N ell’Ottocento, il medico abolizionista James McCune Smith pubblicò su una rivista afroamericana una serie di bozzetti, brevi ritratti dal titolo The Heads of the Colored People. L’intento era dare una rappresentazione umoristica delle vite della gente di colore in America, in un periodo storico antecedente alla lotta per i diritti civili.
Facce di colore dell’esordiente Nafissa Thompson-Spires (edizioni Black Coffee, traduzione di Massimiliano Bonatto) si rifà esplicitamente a quei bozzetti ottocenteschi, per aggiornare l’indagine sulla popolazione nera americana ora munita degli stessi diritti della popolazione bianca, almeno in via teorica. “Al pari dei bozzetti originali”, scrive Thompson-Spires in una nota al testo, “questi racconti trattano pur sempre di cittadinanza nera negli Stati Uniti, della classe media nera e del futuro degli afroamericani in momenti cruciali dal punto di vista sociopolitico”.
Questa cittadinanza nera è composta da studenti di dottorato, madri psicanaliste, YouTuber di successo, figlie di imprenditori che frequentano scuole private a maggioranza bianca. Malgrado la dichiarazione d’intenti programmatica (è un libro sui “black nerd” ripete Thompson-Spires nelle interviste) e il parterre di personaggi che sfiora la caricatura (come nel caso della donna bianca protagonista del racconto “Materia di consumo”, che a un certo punto esclama: “Non troverete mai un’altra madre distaccata e poliamorosa con una famiglia interrazziale di fruttariani”), nei racconti di Nafissa Thompson-Spires i corpi neri sono ricollocati nel contesto sociale in modo acuto e con immagini fulminanti. Come nell’episodio che apre la raccolta:
Riley portava lenti a contatto azzurre e si ossigenava i capelli – che certe mattine modellava con gel, fon e piastra nell’acconciatura di Sonic il Riccio, con le punte così dure da bucarti le dita, altre in un caschetto vaporoso con frangia lunga pettinato da una parte – ed era nero. Però non è che lo facesse per odio di sé.
O in quello che vede co-protagonista una ragazza nera albina:
Da una parte l’albinismo faceva di lei una persona desiderabile per la pelle chiara, il colore dei capelli e degli occhi, e dall’altra una persona disprezzata per una percepita falsità fisica. Fatima si era accorta che la gente guardava Violet due, tre volte prima di decidere dove incasellarla, per capire se potesse godere o meno dei vantaggi della bianchezza.
La fisicità nera è descritta e commentata, diventa il soggetto di una meta-discorso che i personaggi intrattengono con sé stessi, con gli amici, la famiglia, la comunità. La nerezza dei corpi spicca in un mondo privilegiato bianco, mette in discussione i rapporti di potere e i vincoli di solidarietà. È modificata, nascosta, negata; ma anche cercata. La protagonista del racconto “Il biloquio di Fatima: una storia di trasformazione”, è un’adolescente insicura, che “aveva vissuto come una specie di gas incolore, o un vapore umido”. Sono gli anni Novanta e “tutti potevano essere qualunque cosa (lo avevano detto al telegiornale), e nel 1998 Fatima era pronta a diventare nera, nera nera, neee neee nera di pecora nera, nera come il nero su gomiti e ginocchia di chi prega – se solo qualcuno glielo avesse insegnato”. Quel qualcuno è Violet, la ragazza nera albina di cui sopra, che frequenta la scuola pubblica e le può insegnare lo slang, come vestirsi, qual è la musica giusta da ascoltare. Più Fatima diventa nera – seguendo le dritte di un’afroamericana che di primo acchito sembra bianca –, più attraente diventa per i suoi compagni di scuola bianchi; un paradosso che la renderà di nuovo “vapore incolore”.
Il corpo è nero ma anche difettoso, malato, malfunzionante. È l’endometriosi che fa sanguinare Fatima o il feticismo di Kim, la scultrice, per gli uomini con gambe deformi o amputate, che erroneamente immagina come “dei tagli puliti, la pelle dei moncherini color noce cerato. Erano come le cuciture di una palla da baseball con croste di argilla, nero-bruniti, rugosi”, in un racconto che ricorda altre scrittrici spietate di corpi, come Mariana Enriquez o Carmen Maria Machado.
I racconti di Thompson-Spires sono veloci, filano senza incontrare ostacoli; sono spesso paradossali, narrati con un umorismo serrato che può rasentare l’esasperazione. I più cinici fanno pensare a una serie di battute senza relief comico, usate come un meccanismo di difesa tanto nelle dinamiche dei personaggi quanto nella scrittura dell’autrice. Nell’ultimo racconto della raccolta, “Pulisci le ossa”, il velo dell’umorismo si alza e lascia vedere tutto il potenziale della scrittura di Thompson-Spires quando affronta le scene di petto.
Alma fa l’infermiera a Chicago; come secondo lavoro canta ai funerali della comunità afroamericana, spesso di giovani uccisi dalla polizia. La vita di Alma è una summa di corpi: i feriti in ospedale e i morti ai funerali, il bebé malaticcio, i fantasmi che – come in un romanzo di Toni Morrison – la visitano di notte durante gli attacchi di panico. Nel descrivere questa esistenza a contatto quotidiano con la disperazione, Thompson-Spires rallenta e riesce a bucare il distacco ironico instaurato con il lettore:
Alma aveva immaginato la vita come qualcosa di sensuale: tasti, corde, fili che nella combinazione giusta producevano accordi bellissimi, blues lenti e lacrimosi. Adesso era fatta di strilli nel cuore della notte e piagnucolii senza preavviso. Era tutta corpi: quelli che arrivavano in reparto crivellati di proiettili, ragazzini di undici, dodici anni con le felpe fradice, e quelli vestiti per i funerali, con i fori tamponati e coperti da abiti eleganti, spesso comprati all’ultimo minuto da madri che faticavano a mettere in tavola un piatto di spaghetti in bianco.