.
L’esempio che Crispin cita spesso è Andrea Dworkin, pensatrice radicale famosa per le sue crociate contro la pornografia. Tipico esempio, già nell’aspetto fisico, della femminista che non intende scendere a compromessi con la società patriarcale, e per questo indicata spesso come modello negativo e “troppo estremo” da tante femministe della più recente ondata. Nell’attuale dibattito interno al femminismo, tra “vetero” e nuove leve, Crispin si colloca quindi orgogliosamente tra le prime. Come ha osservato la teorica inglese Angela McRobbie (citata nei ringraziamenti del libro) il femminsimo dell’ultima ondata ha preso le distanze in modo molto netto dalle femministe della precedente generazione. Il nemico, dal sistema patriarcale, sono diventate le “vecchie” femministe, con il loro atteggiamento censorio e “sex-negative”.
Il femminismo a cui guarda con nostalgia Crispin sembra un’ascetica ed eroica rinuncia alle nuove strade che si aprono alle donne.
Così, invece di riconoscere con gratitudine a quella generazione le tante battaglie vinte (l’aborto, il divorzio, solo per citare le più importanti), le nuove femministe hanno invocato il diritto a chiamarsi tali senza dover rinunciare all’essere piacenti e attraenti, a curare il proprio corpo e il proprio aspetto, ad assumere ruoli dominanti sia in campo sociale che lavorativo. Il mito della femminista che brucia i reggiseni e non si depila le gambe è diventato non solo uno stereotipo del passato, ma anche uno spauracchio da scongiurare. Crispin fa giustamente notare cosa sia andato perso insieme ai peli in questa nuova ondata: la volontà di creare un sistema alternativo, in cui la donna non avesse bisogno di oggettificarsi per rivendicare la propria voce e il proprio posto nella società.
Tuttavia la sua analisi, piuttosto che cercare un punto di incontro tra questi movimenti, reitera la scissione generazionale, individuando il nemico nelle indignate del web – più che (ad esempio) nello sfruttamento di questa indignazione da parte dei media e del mercato. Crispin insiste molto su questo suo personale posizionamento controcorrente. Nonostante lei stessa dichiari che “gli stili di vita” (come può essere il depilarsi o meno) “non cambiano il mondo”, finisce con lo scadere in un atteggiamento che fa coincidere il pensiero radicale con la singola scelta etica, spesso a livello di usi (“ci sono donne”, riporta scandalizzata, “che ancora prendono lezioni di pole dance sostenendo che è un buon esercizio fisico”) e consumi, come quando afferma l’importanza di comprare pollo biologico anche se costa “7 dollari di più”.
Il femminismo a cui guarda con nostalgia Crispin sembra un’ascetica ed eroica rinuncia alle nuove strade che si aprono alle donne. Chi si piega al sistema, infatti, ha tutto da guadagnare, sostiene l’autrice. In termini di potere, soldi, popolarità. Al contrario, “la gente ti odierà se preferisci la libertà ai soldi, se decidi di vivere secondo i tuoi valori di compassione, onestà e integrità”. Sono parole anacronistiche, che sembrano ignorare quale sia il sistema di cui parla e le vicissitudini di un mondo del lavoro fatto di precarietà e impoverimento del ceto medio, in cui certi valori assomigliano sempre di più a un privilegio che non tanti possono ancora permettersi.
Quando si occupa dei codici estetici, sostenendo, a ragione, che la crescente visibilità di corpi non conformi non elimina il problema di come nella nostra società “le idee di bellezza, accettabilità, amabilità e scopabilità” siano ancora inscindibili dal valore di una donna, Crispin evidenzia molto bene i paradossi del nuovo femminismo. Ma quando, tra le righe, emerge la sua proposta alternativa, viene in luce la sua incapacità di spingersi su un terreno di effettiva critica del capitalismo, che in fondo resta anche per lei questione di inclusione o esclusione. Quando ad esempio afferma che “meno percettibile, meno dominante, è il dibattito sull’accesso degli scrittori di colore ai centri del potere letterario. E ancor meno si sente parlare dei non-eterosessuali, dei disabili e delle persone economicamente svantaggiate”, verrebbe da risponderle: bello, un premio Strega a un senzatetto, fa colore.
Quello che Crispin sembra intuire senza aver il coraggio di approfondire è che il vero problema del femminismo universale è l’individualismo esasperato e disperato che ne rappresenta l’altra faccia della medaglia. “Quella che un tempo era un’azione collettiva e una visione condivisa del mondo in cui le donne potevano lavorare e vivere nel mondo è diventata politica identitaria, concentrazione sulla storia e i risultati individuali e indisponibilità a condividere lo spazio con persone di opinioni, visioni del mondo e storie differenti. Divise in gruppi sempre più piccoli, ci siamo ritrovate da sole, con le nostre preoccupazioni e le nostre energie rivolte all’interno anziché all’esterno”. Date queste premesse, quello che manca nell’analisi di Perché non sono femminista – che per questo sembra a sua volta un sintomo dello stesso panorama che acutamente dipinge – è la capacità di opporre un “noi” al “me” (too?) del sistema capitalistico. La volontà (peraltro presente in molte realtà femministe tuttora attive) di elaborare pratiche di emancipazione collettiva che eccedano il punto di vista borghese dell’anima bella, che si riempie la bocca di valori e di diritti dei “diversi”, senza mai andare a mettere in discussione il sistema economico che crea queste differenze. Per questo il suo parlare al plurale resta un vago appello alle “donne”, facendo leva su un’identità piuttosto che su una condivisione di obiettivi.
Così, tra toni da enciclica (“non è con altro egoismo che si combatte l’egoismo”) e sano buon senso (“se continuiamo a definire l’identità del nostro gruppo in base a ciò che abbiamo subìto, continueremo a essere oggetti anziché soggetti”), l’interrogativo più pressante posto dal libro resta senza risposta. Perché continuare a definirsi femministe? Perché titolare un capitolo (il settimo) “Gli uomini non sono un nostro problema”, se a più riprese si osserva che “il mercato del lavoro e la società capitalistica diventano sempre più ostili. Non soltanto nei confronti delle donne, ma anche degli uomini”, o che “siamo donne, ma potrebbe essere più utile concepirci innanzitutto come esseri umani”? Una questione esiziale, per quello che voglia definirsi un manifesto femminista.