“U n tempo mi chiedevo cosa fosse davvero la libertà creativa. Se avessi potuto scrivere di qualsiasi argomento, cosa avrei scritto?” ricorda Teju Cole nell’introduzione al suo ultimo libro, appena pubblicato anche in Italia. La risposta sta nella selezione dei saggi inclusi in L’estraneo e il noto (Contrasto, 2018, traduzione di Gioia Guerzoni), raccolti lungo otto anni di riflessioni sui temi più vari, dalle cronache di viaggio ai ritratti di altri scrittori, fino agli articoli di critica fotografica scritti per il New York Times.
Nato negli Stati Uniti da genitori nigeriani, trasferitosi nel paese d’origine a pochi anni d’età e poi tornato di nuovo in America per gli studi universitari, fin dai primi romanzi Teju Cole ha infuso le sue opere di questa geografia personale. In Ogni giorno è per il ladro e Città aperta i protagonisti accompagnano il lettore in un pellegrinaggio attraverso le città dei paesi d’origine dell’autore, Lagos in Nigeria e New York negli Stati Uniti. In questa raccolta di saggi l’esplorazione si amplia ancora, e ci si ritrova a camminare tra i pensieri di Cole che intrecciano biografia, letteratura, fotografia, politica, storia, musica, seguendo il filo rosso di alcuni temi trasversali.
In “Corpo nero”, che apre la raccolta, Teju Cole racconta un soggiorno a Leukebard, il paesino svizzero dove James Baldwin trascorse un periodo agli inizi degli anni Cinquanta. A quel tempo, nessuno tra quelle montagne aveva visto un uomo nero. Il racconto diventa un’occasione per riflettere sui corpi estranei, sulla storia e l’eredità della cultura africana in America, e soprattutto sugli sguardi: alle terme, al ristorante, per le strade della cittadina, Cole si rende conto che “essere stranieri significa attirare sguardi, ma essere neri significa essere guardati in modo particolare”. L’eco dello stesso ragionamento si ritrova nel saggio “Un’immagine fedele della pelle nera”, in cui Cole analizza i limiti tecnici che hanno condizionato i ritratti di soggetti neri nella storia. In controtendenza rispetto alla cultura mainstream, il lavoro di fotografi come DeCarava ha aggirato gli ostacoli di emulsioni ed esposimetri, calibrati su pelli chiare, per dare un’espressione più realistica della pelle scura:
Invece di illuminare il nero, lo scuriva ancora di più, andando contro le aspettative dell’osservatore. Il nero non è né spento né vuoto, anzi: contiene una luce forte, saggia che, con un’osservazione paziente, può aprirsi allo splendore.
Benché scritti nel corso di un decennio, i capitoli di L’estraneo e il noto sono attraversati da una domanda ricorrente: Come vediamo gli altri? In che modo il nostro sguardo li rende altri? È una spinta che corre sotterranea in tutti i saggi e li modella, ma che emerge con più forza e chiarezza in alcuni capitoli. In “Contro la neutralità”, un articolo scritto nel gennaio 2016, a proposito delle immagini di guerra, Cole sottolinea:
La macchina fotografica è uno strumento di trasformazione. Può rendere ciò che vede più bello, più orribile, più blando, più cupo, riuscendo contemporaneamente a insistere sulla semplice realtà della sua rappresentazione.
Uno sguardo non è mai imparziale. Opera sempre una selezione, sposta l’attenzione dell’osservatore, include inevitabilmente alcuni aspetti e ne esclude altri. In “Un’immagine troppo perfetta”, Cole analizza le celebri foto di Steve McCurry, concentrandosi in particolare sul volume India: “ci sono feste hindu, uomini in turbante, donne col sari, monaci in tunica rossa, baffi elaborati, lunghe barbe, bambini straordinariamente espressivi, canoe rudimentali in paesaggi mozzafiato”. In questa serie di foto, scattate in più di trent’anni, emerge la ricerca di un’India passata, di un ideale occidentale di autenticità, di un certo tipo di “indianità” che esclude le sue forme più moderne:
Qualsiasi fotografia racchiude tra i suoi confini solo una parte del mondo, ma una sequenza di foto, scattate nel corso degli anni e organizzate con cura, rivela una visione del mondo. […] Adagiarsi su una nozione di autenticità che esclude il presente, non significa semplicemente offrire una verità alternativa: è indulgere nella fantasia.
Lo sforzo di Cole consiste allora nel sottolineare il pregiudizio dello sguardo, il cliché automatizzato, reso invisibile dall’abitudine, e per questo ancora più subdolo. Affidandosi a una scrittura accurata, a descrizioni dettagliate, minuziose, che smontano e rimontano un libro, una fotografia, una situazione, Cole cerca di mettere un argine alla forza distruttiva dei cliché, di rivelare l’intenzione dietro a uno sguardo o a una composizione di parole. Questa attenzione si vede ad esempio nel saggio dal titolo “Ritratto di signora”. Cole paragona le foto scattate in Africa occidentale per uso privato da fotografi locali e quelle realizzate dagli antropologi europei tra l’Ottocento e il Novecento. La differenza si nota in particolare nei ritratti delle donne:
Un’opera di Sidibé in particolare mi affascina sempre: una donna sola, in piedi, in blusa senza maniche e gonna alla caviglia. Porta i sandali, orecchini pendenti, i capelli legati in piccole trecce compatte sul cranio. Lo sguardo che rivolge alla macchina fotografica è diretto. In effetti, non è del tutto sola: alla sua sinistra si intravedono la spalla e il braccio di un uomo. Vediamo anche la scarpa e la gamba destra, ma il resto è stato cancellato durante la stampa. Sul bordo di carta marroncina che incornicia la fotografia si legge: “Je veux être seule. 1979 – Malick Sidibé”.
Le considerazioni sullo sguardo e sulla fotografia devono molto a John Berger, che non a caso è citato in uno dei saggi (citando una discussione con una guardia della National Gallery di Londra, Cole approfondisce il rapporto tra disegno e testo nelle opere del filosofo inglese). Questo meccanismo non si limita alla fotografia o la scrittura, ma investe tutte le sfere dell’arte: lo sguardo esclude e accoglie, evidenzia e nasconde. Uno sguardo neutrale non è possibile, ma una volta accettato criticamente questo fatto, si apre la possibilità di altri mondi. A ogni opera ne corrisponde un’altra, potenziale e non realizzata. Come scrive Cole, sempre nell’introduzione:
Negli anni in cui ho scritto questi saggi, ho riflettuto molto sulla poesia, la musica, la pittura, ho viaggiato in decine di paesi e conosciuto molti artisti interessanti di cui non ho scritto, o di cui ho scritto qualcosa che però mi ha lasciato insoddisfatto. C’è un altro libro possibile, che contiene tutto ciò che non è incluso in questo.