C osa fa l’assieme?”, era scritto in giallo su un cancello arrugginito che ho visto spesso nei miei ultimi anni di università. Una domanda che mi è tornata spesso in mente leggendo Fare femminismo di Giulia Siviero, pubblicato all’inizio di quest’anno da nottetempo, un percorso tra pratiche femministe.
Il libro di Siviero parte dal racconto di quello che è un vero e proprio velo squarciato: il momento in cui in una lezione universitaria ha sentito la docente, Adriana Cavarero, utilizzare il femminile sovraesteso. Ciò che fino a quel momento sembrava inusuale, da lì in poi diventa necessario. Un’immagine che bene illustra la potenza della lingua come strumento trasformativo e non solo specchio di ciò che è, di un presunto stato di natura.
Non è un caso che il libro di Siviero, così pratico, parta proprio dal linguaggio, dalla presa di parola, di (ri)nominazione e (ri)costruzione di termini e immaginari, da parte di chi ha sempre dovuto subire pratiche discorsive altrui. E parte anche da una precisazione linguistica: Ho usato la parola “donne”, e lo sto facendo anche qui, perché nello scrivere mi sono mossa aderendo al tempo storico e alle sue protagoniste per come si sono nominate. Ci sono storie provenienti dalla storia del femminismo e storie che arrivano dai movimenti delle donne: sapendo che non sono la stessa cosa, nell’orizzonte del libro ho voluto valorizzare il loro portato collettivo e i punti di contatto.
Siviero racconta che a un certo punto della storia “Le donne si tolgono dalla posizione di essere parlate da altri, partono e parlano di sé e da sé facendo della propria esperienza una misura del mondo; si sfilano le lenti che gli uomini hanno consegnato loro, mettono tra sé e il mondo un’altra donna: e scoprono se stesse, il mondo e i loro desideri”. Non si tratta di un episodio singolo, ma piuttosto di un processo che si ripete nel corso del tempo in momenti e in modi differenti. Uno dei modi in cui i femminismi interrompono il monologo patriarcale è la pratica dell’autocoscienza. La parola nell’autocoscienza è il primo spazio, luogo e possibilità per uscire dall’isolamento e riconoscersi in collettività, rendersi conto che non si è sole, per esperire la forza che deriva dall’assieme. L’autocoscienza è l’inizio di un processo che porta a scoprire che il sistema dei rapporti sociali può essere modificato, che è importante prendere parola e trovare le parole per farlo, che è possibile espatriare, non restare costrette all’interno della politica maschile ma ripensarla e ricostruirla nominando il mondo con parole nuove. L’autocoscienza è il momento del riconoscimento in collettività, il momento della presa di consapevolezza che non siamo sole a subire ciò che subiamo quotidianamente, che le parole possono essere strumento di lotta e di trasformazione sociale, che la condizione di subalternità può essere modificata – a patto di non farlo da sole.
Le persone socializzate come donne hanno un’esperienza profonda e continua con la violenza, che si manifesta in molte forme diverse e le colpisce esclusivamente per lo stesso fatto di essere socializzate come donne. Questa “familiarità” con la violenza è dovuta a una serie di fattori storici e sociali e principalmente a una società che le ha abbandonate a sistemi di esclusione e oppressione. Questi sistemi, spesso sanciti dalla legge o comunque tollerati dalle strutture legali e istituzionali, perpetuano disuguaglianze e soprusi. Per questo, scrive Siviero, i movimenti femministi si rendono conto che cercare di negoziare con le istituzioni o affidarsi esclusivamente alle vie legali non rappresenta una soluzione sufficiente per contrastare queste dinamiche e cercano altre strade per ottenere cambiamenti concreti e duraturi. Grande spazio nel libro è dedicato alle pratiche femministe relative alla salute, alla consapevolezza delle femministe che in un contesto in cui i diritti non sono garantiti, le lotte non devono concentrarsi a livello legislativo, cercando di convincere la politica istituzionale a creare leggi, ma decidono di concentrare le forze sulle pratiche di autogestione.
