K lara, la figlia dello scoltetto (il sindaco), viene ritrovata riversa nella neve: le impronte dei piedi suggeriscono che si sia avventurata fuori dalla villa con una scarpa sola… L’architetto dovrà seppellire le sue porcellane Meissen sotto un abete nano: ai soldati, che verranno a requisire la villa che lui stesso aveva progettato, lascia la chiave nella toppa perché non abbattano la porta di ingresso. Prima di andare via, si concede un’ultima nuotata nel lago… A Ludwig, il produttore di tessuti, piace stare sdraiato sotto gli eucalipti, nonostante sia pericoloso: ha riunito qui tutta la sua famiglia, nell’attesa che arrivino i visti per scappare dalla Germania nazista. Sua nipote non sopravviverà alla guerra, morirà all’arrivo al campo di concentramento.
La verità è che nessuno sopravvive mai e che ognuno è soltanto un ospite, di passaggio su questa terra.
Si chiama così, Di passaggio, il romanzo che la grande scrittrice tedesca Jenny Erpenbeck scrive sulle vicende di una tenuta nel Brandeburgo, attraversata dagli stravolgimenti del Ventesimo secolo – un carotaggio minerario della storia recente di uno spazio, raccontato attraverso i proprietari, gli inquilini e gli ospiti. Undici capitoli per undici vite: a osservarle, immobile, c’è solo il giardiniere, un testimone silenzioso che, in base alle stagioni, taglia gli alberi, esegue gli innesti, aiuta i contadini a legare i covoni di grano, ma non ha di suo “neanche un appezzamento di terra o una parcella di bosco, vive da solo in un capanno di caccia abbandonato sul limitare della foresta” e tutti lo chiamano da sempre “solo il Giardiniere, come se non avesse altro nome.”
Pubblicato in Italia da Zandonai nel 2012 e in seguito riproposto da Sellerio, Di passaggio è un libro incantevole e raffinato, capace di contenere la storia di una nazione in un giro di frase: le parole sembrano appoggiarsi sulle persone e sulle cose, quasi fossero l’ultima difesa contro le offese del tempo, contro la violenza degli eventi.
Adesso finalmente la morte è stata sgominata, anche la giovinezza e la vecchiaia, ciò che è stato e ciò che dovrebbe accadere, lo si può dimenticare senza rimpianto, adesso non esiste più nulla, nulla, nulla, solo un respiro stanco che passa da una bocca all’altra, un residuo di qualcosa.
Questo passaggio si trova nel dittico migliore del libro, dedicato all’incontro tra la moglie dell’architetto e il soldato dell’Armata Rossa che si insedia nella villa, un dittico che mette sulla scena l’urlo di tenerezza di un ragazzino mandato a combattere troppo giovane e una donna che vuole solo avere salva la vita. Erpenbeck ce lo racconta a tempi invertiti, prima il ricordo, poi l’evento, prima la sopravvivenza e poi il trauma, come se il tempo fosse una scarica elettrica che ci percorre a intervalli imprecisi, invece che una linea retta: “oggi può essere oggi, ma anche ieri o vent’anni fa, e la sua risata è la sua risata di oggi, di ieri ed esattamente la risata di vent’anni fa, le sembra che il tempo sia a sua disposizione come una casa, nella quale poter entrare ora nell’una, ora nell’altra stanza”.
Forse è perché la tenuta si affaccia su un lago che a me le parole di Erpenbeck sembrano pronunciate sott’acqua, come per far meno rumore, perché la violenza sia meno feroce, perché è come se i suoi personaggi nuotassero, rapidi e fluidi sulla superficie, noncuranti dei corpi pesanti che li trascinano a fondo. È come se Erpenbeck si muovesse nel tempo, adesso avanti, adesso indietro, nello stesso modo in cui ci allontaniamo e torniamo a riva, al salvo.
Di passaggio, racconta la bandella, “è un’opera fondata su una minuziosa ricerca negli archivi”, ma non mi chiedo mai se le storie di “questa severa epopea antieroica di una piccola ‘patria’ tedesca trascinata dal variare delle epoche” rispondano ai criteri di verità o di verosimiglianza, perché ciò che Erpenbeck tira fuori da questi bozzetti ha a che fare con qualcosa di più ampio della singola vita, della singola storia, della singola epoca.
