I l pensiero ecologico moderno matura negli anni Settanta e Ottanta alimentato, almeno in parte, dall’onda lunga e la grandissima risonanza di libri pionieristici come Primavera silenziosa di Rachel Carson (1962), che per primo aveva raccontato i danni di DDT e fitofarmaci sull’ambiente e la salute umana.
Durante le sue prime manifestazioni, il movimento ambientalista inizia un’analisi dello stato del pianeta partendo da innumerevoli spunti e intuizioni spesso governati da ricerche scientifiche, a volte da approcci mistici, altre da una mescolanza propria o impropria delle due cose. Ognuna di queste visioni del mondo ha la sua analisi, i suoi scenari, le mappe su cui costruire una “soluzione” ai problemi ambientali.
A detta del suo primum movens, il filosofo Arne Næss, la nuova ecologia profonda, riconosce in Primavera silenziosa un importante punto di partenza. Ma in questa nuova concezione del mondo confluisce anche il pensiero di Paul Ehrlich, ambientalista e biologo che vede nella sovrappopolazione il problema per eccellenza del nostro pianeta. Ma tante altre e più vaste sono le radici di questo eterogeneo sottobosco ambientalista: nella costruzione delle teorie e degli approcci scientifici – o a volte pseudo tali – che confluiscono nella galassia del “salviamo il pianeta” non è possibile ignorare infatti le fotografie della Terra vista della Luna, un certo “luddismo ecologista”, la volontà del ritorno alla natura e il rifiuto della tecnologia come soluzione a tutti i mali. Fino ad arrivare a volte a respingere in toto anche la scienza, l’imperfetto – ma forse unico – strumento di conoscenza del mondo, e rifugiarsi nella ricerca di in un’inesistente età dell’oro che precede la corruzione portata dalla conoscenza della natura.
A questa miscela vanno aggiunte le suggestioni escapiste e fantascientifiche che affiorano già alla fine degli anni Sessanta nella cultura pop, per esempio in brani della musica della west coast come Wooden ships di Crosby, Stills & Nash o in tutto l’album Blows against the empire dei Jefferson Starship. Dal punto di vista scientifico, poi, non può non entrare nel mosaico della nuova visione ecologica del mondo anche la teoria di Gaia, di James Lovelock, formulata nel 1979 con le sue basi di stretta osservanza scientifica uniti a successivi connotati olistici e mistici: secondo la sua prima formulazione, il pianeta Terra sarebbe un unico organismo vivente in cui i microorganismi e loro componenti inorganiche sono intimamente legati a formare un unico sistema complesso che si autoregola per garantire le condizioni di vita sul pianeta. Lovelock rivoluzionò per qualche anno la visione che la scienza aveva del nostro pianeta, ipotizzando che la vita fosse in grado di adattare le variabili della Terra ‒ temperatura, pH, composizione atmosferica e altro ‒ alla propria esistenza.
Murray Bookchin è stato un pensatore eclettico e originale, che ha unito analisi politiche in senso stretto ad attivismo ambientalista e riflessioni di filosofia e urbanistica.
Insomma, l’ondata ecologista è in realtà un fiume dagli innumerevoli meandri e dal corso anastomizzato che all’inizio non riesce ad avere un impatto sulla politica di tutti i giorni e sulle visioni di programmazione decennali dei grandi enti, e vede spesso personaggi e documenti in contrasto fra di loro. Un esempio è il dibattito tra Barry Commoner, biologo e teorico dell’ecologismo, e il già citato Paul Ehrlich. Il primo rimprovera al secondo la sua insistenza ed enfasi verso la sovrappopolazione come radice di tutti i “mali ecologici”. L’approccio di Commoner alla risoluzione dei problemi del pianeta è ben diverso. Nei suoi libri, Commoner insiste spesso per un approccio molto più globale ai problemi ambientali, che coinvolga anche aspetti che molte associazioni e ideologi hanno sempre dimenticato. Suggerisce una ristrutturazione delle economie che vada incontro alle leggi dell’ecologia, ed è tra i primi a divulgare il concetto di sostenibilità.
Commoner è paragonabile, in questo, a un altro pensatore, cui si deve un pensiero forse ancora più organizzato e completo, ancorché a volte eccessivamente affastellato e di suggestioni con altre filosofie: Murray Bookchin. Bookchin (New York, 1921 – Burlington, 2006) è stato un pensatore eclettico e originale, che ha unito analisi politiche in senso stretto ad attivismo ambientalista e riflessioni di filosofia e urbanistica. Il suo libro più famoso, di cui è uscita da poco la settima edizione a cura della casa editrice Elèuthera, è L’ecologia della libertà (traduzione di Amedeo Bertolo e Rossella Di Leo), pubblicato per la prima volta nel 1982. È un denso volume di oltre 500 pagine in cui dispiega una serie di conoscenze, ipotesi, proposte e invettive che ben illustrano non solo il suo pensiero ma anche (e forse soprattutto) il clima culturale che ho descritto all’inizio.