I movimenti femministi si rendono conto che cercare di negoziare con le istituzioni o affidarsi esclusivamente alle vie legali non rappresenta una soluzione.
“Negli anni Settanta il corpo delle donne è principalmente un affare da uomini, mariti, amanti o ginecologi. Ed è un mistero per la maggior parte delle donne. La loro vagina non le riguarda”. Siviero spiega bene che non è sempre stato così, ma che c’è stato un processo di “espropriazione” iniziato nel Settecento, che ha contribuito a rendere i corpi delle donne estranei a loro stesse e ad allontanarle da tutti i saperi riguardanti la loro salute. Negli anni Settanta le donne cominciano a scoprire e riappropriarsi del loro corpo tramite la pratica della auto-osservazione:
Attraverso la pratica dell’auto-visita e del fare da sé, ma insieme, molte donne decidono di sovvertire questi saperi e poteri: tornano nei loro corpi, ne recuperano la conoscenza, riconquistano la loro salute smettendo di delegarla passivamente a un medico, e riallacciano i fili con quell’antico affidamento dell’una all’altra per prendersene cura, secondo misure proprie.
La potenza di questo strumento è indescrivibile. Ritrovarsi in una stanza insieme a persone con corpi simili, per scoprire ciò che per tanta parte delle nostre vite abbiamo ignorato riguardo al nostro corpo, è uno strumento di liberazione e gioia.
La storia dell’autoesplorazione, del self-help, della condivisione di saperi e pratiche di salute passa attraverso la costruzione e l’utilizzo di diversi strumenti. Lo speculum, strumento di origine patriarcale e razzista, con cui gli uomini hanno indagato il corpo delle donne non curandosi di violenze, dolori e danni causati e di cui dagli anni Settanta in poi le femministe si riappropriano, ricostruendolo con materiali diversi, sperimentando modi diversi di inserirlo e cominciando a inserirlo da sol*. Un altro strumento importantissimo per la lotta per il diritto all’aborto è il Del-Em, uno strumento geniale per la pratica autogestita dell’interruzione di gravidanza.
Attraverso queste tecniche, le femministe si oppongono a un sistema che nega loro la possibilità di scelta sulle loro vita e sulla maternità. Anche le cliniche autogestite sono uno strumento inestimabile per la riappropriazione della scelta, e per condividere saperi sulla salute sessuale e riproduttiva, sul piacere sessuale, sul funzionamento dei corpi. Le persone hanno possibilità di esprimersi rispetto alle loro cartelle cliniche, mediche e pazienti collaborano rifiutando il canonico rapporto clinico verticale, ma costruendo un percorso sanitario che tenga conto dell’importanza dell’ascolto e dell’acquisizione di consapevolezza.
Ritrovarsi insieme a persone con corpi simili, per scoprire ciò che per tanta parte delle nostre vite abbiamo ignorato, è uno strumento di liberazione e gioia.
La storia di questa auto-esplorazione prosegue ancora oggi nei collettivi transfemministi, per esempio nel tentativo di GynePunk di hackerare gli strumenti tecnologici di diagnosi e indagine medica, condividendo istruzioni per la costruzione di strumenti medici; utilizzando oggetti e scarti tecnologici per generare strumenti potenti di autodeterminazione.
Continua anche all’interno delle consultorie autogestite attive anche in Italia, in cui persone con patologie invisibilizzate si ritrovano e nel racconto delle proprie condizioni scoprono strategie comuni, creando una possibilità di cura e salute che continua a essere negata dal sistema sanitario, che spesso minimizza le condizioni di dolore di chi soffre per esempio di vulvodinia, endometriosi, fibromialgia e neuropatia del pudendo; patologie tanto invisibilizzate quanto potenzialmente invalidanti, per le quali non esistono ancora studi e cure adeguate, e per le quali la condivisione di saperi dal basso e il mutuo aiuto è una risorsa preziosa.
