L’
anno scorso, al trentacinquesimo Congresso Internazionale di Geologia si sono discussi i risultati del Working Group on the Anthropocene: è stato sancito che siamo definitivamente entrati in una nuova era geologica riconoscibile per le tracce stratigrafiche uniche che sta lasciando, la conferma – una delle più importanti – del ruolo che Homo sapiens sta giocando sul pianeta che abita, con conseguenze determinanti sull’idea che abbiamo del futuro.
Secondo il filosofo Günther Anders, uno dei pilastri della riflessione di Danowski e Viveiros de Castro, l’“assenza di futuro” era già iniziata con Hiroshima e Nagasaki, quando cioè la scienza ha conosciuto il peccato. Si è trattato dell’inizio di un processo di cancellazione del futuro che ha progressivamente sgretolato la fiducia in un avvenire migliore e l’idea di progresso di stampo positivista che hanno dato forma all’ottimismo che la società occidentale ha fuso con il modello economico capitalista. A interessare i due autori è soprattutto l’aspetto dell’immaginario e della mitografia della fine che si è profondamente trasformata dal secondo Novecento a oggi. “Tutta questa fioritura disforica va controcorrente rispetto all’ottimismo ‘umanista’ che predomina nella storia dell’Occidente da tre o quattro secoli a questa parte”, scrivono. Un ragionamento che echeggia, quindici anni dopo, quello del filosofo Slavoj Zizek che ha intitolato proprio Benvenuti nel deserto del reale il suo libro “a caldo” sull’immaginario dell’11 settembre. L’abbondanza di visioni distopiche, come quelle di Philip K. Dick e China Mièville, oggi più che mai sono saldate con una precarietà e una incertezza quotidiane che paiono annunciare
qualcosa che sembrava escluso dall’orizzonte della storia in quanto epoca dello Spirito: la rovina della nostra civiltà globale in virtù della sua stessa incontrastata egemonia, una caduta che potrebbe coinvolgere considerevoli porzioni di popolazione umana.
L’ingresso nell’Antropocene sancisce anche scientificamente questo cambio di prospettiva, con una serie di nuovi interrogativi sul ruolo dell’uomo nel mondo e sul rapporto tra la nostra specie e il pianeta. La principale implicazione filosofica è il sostanziale crollo di una separazione classica, quella tra l’ordine cosmologico e l’ordine antropologico, che nel pensiero occidentale esiste da secoli. “La trasformazione degli umani in forza geologica, ovvero in un fenomeno ‘oggettivo’, in un oggetto ‘naturale’”, scrive nel 2013 un altro dei pilastri di Esiste un mondo a venire?, Bruno Latour, “paga il prezzo dell’intrusione di Gaia nel mondo umano, dando al Sistema Terra la forma minacciosa di un soggetto storico, di un agente politico, di una persona morale”. Come a dire che è precisa responsabilità dell’uomo se l’ambiente che finora ha sostenuto la vita e la prosperità della specie si è tramutato in una minaccia per la sua stessa esistenza: l’illusione che proprio l’ambiente potesse essere trattato alla stregua di un prolungamento meccanicistico del sistema capitalistico, e in quanto tale gestibile e oggetto di management, è definitivamente crollata.
Oltre a questioni metafisiche, come quelle toccate dal passo di Latour citato qui sopra, nel libro di Danowski e Viveiros de Castro c’è ampio spazio per un’analisi di come sia cambiata la percezione dello scorrere del tempo a causa di questi cambiamenti di prospettiva. Perché le domande sul futuro e la fine del mondo portano inevitabilmente con sé quelle su quando tutto ha “iniziato a finire”. Secondo il biologo Peter Ward, per esempio, “la vita sulla Terra è condannata all’estinzione molto prima che il riscaldamento globale e l’espansione del Sole rendano la Terra troppo calda per la vita”. Se è vero che al Big Bang da cui l’Universo ha avuto origine corrisponde anche il suo inverso, il Big Crunch, allora la condanna era già emessa: la fine è sempre stata inscritta nella storia del cosmo. Un nichilismo che rende vuoto di significato ogni tentativo di contrastare con la decrescita, le tecnologia, la politica o altro un destino già scritto. Secondo gli autori però, questo tipo di posizione sarebbe semplicemente una vana assoluzione che potrebbe sollevarci dal lato morale dell’autodistruzione, senza cambiare i pesi delle responsabilità.
L’appello che i due filosofi brasiliani lanciano è quello a una resistenza all’Antropocene, un tentativo di sottrarre l’idea collettiva di futuro che va oggi modellandosi alla logica del sistema occidentale che ci ha portato fino a qui. Citano la filosofa Isabelle Stengers, e un passo dal suo Au temps des catastrophes del 2009, che sostiene l’impossibilità di trovare “un accordo essenziale con Gaia finché non ci si convincerà che non è possibile alcun accordo con la logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo”. Gli appelli lanciati una quarantina di anni fa da Rachel Carson e gli altri fondatori dell’ambientalismo moderno non hanno perso di vigore e rilevanza perché non vi abbiamo risposto, ma al contrario stanno oggi mostrandosi come fulcro della nostra idea di futuro, se ne vogliamo davvero avere uno.