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ducandato di Dolores Prato racconta l’esperienza vissuta dall’autrice in collegio, a Treia, presso il monastero di Santa Chiara retto da monache della Visitazione, tra il 1905 e il 1911, dai tredici ai diciannove anni. La materia è autobiografica e letteraria al tempo stesso, ed è raccontata a distanza di più di settant’anni dai fatti. Si tratta di una specie di monacazione forzata: sebbene alla ragazza non si imponga di diventare monaca, viene messa in collegio solo “per essere educata” e introdotta nell’ambiente delle signorine titolate che frequentano l’istituzione. Ma l’ingresso in collegio è raccontato in termini quasi allucinati come un passaggio irrevocabile, un rito di espulsione e insieme di reclusione: espulsione dalla Casa Gentilizia in cui aveva trascorso l’infanzia e reclusione nel Monastero, un luogo estraneo e incomprensibile destinato a sfigurare una volta per sempre la personalità della scrittrice. Così l’incipit del romanzo:
Un battente del gigantesco portone si stava schiudendo e di questo fui cosciente; lo tirava una piccola monaca, la Superiora, e quando fu aperto gli rimase attaccata come una sua appendice.
“Questa è Lolita”, disse la zia. Varcai la soglia e fatti due passi, rigida come un automa, mi fermai senza pensare di voltarmi indietro per salutarla con uno sguardo.
Davanti a me, in penombra, il gruppo delle educande immobili come se fossero di cartapesta. Alle mie spalle il contemporaneo rumore di opposti catorci e paletti mi disse che ero già isolata dall’altro mondo.
Non soffrivo e non capivo, ero spezzata. Avevo spezzata me stessa quando spezzai il pettine.
Il pettine che Dolores ha spezzato è quello con cui la zia usava pettinarla nella vita precedente, in quell’infanzia già segnata dal senso dell’abbandono (la madre, nobile e spiantata, l’ha affidata agli zii Ciaramponi, ovvero uno zio prete e la sorella) narrata in Giù la piazza non c’è nessuno, uscito per Einaudi nel 1980. Qui, all’inizio di Educandato, il pettine è il primo esemplare di quella sorta di poetica degli oggetti che regola la scrittura di questo libro singolare e conturbante. Sarebbe inutile infatti ricercare nel testo i tratti convenzionali del genere autobiografico, per esempio la successione cronologica o il privilegio dell’io nell’interpretazione dei fatti. Al contrario la chiave sembra essere in quel “non soffrivo e non capivo” pronunciato all’inizio che viene in seguito ribadito e riformulato più volte come effetto permanente dell’amputazione iniziale, di un “terrore” che agghiaccia e distacca il soggetto dal mondo che lo circonda. In coerenza con questo presupposto (“Io non vedo nulla della psiche delle persone, non vedo il perché dei fatti, vedo solo quel che appare”), il racconto si snoda con movenze che possono ricordare la “scuola dello sguardo”, ma senza ingombri teorici, o come un tentativo di esaurire ossia descrivere fino in fondo l’educandato, il luogo fisico e le sue abitanti, gli usi e costumi, i passatempi, le festività, regolarmente inquadrati da un punto di vista ad alzo zero, all’altezza delle cose che cadono davanti agli occhi dell’osservatrice.
L’impressione di leggere un qualcosa che somiglia a una memoria giudiziaria, una testimonianza resa nel tono asciutto di una vittima che vuole dire tutto proprio perché non sa spiegare che cosa le è successo.
La natura labirintica e persecutoria dell’istituzione trova così un corrispettivo nella morfologia dell’edificio, pieno di scale, dislivelli, anditi e porte che non mettono da nessuna parte: “Ero entrata dal portone in cima all’interminabile scalinata, ma quando tentai la fuga lo feci da un portone a livello della strada; il Dormitorio sbucava dai tetti e il Refettorio affondava tanto giù che al suo livello c’era la porta oltre la quale si scendeva nelle grotte”. L’occhio atterrito della narratrice tenta di registrarlo per intero in uno sforzo che evidentemente sostituisce la descrizione (il riconoscimento) alla comprensione. “Per orientarmi in questo groviglio di dislivelli” scrive “invento la linea del mare così potrò fare come si fa con quelli della terra le cui diverse altezze si misurano partendo dalla linea del mare”. Per tutto il testo quindi si faranno dei calcoli a partire dalla “Galleria-linea di mare”, saremo sotto o sopra, dentro o fuori, in uno spazio dalla geometria inesplicabile in cui, come scrive Nabokov nella Difesa di Lužin, “le linee terrestri perdono il senno”.
Il presente volume è una nuova edizione, basata su diverso testimone, del testo uscito nel 1987, pochi anni dopo la morte dell’autrice, col titolo di Le ore. L’edizione attuale ha il merito di presentare, oltre a una lezione attendibile e ad alcune Pagine ritrovate nel magma delle carte di Prato, un apparato di commento e notizie che fornisce a chi legge tutto quello che serve per entrare nel libro e restare ammirati dalla vertiginosa complessità di questa narrazione all’apparenza povera e feriale, senza scene vivaci, senza psicologia, dettagliata fino all’ossessione e tuttavia slogata come un lungo sogno. Tra le molte indicazioni illuminanti fornite dalla curatrice Elena Frontaloni c’è il carattere parzialmente orale del testo, che veniva dettato dall’autrice ormai anziana a diverse dattilografe più o meno informate sulle vicende e sui realia evocati nella narrazione: personaggi, lessico, luoghi, situazioni.
