Q ualsiasi testo narrativo, sia nella sua forma letteraria sia più esplicitamente in quella filmica, è in fondo l’evocazione di una storia di fantasmi. Rendere reale l’immateriale, visibile l’invisibile, è l’inevitabile effetto del momento di fruizione di un testo. A maggior ragione se l’opera in questione nasce con l’intento di riportare in vita un grande rimosso della storia politica di un paese, svelando in parallelo un misterioso complotto delle alte sfere militari.
Gli autori di questo tentativo medianico sono un trio di scrittori esordienti: Marco Consentino, esperto di relazioni internazionali, Domenico Dodaro, business lawyer, e Luigi Panella, avvocato penalista. La loro passione bibliofila e archivistica li porta a imbattersi in un fascicolo del vecchio Ministero dell’Africa Italiana contenente un’inchiesta segreta del 1938 sui crimini di guerra commessi da un ufficiale italiano nell’Etiopia occupata. Le numerose contraddizioni dei documenti stuzzicano la curiosità e la fantasia dei tre che progettano così un certosino lavoro di ricostruzione storica a cui segue la stesura di un romanzo polimorfo. Nasce I fantasmi dell’Impero, la stratificazione di un rigoroso impianto evenemenziale, fondato su una gran mole di personaggi reali, foto e telegrammi, riportati fedelmente nelle pagine de libro, e finzione romanzesca, con gli elementi tipici del giallo e della fiction d’avventura, imposta dal medium ma necessaria anche a colmare il lavoro di congettura degli autori.
La difficoltosa ricerca di verità si ripresenta allora anche diegeticamente nell’indagine del generale e magistrato Vincenzo Bernardi che dà avvio all’azione narrativa del libro. Bernardi, uomo “puntuale, studioso, assennato, rispettoso delle regole”, viene scelto dal fascistissimo Vice Re d’Etiopia Rodolfo Graziani – da poco sopravvissuto all’attentato di Addis Abeba del ’37 – per fermare il capitano Corvo che, come un despota, isolatosi con le sue truppe nella regione del Goggiam, sta scatenando rivolte tra i ribelli indigeni.
In pratica, pare che tutto abbia avuto origine dalle prodezze del residente di Bahar Dar, un capitano di complemento, tale Gioacchino Corvo, che ha iniziato a comportarsi in modo apparentemente inspiegabile. Gente fucilata in modo indiscriminato nei villaggi intorno, fino a quel momento pacifici. La scomparsa di meslenié e cascì poi riaffiorati cadaveri, legati e imbavagliati, nelle acque del lago Tana. Addirittura un battaglione coinvolto in una sciagurata iniziativa che ci ha fatto perdere valorosi ufficiali. Ah, naturalmente rubacchia sui talleri e nonostante i divieti si accompagna alla luce del sole con una negretta quindicenne. Fra l’altro, pare che questo Corvo sia imparentato in qualche modo con Pirzio Biroli. […] O Corvo è improvvisamente impazzito, o qualcun gli ha detto di impazzire, per mettermi in difficoltà, visto che non c’erano riusciti con le bombe.
L’attesa del fatidico incontro con Corvo, che avviene a metà precisa del libro dopo una spedizione nel deserto irta di insidie, è sfruttata dagli autori per riflettere su una delle pagine più tristi della storia italiana: la ferocia del colonialismo in Africa orientale. Una politica imperialista quella dell’Italia, iniziata prima dal neo Regno a fine ‘800 e realizzata definitivamente dal regime fascista nel ’36, le cui nefandezze tra stupri, torture e uso di armi chimiche, sono state a lungo ridimensionate (basti pensare a Indro Montanelli che in un’intervista del 1982 parlava con assoluta nonchalance della sua dodicenne sposa africana comprata per 500 lire), se non taciute. D’altronde la vulgata diffusa almeno fino al secondo dopoguerra era quella degli “italiani, brava gente”, tanto che anche il mondo dell’editoria, ad eccezione di pochi autori come Ennio Flaiano con il suo Tempo di uccidere (primo Premio Strega nel 1947), o più tardi Carlo Lucarelli con L’ottava vibrazione (2008), non ha mai analizzato con lucidità “l’orrore” del colonialismo italiano.
