L a dittatura del calcolo è una glossa, una nota a piè di pagina del gigantesco romanzo della rivoluzione digitale che stiamo vivendo in questi anni: una nota matematica, per la precisione. Paolo Zellini è professore di Analisi Numerica all’Università di Roma Tor Vergata, si è distinto in questi decenni per una serie di saggi sul pensiero matematico, guardato però con uno sguardo profondamente umanistico: il più famoso, Breve storia dell’infinito, veniva citato nelle Lezioni americane (1988) di Calvino come il libro italiano “che ho più letto, riletto e meditato”.
Lì Zellini raccontava della famosa invettiva di Borges contro l’infinito “concetto che corrompe e altera tutti gli altri” e proseguiva, per usare ancora le parole di Calvino, “passando in rassegna tutte le argomentazioni sul tema, col risultato di dissolvere e rovesciare l’estensione dell’infinito nella densità dell’infinitesimo”. Dopo quasi quarant’anni, in un certo senso, i temi sono gli stessi. Anche questo libro tratta dell’infinito, ma in un modo diverso: Zellini ci racconta il modo in cui lo abbiamo imbrigliato e addomesticato attraverso il calcolo, cioè gli algoritmi.
L’algoritmo è un processo, qualcosa che vive in uno spazio (di memoria) e in un tempo (di calcolo), quindi qualcosa di ontologicamente diverso dalle espressioni algebriche che la matematica ha sempre conosciuto. L’algoritmo è un’incarnazione, rispetto all’astrattezza dell’algebra: riporta la matematica dall’iperuranio ad un mondo fatto di atomi, tempistiche e limiti. In questo modo, la nascita dell’algoritmo moderno, attraverso l’informatica e un nuovo strumento calcolante – il computer – ci permette di imbrigliare l’infinito, rendendo possibile l’esplorazione e il controllo di una zona franca, “tra il finito e l’infinito”, che matematicamente non era mai stata conosciuta.
Fino al XX secolo infatti, siamo stati schiacciati dall’idea di grandezze imponderabili, come i famosi numeri transfiniti di Cantor (la cui gerarchia Borges amava paragonare alle antiche dinastie della Cina imperiale). Nel Novecento, tramite il lavoro di Turing e Church, prima, e poi di McCulloch e Pitts, l’algoritmo diventa una sorta di ghiandola pineale cartesiana, quel luogo in cui res cogitans e res extensa si incontrano: l’origine del digitale, la scintilla di intelligenza che permette alle macchine di contare. Solo che, al contrario di noi, le macchine sono espandibili: aumentandone memoria e potenza, i calcoli sono sempre più veloci e vertiginosi. E la domanda finale è ancora là fuori: cosa siamo noi umani, se non meravigliosi calcolatori biologici? L’intelligenza può essere ridotta ad un insieme di algoritmi? La creatività e la coscienza umana possono davvero essere rese con un complesso sistema di calcoli? Possiamo davvero creare un’intelligenza artificiale?
Zellini non risponde a questo interrogativo (non può), ma ci mette in guardia che in questo processo stiamo scatenando forze enormi, e “il criterio più diffuso per confrontarci con la macchina non poggia tanto su una presunta idea di coscienza o di libertà” ma “su un’imperiosa categoria di efficienza, a tutto vantaggio della macchina.” Con il pericolo, tutt’altro che improbabile, che “se l’efficienza diventasse realmente l’unico vero scopo, lo stesso pensiero rischierebbe di ridursi, infine, a una funzione puramente ancillare”.
Le preoccupazioni di Zellini hanno una lunga tradizione. Nel XX secolo, Norbert Wiener, padre della cibernetica, ha allo stesso tempo dato l’avvio alla rivoluzione dell’automazione e lavorato alacremente per mettere in guardia con le conseguenze indirette che avrebbe generato. Wiener, uomo di grande cultura anche umanistica, sapeva bene che quella che stavamo evocando era una forza “magica”, che avrebbe potuto sfuggirci di mano.
Si può essere tentati dall’idea di una cieca subordinazione alla forza persuasiva di un calcolo eseguito dalla macchina. Una tentazione non diversa da quella della magia, i cui strumenti hanno la tendenza a prendere ogni cosa alla lettera: se chiediamo alla magia di esaudire un desiderio, non c’è nessuna garanzia che i nostri desideri più profondi siano rispettati; potremmo non ottenere ciò che davvero vogliamo, ma solo ciò che abbiamo chiesto.
Nella storia della tecnologia, gli archetipi si sprecano: Prometeo, Frankestein, il Golem dei ghetti ebraici. Quest’ultimo è forse il più adatto: e l’algoritmo è la parola magica con cui l’abbiamo svegliato. La leggenda ebraica narra che il gigante d’argilla potesse essere animato scrivendo sulla sua fronte la parola תמא, emet, cioè “verità”: in quel momento, diveniva un cieco servo, utile per i lavori più pesanti e per proteggere gli ebrei dai pogrom.
Per riaddormentarlo, bastava cancellare l’aleph iniziale (א), trasformando emet in met, “morto”. Ironicamente, l’aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, è anche il nome che Cantor diede ai suoi numeri transfiniti: noi l’abbiamo cancellata, ma il Golem non si è mai più riaddormentato. Da esperto di analisi numerica, ma anche da studioso del pensiero antico, Zellini mette in connessione idee lontane, riesce a guardare alle idee matematiche insieme da vicino e da lontanissimo, riprendendo pensatori antichi come Pitagora o Aristotele, arrivando ai moderni Turing e Von Neumann, passando per Cartesio e Leibniz. Questo è il senso profondo del libro: gli algoritmi sono dappertutto, la loro è un’egemonia silenziosa.
La loro costruzione e decennale ottimizzazione ha permesso la nascita del moderno. Filosoficamente, sono una rimozione dell’infinito attuale di Aristotele, una rimozione di Dio: allo stesso tempo, sono uno strumento di estensione del dominio della tecnica. Il loro è un regno fatto di efficienza e velocità, in cui ciò che è umano rischia di scomparire. Senza capirne la storia e l’origine, non possiamo capirne la portata e i limiti. Siamo apprendisti stregoni, che giocano con qualcosa che non comprendono appieno.