Tra i numerosi esempi di pratiche e collettività di cui parla – tra occupazioni, riunioni, cliniche autogestite, hackeraggio di strumenti, e molto altro – nel suo libro Giulia Siviero racconta anche uno degli strumenti principali delle lotte femministe, teorizzato da numerose pensatrici – si pensi, su tutte, a Rosa Luxemburg – e adottato come pratica rivoluzionaria: lo strumento dello sciopero, concretizzato nell’azione di sottrarsi per fare “dell’assenza un espediente politico”. Oggi i movimenti mondiali di Ni una menos (in italiano Non una di meno) lavorano molto su questo. “Se ci fermiamo noi, si ferma il mondo” gridano i collettivi transfemministi, chiamando le persone socializzate come donne a scioperare dal lavoro di cura e dal lavoro riproduttivo gratuito che fanno quotidianamente e sul quale si basano non solo le microsocietà come le famiglie e le comunità di prossimità, ma le società intere.
La bellezza e l’importanza del libro di Siviero si trova anche nella sua capacità di scrivere un racconto femminista che non segue necessariamente uno sviluppo cronologico o lineare, ma che si muove tra le pratiche che nascono e sopravvivono e si ripropongono in punti anche molto lontani della storia, in luoghi molto lontani, in esperienze diverse eppure accomunate dalla necessità di lottare contro la violenza patriarcale. La voce di Siviero viene da un corpo che conosce le lotte, le riflessioni collettive nelle assemblee, che riconosce come le genealogie femministe siano importanti non semplicemente per creare un archivio statico di storie e aneddoti da ricordare, ma piuttosto una genealogia attiva in cui “corpi non biologicamente legati si connettono e riconoscono nella reciprocità e, sfidando una certa smemoratezza che a volte ci accompagna, si chiamano da lontano, attraversano le pareti porose del tempo e dello spazio, per trovare altre orecchie e altre bocche disposte ad accogliere, trasformare e rimettere al mondo”.
Se negli ultimi anni anche in Italia la pubblicazione di saggi di teoria femminista e transfemminista è aumentato rispetto al passato, il merito di Fare femminismo è quello di tenere ben salde le teorie e le pratiche, incarnando quest’ultime in una scrittura potente e appassionata, una scrittura che è essa stessa pratica politica. Pur parlando spesso solamente di “donne”, per i motivi storici che esplicita, il libro si discosta totalmente da approcci essenzialisti e appare scritto dalla prospettiva di chi tiene in mente tutte le soggettività marginalizzate e considerate subalterne dalla società patriarcale, sapendo che, per quanto importanti per la storia delle lotte che prendono la maggior parte dello spazio del libro, le posizioni del femminismo della differenza vadano superate giungendo a una prospettiva transfemminista.
L’unico modo per difendere le lotte politiche dal tentativo costante di renderle prodotti commerciali è ricordare che si nutrono prima di tutto di pratiche.
Una teoria femminista svuotata dalla pratica è un insieme di parole impalpabili e inefficaci. Il libro di Giulia Siviero allora è uno strumento utile per riprendere le fila della genealogia femminista, per liberarla dalle narrazioni neoliberali che ripuliscono programmaticamente il femminismo dalle riflessioni sulle condizioni materiali, dall’importanza della collettivizzazione di ciò che è politico; uno strumento utile per provare a riempire di nuovo quei gridi di lotta ormai svuotati dall’assimilazionismo e diventati slogan da ricamare su delle magliette.
L’unico modo per difendere le lotte politiche dal tentativo costante di renderle prodotti commerciali è ricordare che le lotte politiche si nutrono prima di tutto di pratiche, e che senza di esse, senza il loro piano materiale, non possono essere trasformative. Una delle più grandi conquiste della società neoliberale è il depotenziamento del desiderio, dell’aspirazione a un mondo migliore, a una vita bella; leggere i racconti delle pratiche femministe ci ricorda della potenza del desiderio, ci ricorda che le lotte si fanno insieme, non da sole, e che l’individualismo, la lusinga del potere e della gloria individuale, sono quanto più depotenzia le trasformazioni sociali.Fare femminismo ci ricorda anche quanto creative, gioiose, irriverenti e per questo efficaci sappiano essere le pratiche femministe.