Non vuole pensare alla parola, la parola con la quale lui la chiamò, quella parola impensabile con cui lui aprì per l’eternità uno squarcio nella sua eternità.
Pensando a questo romanzo, mi è tornata in mente Here (in Italia è uscita con Rizzoli Lizard, Qui), la graphic novel di Richard McGuire. Pubblicata originariamente nel 1989 su Raw, la rivista di fumetto di Art Spiegelman e Françoise Mouly, come una storia di sei pagine, Here raccontava un angolo del soggiorno della casa dove era nato l’autore, a Perth Amboy, New Jersey, attraverso il tempo. Quelle di McGuire, infatti, erano delle straordinarie tavole sinottiche, che sfruttavano la pagina per trasformare il tempo in finestre sul passato, presente e futuro, delle sorte di pop up sull’esistente. Venticinque anni dopo, nel 2014, McGuire ne ha tratto un libro di più di trecento pagine, in cui estende il racconto dai tre miliardi di anni fa al futuribile 22175. Un’operazione straordinaria, come la definisce Chris Ware, recensendo queste storie che si sovrappongono l’una sull’altra, tra nascite, morti, piccole ere glaciali, deforestazioni, pittori che si sdraiano sull’erba e interni piccolo borghesi.
Scrive poi Ware che, nel leggerlo, era come se passato e futuro si espandessero all’infinito davanti e dietro a lui: infinita esplorazione del tempo, quella graphic novel diventa un’indagine sulla stratificazione biologica degli spazi, una ricerca – impossibile – di quello che resta, mentre tutto cambia (un altro progetto simile, forse meno riuscito, è Tutto il nostro sangue di Sarah Taylor, pubblicato qualche anno fa da minimum fax e ambientato sulle isole Shore della Virginia tra il 1855 e il 2143).
Messi accanto, i libri di McGuire e Erpenbeck sembrano voler raccontare la storia umana come storia naturale, dire insieme, cioè, due grandezze incomparabili (tutto il tempo che è esistito con tutto il tempo in cui siamo esistiti), provando a farlo attraverso delle storie personali, minute, che sembrano così fragili, sempre sul punto di annegare in questo oceano temporale.
Non sono libri che si possano dire ottimisti o pessimisti, perché la storia è una linea solo se pensiamo che abbia un inizio, che prosegua in qualche modo da un punto in avanti: a leggerli mi sembra di cogliere la stessa malinconia, che è quella che le nostre vite, il nostro passato e futuro sono sempre finiti, che se ci estingueremo – e ci estingueremo – questo non significherà nulla, non per la Terra, non per noi che non saremo qui a raccontarlo.
John Berger scriveva che “nelle stazioni ferroviarie l’impersonale e l’intimo coesistono” nel tentativo di spiegare la nostra fascinazione per questi luoghi di passaggio, ma visto da qui, questo incrocio di personale e assoluto vale anche per le case in cui viviamo, le città presenti, le nazioni che ci sembrano immense, vale anche per ogni cosa, quando iniziamo a guardare la storia come storia non solo dell’umanità, ma storia naturale. Per questo l’architetto di Jenny Erpenbeck “aveva lavorato tutta la vita per trasformare il denaro in qualcosa di reale”, perché “costruire è attaccare la propria vita alla terra. Dare un corpo all’atto del risiede è la sua professione. Creare uno spazio interiore. Là dove non c’è nulla, scavare sempre più in profondità”. In un certo senso, quella casa è come questo libro, un modo per attaccare la vita alla terra.
Nel prologo di Di passaggio, Jenny Erpenbeck racconta ventiquattromila anni di storia naturale di una regione in un battito di ciglia: “l’immensa pressione esercitata dal ghiaccio aveva spezzato e triturato i tronchi gelati delle querce, degli ontani e dei pini”, poi un giorno di tredicimila anni fa il ghiacciaio aveva iniziato a sciogliersi, a evaporare e a ripiombare sulla terra come acqua, formando un lago. Gli esseri umani gli avrebbero dato un nome, Mare della Marca, “ma un giorno finirà per sparire, perché come ogni lago anche questo era qualcosa di puramente transitorio”. Voltando pagina troviamo la storia del giardiniere e poi la storia di tutti gli altri, di noi e poi il silenzio delle case abbandonate, delle demolizioni e del nulla.
In attesa che nello stesso posto venga costruita una nuova casa, il paesaggio torna per qualche tempo al suo aspetto originario.