N on sarò io a rivelarvi che lo storytelling va molto di moda. I principi della narratologia – presi principalmente dai due testi cardine della disciplina, L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell e Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler – sono ormai patrimonio condiviso del giovane ceto medio riflessivo. Ogni audiovisivo che diventa oggetto di dibattito online è accerchiato da migliaia di non-professionisti che vi spiegano che “funziona” oppure “non funziona” in relazione al suo rispettare o meno l’arco dei personaggi, alla divisione in tre atti, all’incidente scatenante e così via.
Incontrai questa roba da ragazzino quando frequentavo una nota scuola del fumetto a Roma. La missione principale degli insegnanti era uccidere ogni fantasia da genio romantico che potevamo coltivare nelle nostre giovani teste e spiegarci che scrivere storie è un mestiere, che c’è una tecnica e la tecnica è lo storytelling. Obiettivo nobile, per carità, e necessario in una certa misura. Purtroppo, decenni di egemonia culturale dello storytelling hanno prodotto alcune spiacevoli situazioni che abbiamo davanti agli occhi, come le writing room di Netflix che assemblano prodotti senz’anima perché ogni singolo secondo di girato è una funzione narrativa, l’ingranaggio di una macchina che “funziona” o “non funziona”. Nel contesto di una narratologia ridotta a manuale di istruzioni pratico, Fare Mondi di Ian Cheng, da poco edito per Time0, è una ventata di aria fresca.
Cheng è un’artista di appena quarant’anni che ha esposto a New York, Londra e Venezia tra gli altri. I suoi atti artistici sono simulazioni che hanno l’ambizione di farsi mondo, tanto complessi che provare a descriverveli mi porterebbe troppo lontano. Qui ci interessa invece che Cheng sia anche un teorico e Fare mondi il punto di arrivo di una serie di riflessioni narratologiche dalle intenzioni sistemiche. Più precisamente, Cheng si occupa di quel sottoinsieme di narrazioni che, come le sue opere, si fanno mondo; ovverosia di quella pratica nota come worldbuilding o worlding.
Ora, non tutte le opere sono anche dei mondi e in questo non c’è niente di sbagliato. Capolavori della letteratura o del cinema non si sono mai fatti mondi ma rimangono capolavori, cosa che ovviamente Cheng riconosce. Esempi di opere-mondo sono sicuro vi siano già venute in mente, le più immediate sono i grandi franchise multimediatici come Star Wars o Game of Thrones.
Nel contesto di una narratologia ridotta a manuale di istruzioni pratico, Fare mondi è una ventata di aria fresca.
Cheng si occupa di definire con precisione cosa caratterizza il mondo e sono due proprietà fondamentali: la Vitalità e l’Autonomia. Il mondo deve dimostrarsi così vivo da prosperare oltre i singoli atti artistici che lo compongono e abbastanza autonomo da sopravvivere al suo creatore. Opere insomma che fondano una realtà altra e infestano l’immaginario collettivo, che possono incarnarsi in centinaia di oggetti, declinarsi in mille performance, essere prese in mano da molteplici autori, che siano professionisti o fan, che espandono il mondo con le loro discussioni, le loro teorie, i loro progetti fanmade.
E fin qui niente di nuovo. Sono sicuro che molti di voi avrebbero potuto descrivere più o meno così cosa distingue Star Wars da I fratelli Karamazov. Ma il concetto di mondo non si limita a descrivere quelle opere di finzione che si sono espanse in franchise multimediatici. Per Cheng (e non solo per lui, come vedremo a breve), mondo è ogni atto creativo che produce un qualcosa che possiede quelle caratteristiche, compresi atti creativi che non classificheremmo mai come “artistici”. Come per esempio un’impresa. Ogni brand che si rispetti, infatti, deve avere l’ambizione di farsi mondo.
Anche questa però non è un’intuizione di Cheng. Circa vant’anni dopo la mia esperienza alla scuola del fumetto, ho reincontrato lo storytelling nel mondo del lavoro, da copywriter freelance che viene improvvisamente chiamato a fare consulente di branding dal direttore creativo di un’agenzia di comunicazione innamoratosi del suo curriculum pieno di fandonie letterarie e povero di formazione specifica.
Occupandomi principalmente di copywriting verticale (cioè di scrivere belle cosine seguendo le indicazioni di clienti o superiori), avevo una conoscenza superficiale del branding, cioè dell’insieme di principi teorici che orientano la creazione e la manutenzione di un brand. Nelle lunghe chiacchierate in call che costituivano il core della mia consulenza, scopro quindi quanto profondamente la narratologia si è insediata ai più alti livelli di comunicazione delle aziende, là dove si decide l’identità pubblica dell’azienda stessa.