L’ecologia della libertà ripropone una lunga e circostanziata storia dell’umanità, dalle origini in Africa al trionfo della civiltà occidentale “razionale”, il tutto visto con una prospettiva che si potrebbe definire socio-ecologica. Il punto focale del libro, il nucleo attorno a cui gira tutto, è questo: la lunga e tormentata storia degli esseri umani è nata secondo Bookchin da tribù ecologicamente integrate con l’ambiente circostante, popolazioni naturali per così dire, ed è sfociata in un sempre più netto approccio di dominio dell’uomo sulla natura. Bookchin rintraccia le origini di questa deriva nella divisione in “classi” in cui gli esseri umani hanno organizzato le loro società, dapprima con semplici cesure tra giovani e vecchi e, soprattutto, tra uomini e donne. Queste divisioni avrebbero portato, con l’andare del tempo, all’introduzione di posizioni di dominio e di gerarchia, di classificazioni migliore-peggiore e di un’inconscia scala naturae.
La gerarchia che si è creata con l’andare dei millenni non è stata solo tra uomo e donna, anziani e giovani, ma anche tra dominanti e sottoposti, religiosi e laici (le conoscenze d’epoca non consentono all’autore una precisione estrema, e molte delle ricostruzioni sono ipotetiche e a volte corrispondono poco a quanto sappiamo oggi della storia della nostra specie, ma non si può certo fare una colpa a Bookchin di queste mancanze). Quando si arriva infine alla rivoluzione agricola, il libro spiega come il dominio si approfondisce, le classi sociali si irrigidiscono e complessificano. È questo cambio della struttura sociale, spiega Bookchin, che consente un indubbio progresso materiale, permette e giustifica al tempo stesso la marginalizzazione dei deboli, i giovani, le donne e le minoranze. Uno schema di conquista e oppressione che secondo Bookchin si è ripetuto pari pari anche nei confronti della natura, degli ecosistemi che hanno ospitano la nostra specie nelle lunghe peregrinazioni dalla culla africana alla punta della Patagonia o alle ultime isole del Pacifico.
Circa dieci anni prima di L’ecologia della libertà uscì un altro libro fondamentale per l’analisi ecologica della società, cioè The limiths to growth (Donella Meadows, Dennis Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III. La traduzione italiana, I limiti dello sviluppo, è di Mondadori, 1972). L’anno precedente fu pubblicato The closing circle (Barry Commoner. La traduzione italiana, Il cerchio da chiudere, è del 1972, di Virginio Bettini, Garzanti). Nove anni prima, nel 1973, uscì invece Small Is Beautiful: A Study of Economics As If People Mattered (Ernst Schumacher. La traduzione italiana, Piccolo è bello, di Daniele Doglio, è del 1977, Moizzi editore). Bookchin cita, indirettamente e solo con accenni, ognuna di queste opere. Che sono, secondo lui, non solo una visione parziale del problema, ma costituiscono soluzioni non corrette dei problemi del pianeta e della società, sempre all’interno di quello che i filosofi della scienza chiamavano “paradigmi”. Per citare il capitolo X: “In sé, il piccolo non è né bello né brutto; è semplicemente piccolo (…) Alcuni dei sistemi sociali più disumani e centralizzati si sono basati su tecnologie molto piccole”. Oppure: “Il recente interesse per i limiti dello sviluppo e per la tecnologia appropriata è infarcito delle stesse ambiguità che hanno impartito un conflittuale senso di speranza e paura all’alta tecnologia”.
Bookchin è tra i primi a dire che lo schema di dominio, conquista e oppressione che ha innervato le società umane si è ripetuto anche nei confronti della natura, portando alla crisi ecologica.
Insomma, per Bookchin, queste nuove visioni non si distaccano abbastanza da quelle di gerarchia e dominio della società che hanno portato all’emergere dei problemi ecologici, e potrebbero essere appropriate solo se inserite in “strutture sociali emancipatrici e con fini comunitari”. In breve, l’intera rivoluzione ambientale degli anni Sessanta e Settanta è, per l’autore, parziale quando non ingannatrice, e svierebbe l’attenzione dai veri problemi della società umana. Che sono sì di rapporto con la natura, ma non solo. Ancora una volta, il nostro modo di porci verso il resto del pianeta è solo un riflesso del nostro atteggiamento verso il “resto” della specie umana, che non siano i maschi bianchi e potenti. L’impulso al dominio e allo sfruttamento delle risorse, alla cecità verso i necessari limiti che già negli anni Sessanta si profilavano, è un aspetto dell’imposizione di una volontà di appropriazione del potere dei nostri simili.
Il libro di Bookchin ha un carattere quasi messianico e, per usare un termine che lo stesso autore non disdegna, olistico – una visione di unità e di totalità che contribuisce all’opinione non del tutto negativa con cui Bookchin guarda l’ipotesi Gaia. L’ecologia della libertà rifiuta però il profumo mistico e New Age facile, e si presenta come una specie di enciclopedia della natura umana, un’analisi delle dinamiche sociali, una critica feroce dell’approccio puramente tecnologico ai problemi ambientali. Al contrario di molti altri libri scritti in quel periodo, ancora oggi, quarant’anni dopo, l’approccio globale di Bookchin sembra convincente e valido. E dovrebbe suggerire almeno una visione più cauta e meno affrettata alle soluzione dei problemi ecosistemici; problemi che oggi non è davvero più possibile ignorare.