Questo tenta di fare, soprattutto nella prima parte, il romanzo di Consentino, Dodaro e Panella, anche meta-letterariamente. L’oscuro alone di mistero che circonda il capitano Corvo non può quindi che risultare un’emanazione della “wilderness” di Kurtz, l’anti-eroe del capolavoro conradiano Cuore di tenebra (1899), manifesto letterario per antonomasia della critica alla sedicente cultura civilizzatrice occidentale. Anche se il comune contesto bellico avvicina I fantasmi dell’Impero forse più ad Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola, la declinazione cinematografica dell’opera di Conrad.
Allo stesso modo Vincenzo Bernardi e il suo fedele sottotenente Vittorio Valeri – oltre allo sciumbasci Welè Ghida che li accompagna per una parte del viaggio – sembrano provvisti dello stesso acume e della stessa sensibilità del Marlow di Conrad. Proprio come il protagonista di Cuore di tenebra, che non è poi altro che un alter ego dello scrittore britannico, Bernardi e Valeri si configurano come un’anomalia del sistema, mossi da una ferrea etica del lavoro che nel loro caso si traduce in uno scrupoloso rispetto del diritto, seppur in un contesto autocratico che non sembrano mai mettere in discussione. Questa è una strategia di difesa che gli permette di salvaguardare la propria umanità dall’abisso delle atrocità e della giustizia sommaria che ufficiosamente si compiono, anche a guerra ultimata:
La guerra aveva soltanto cambiato nome. Era diventata polizia coloniale. […] Quando era centurione non ne aveva mai avuto bisogno, di processi, e da maggiore erano cambiate pochissimo, quasi niente le cose del mondo. Sempre di guerra si trattava. Per lui, dall’Etiopia del 1935, la guerra fascista era durata quasi nove anni.
La posta del viaggio dei due ufficiali verso Corvo dunque non è solo conoscitiva (riguardo le vere intenzioni del capitano e riguardo il diffuso arrivismo che sembra la fonte primaria dei soprusi) ma anche e soprattutto auto-conoscitiva: il risultato è una consapevolezza rassegnata, velata da un amaro disincanto.
Ho passato la vita a inseguire la verità, ma quella che ho trovato è stata spesso solo verità intuita. […] Perché, vedi, tra la verità storica, i fatti realmente accaduti, e quella processuale, quella che si può accertare attraverso le prove, in un processo, secondo certe regole, io… Io ho sempre preferito la prima, eccome se l’ho preferita… ma ora mi diventa chiaro che l’unica verità possibile è quella relativa, umana, imperfetta. La verità assoluta, in nome della quale tante volte abbiamo ucciso, è inaccertabile e inaccettabile. Devo ammetterlo e lo ammetto: ho cercato la verità anche in fondo a grida di dolore, sempre credendo di essere nel giusto, mentre avrei dovuto accettare il rischio di fallire.
Il colloquio con il presunto capitano ribelle non riesce a essere risolutivo, i dubbi e le incertezze si moltiplicano, e il libro comincia a prendere gradualmente le distanze dalle atmosfere d’avventura esotica alla Salgari per meglio delineare i contorni di una grande spy story che concerne congiure interne allo Stato, tra Regio Esercito e comparto fascista. Forse gli autori trascinano però questa affascinante teoria dei complotti un po’ oltre, fino alla conclusione del romanzo (che si chiude a metà degli anni ’50), anche quando le pedine in campo e le loro trame erano state già svelate chiaramente al lettore, e la suspense ormai ampiamente smorzata.
Bernardi e Valeri invece – non a caso i due personaggi più complessi e per questo gli unici a essere ritratti anche all’interno di quadretti sentimentali – dovranno confrontarsi fino all’ultimo con la loro ossessione solipsistica di verità e giustizia, districandosi nei grovigli di una realtà storica, come quella novecentesca, sempre meno intelligibile.
“La verità… Rischia di aver aspettato troppo. Viviamo in un altro mondo, diverso da quello che abbiamo conosciuto. Il nostro tempo è finito, Bernardi. Il mio e anche il suo. Siamo due fantasmi”. Il generale non pensava di essere un fantasma. Anzi, si sentiva vivo come forse non gli era capitato mai, ma lo assecondò con una battuta: “Allora sono venuto a farmi raccontare una storia di fantasmi, Eccellenza”.