La narratologia si è insediata ai più alti livelli di comunicazione delle aziende, là dove si decide l’identità pubblica dell’azienda stessa.
Prima di ogni specifica tecnica che rende preferibile il prodotto o servizio dell’azienda rispetto ad altri omologhi, il brand deve farsi immaginario e posizionarsi dove può costruire un’identità che lo distingua da tutti i suoi consimili (i competitor) e, se possibile, lì fondare un mondo. Il brand, fosse anche un brand di carta igienica, ha una mission, ha dei valori, ha persino un archetipo junghiano.
Online trovate vari articoli che illustrano l’uso degli archetipi in comunicazione e testimoniano quanto diffusa sia con tanto di esempi di brand esistenti, sistemati in schede che mostrano i punti forti e deboli di ogni archetipo. Schede simili le usa anche Cheng, sebbene quella junghiana non sia la corrente psicanalitica che preferisce. Cheng infatti è un seguace dell’analisi transazionale di Eric Berne, uno dei più originali innovatori americani della psicanalisi, e la pone a fondamento antropologico e filosofico della sua proposta narratologica.
Spieghiamo brevemente per poter finalmente parlare delle novità che introduce Cheng. Per Berne il nemico principale della nostra psiche è il tempo non strutturato. Quel tempo che a bassa intensità chiamiamo noia ma che può tramutarsi in angoscia, depressione, disperazione. Ognuno di noi avverte quindi l’esigenza di strutturare questo tempo, sul breve, medio e lungo termine. Il copione è la struttura di più lunga durata, un piano di vita inconscio elaborato nei primi anni di vita e basato principalmente sull’interpretazione delle azioni dei nostri genitori. Ci sono poi i giochi, ossia la stragrande maggioranza delle interazioni che abbiamo con gli altri e che possono esaurirsi in un incontro o strutturare anni e anni di relazioni. Gli attori di questi giochi sono i tre stati dell’Io fondamentali identificati da Berne: l’Adulto, il Bambino e il Genitore, cioè la reinterpretazione transazionale della topica freudiana Io, Es e Super Io.
Cheng importa i fondamenti dell’analisi di Berne nella sua teoria narratologica. I mondi sono dei giochi infiniti che strutturano il tempo di una moltitudine di persone e i tre stati dell’io, come vedremo, sono fondamentali nel processo creativo alla base del worlding.
Cheng è un seguace dell’analisi transazionale di Eric Berne, uno dei più originali innovatori americani della psicanalisi.
La descrizione del processo creativo è per l’appunto il principale apporto di questo saggio. Cheng si serve di quattro maschere di sua invenzione: il Direttore, il Fumettista, l’Hacker e, la più importante di tutte per fare Mondi, l’Emissario. Ciascuna di queste maschere incarna un certo tipo di impulso creativo che è a sua volta mosso dalle pulsioni profonde degli Stati dell’Io.
Le sistema poi sui quattro quadranti di un piano cartesiano così formulato: andando verso sinistra sull’asse orizzontale si “cerca casa”, luoghi sicuri e noti, mentre andando a destra si “cerca la sorpresa”; muovendosi verso l’alto l’autore aggiusta la rotta (cioè il processo creativo) in base alla storia, verso il basso invece in base all’istinto.
Facciamo un esempio. Il Direttore occupa il primo quadrante cioè cerca casa e aggiusta la rotta in base alla storia. I suoi tratti psicologici transazionali sono il Genitore che cerca casa e l’Adulto che aggiusta la rotta in base alla storia. Per chi non è familiare con Berne spiego ancora meglio: il Genitore, il Super Io freudiano, è la regola, il senso del dovere. È rigido e apprensivo, si preoccupa che tutto si faccia “come si deve”. L’adulto è l’Io, la ragione, la vostra personalità come di solito ve la raffigurate. Il Direttore è quindi preoccupato emotivamente della buona riuscita del progetto ma anche razionalmente capace di dirigerlo. All’estremo opposto, nel quadrante in basso a destra, troviamo l’Hacker. Egli è un Adulto differentemente orientato, un Adulto che cerca la sorpresa, la ragione che scopre “come sono fatte le cose” ma, trovandosi nella metà inferiore, è anche un Bambino guidato dall’istinto.