Questo contribuisce a spiegare i tratti epico formulari dello stile, i ritorni, la divisione in “lasse” del narrato, e rende anche ragione della strana apparenza di impersonalità in un racconto incentrato interamente sull’io dell’autrice. L’impressione di leggere un qualcosa che somiglia a una memoria giudiziaria, a una deposizione o a una testimonianza resa nel tono asciutto e fattuale di una vittima che vuole dire tutto proprio perché non sa spiegare fino in fondo che cosa le è successo. Di qui la preferenza accordata alla descrizione di ambienti, architetture, congegni, azioni e oggetti pertinenti alla cultura materiale del collegio: la pulitura delle lampade, l’impasto del pane, l’abbigliamento delle monache e delle educande, ecc. Il grado di dettaglio è del tutto indipendente dall’effettiva consistenza dell’azione o dell’oggetto, perché in un mondo che non si capisce tutto è potenzialmente significativo e il soggetto non può che imparare a memoria il maggior numero possibile di lemmi, ovvero parole e gesti, atteggiamenti, in una spinta all’assimilazione costantemente rigettata indietro:
Avevo sempre fatta la effe minuscola con la pancia davanti; esse gliela mettevano dietro e con un bell’angolo appuntito a metà. Mi sforzai tanto a storcere quella benedetta effe, che riuscii a farle la pancia dietro, ma rotonda, senza punta. Le loro non erano pance, erano triangoli e quei triangoli applicati a ogni lettera possibile, era una scrittura tutta punte la loro. Non so se fosse la moda o un vezzo del collegio. Ma anche lì fui sola, non arrivai mai più in là che alla pancia della effe, dietro invece che davanti. Non c’era niente da fare, ero diversa.
Nella distanza che si crea fra lo sguardo dell’io – rifiutato, diverso, incompetente, inadattabile – e il mondo in cui dovrebbe ambientarsi, tutto acquisisce dimensioni enormi, i personaggi acquistano una specie di aura mitica che si incrementa nella stratificazione del tempo, nella distanza di anni (quasi ottanta) tra i fatti e il momento in cui vengono raccontati. L’effetto è di rara potenza e se gli intenti accusatori di Prato non sono in discussione (“… il disastro vero lo fece il collegio. Su quello io sparerò”, scrive a Lina Brusa Arese nel 1977), la tessitura letteraria del testo trascende di gran lunga la denuncia sociale di un ambiente (la nobiltà declassata di provincia, il suo feroce senso del decoro) o di un’istituzione “totale”. Il collegio si presenta piuttosto come una grande allegoria “opaca” del male e dell’incomprensibile, con al centro la figura grandiosa e ambivalente della Madrina, donna piccola e determinata, capricciosa come tutti i tiranni, capace di elevare o di abbattere con uno sguardo o con un gesto della mano. La geometria impossibile del monastero, le descrizioni follemente minuziose di operazioni minime, la sterilizzazione o eliminazione di qualunque forma di vita spontanea – i maggiolini, le farfalle, la terribile scena del cervo volante, quella ancora più atroce dell’uccisione della gatta – sono altrettante emanazioni di questa distorsione fondamentale del mondo, della sua logica meccanica e aliena.
L’educanda è un’eterna straniera, eterna balbuziente, una che deve girarsi e rigirarsi a lungo le parole nella testa per cercare di comprenderle.
In questo senso si può leggere anche il titolo di Educandato scelto per questa edizione; per le valide ragioni “economiche” addotte dalla curatrice (è il semplice scioglimento della sigla Ed. sotto cui Prato raggruppava i materiali pertinenti al romanzo) e perché “ha il pregio di indicare sia il luogo, sia l’istituzione, sia il processo che l’autrice riconosce come principali responsabili della propria (e altrui) ‘deformazione religiosa’”. Un processo che in fondo non ha fine. Non a caso la parola suscita l’eco di Kafka e riporta alla mente le sue macchine crudeli e congegni incomprensibili.
Educandato è quella condizione umana di minorità dove si resta sospesi nell’attesa incolmabile di perfezionarsi fino a raggiungere una piena condizione di cittadinanza. L’educanda è un’eterna straniera, eterna balbuziente, una che deve girarsi e rigirarsi a lungo le parole nella testa per cercare di comprenderle. Un corollario inevitabile di questa posizione è, da parte dell’autrice empirica, l’inadattabilità all’ambiente letterario, alle misure e tempi editoriali, con la tendenza tipica di tanto Novecento all’incompiutezza per gigantismo dei progetti: cinque libri autobiografici nelle intenzioni di Prato più o meno ottantenne, di cui il primo (Giù la piazza non c’è nessuno) constava di 1058 cartelle crudelmente tagliate dalla redazione Einaudi per renderlo “pubblicabile”. Il secondo capitolo era questo Educandato rimasto incompiuto a causa della morte dell’autrice, interrotto in un punto qualsiasi a metà di una frase la cui ultima parola, per una strana combinazione, è “sempre”: “Non so se lo facesse con le altre, ma con me chiacchierava, mi diceva dei suoi malanni con sempre…”.