Per Cheng, queste maschere sono attive in ogni processo creativo, sebbene non tutti i processi creativi diano origine a mondi. Il mondo viene alla luce solo quando tutte e quattro le maschere collaborano, ma nella maggior parte delle volte non è così. Per esempio, una battuta è l’opera di una sola maschera: il Fumettista. Il Direttore da solo scrive invece una Massima, l’Emissario una regola e l’Hacker fa un trucchetto. Uno spettacolo di magia è frutto della collaborazione di Fumettista e Hacker, mentre Direttore e Emissario mettono in piedi una wiki. Se vi sembra complicato, non vi preoccupate: nel libro l’autore fa ampio uso di immagini e descrive con minuzia ogni maschera e ogni casistica possibile.
Fare mondi spinge il lettore a mettere alla prova le sue categorie teoriche, ad abitarle per vedere se funzionano o meno.
Questa complessità è, a mio giudizio, uno dei punti di forza di un saggio tutto sommato breve. L’impalcatura teorica di Cheng è allo stesso tempo schematica ed esaustiva, minimale e profonda. Si può dire che lo stesso Fare mondi presenti alcune delle caratteristiche fondamentali di un Mondo, per come viene qui definito, nella misura in cui spinge il lettore a mettere alla prova le sue categorie teoriche, ad abitarle per vedere se funzionano o meno.
Durante la lettura non si può fare a meno di pensare se, quando e come abbiamo messo al lavoro il nostro Fumettista o il nostro Emissario oppure vagliare mentalmente i numerosi esempi concreti che l’autore propone per vedere quanto regge la sua assolutamente ambiziosa descrizione di ogni processo creativo. Davvero il concetto di Mondo può descrivere efficacemente un ristorante, l’azienda di Elon Musk e una saga fantasy? E davvero le quattro maschere sono state attive nella creazione di ciascuno di questi universi simbolici?
L’ulteriore pregio del testo è di tenersi al di qua della scrittura. Non è un manuale pratico ma una riflessione metanarratologica su quali meccanismi attiviamo in ogni processo creativo, con particolare attenzione a quei processi creativi che chiaramente l’autore tiene nel più alto riguardo: il worlding. A essere illuminati non sono i singoli tasselli del puzzle che sia una storia sia un brand deve avere per essere engaging; quanto piuttosto le caratteristiche finali che devono emergere dall’opera compiuta.
A chi serve quindi Fare mondi? Vediamo innanzitutto a chi non serve. In una brevissima prefazione, la redazione di Timeo ha voluto marcare una chiara distanza da “un certo tecno-ottimismo” e da “l’entusiasmo verso l’imprenditorialità più futuristica” presenti nel testo per alludere alla possibilità di usare queste categorie teoriche in ottica rivoluzionaria…
Davvero il concetto di Mondo può descrivere efficacemente un ristorante, l’azienda di Elon Musk e una saga fantasy?
Ecco, io non credo sia possibile. Penso che il worlding come inteso da Cheng sia quanto di più lontano da ogni progetto di riforma reale del nostro mondo e che non a caso si accordi alla famigerata “visionarietà” che troviamo decantata nelle biografie dei leggendari eroi della Silicon Valley. Fare mondi vuol dire creare oppio per i popoli, non ci sono dubbi su questo. È quel surplus di realtà che mistifica la realtà medesima, è l’aura dell’iPhone oltre le sue caratteristiche tecniche, è la permanenza dei personaggi di una serie oltre il loro effettivo screentime, l’idea della vacanza che vive nella vostra testa prima, durante e dopo l’esperienza mediocre e stressante che avete avuto a Mykonos. È insomma la spinta opposta e contraria alla considerazione e alla trasformazione delle famose “condizioni materiali”.
Intendiamoci, niente di male in sé: l’oppio, l’arte, la fantasia e l’intrattenimento sono parti sacrosante della vita, ma non sono la vita stessa. Per questo l’ultimo capitolo in cui Cheng immagina un piano di esistenza interamente collassato sotto il peso di infiniti “mondi possibili”, presentato da lui come la vita che vivremo e la sola vita che varrebbe la pena vivere, è un incubo da cui ho sentito la necessità di uscire il prima possibile.
Insomma, se volete scrivere una storia che vi sopravviva, aprire un podcast che riconfiguri le categorie con cui i vostri ascoltatori giudicano il mondo o un bar che offra una experience così seducente da poter risparmiare sulle materie prime visto che tanto nessuno ci farà caso, allora Fare mondi è il libro che fa per voi. Se invece vi cercate istruzioni per abolire lo stato di cose presenti, mi auguro tanto che non ce le troviate o sono guai per tutti.