O gni settimana, per vent’anni, Edgar Degas mangiava a casa degli amici Halévy-Breguet, a Montmartre. A quel tavolo, insieme a compositori, pittori, scrittori, sedeva anche il figlio dei padroni di casa, Daniel, che ammaliato dallo straordinario ospite annotava le sue battute e i suoi gesti su un diario: “Venerdì 26 ottobre 1888 – È venuto a pranzo M. Degas. E ogni pranzo con lui è per me la più pura delizia che si possa immaginare. Ai miei occhi Degas è l’incarnazione stessa dell’intelligenza”.
Quel diario sarebbe stato pubblicato settant’anni dopo, nel 1960, con il titolo Degas parla. Il testo curato dallo stesso Daniel, però, presentava sviste cronologiche e refusi. L’edizione che possiamo leggere oggi, stampata da Adelphi (a cura di Jean-Pierre Halévy, traduzione di Tommaso Pezzato, 2018), ha rimesso tutto in ordine e ha arricchito il diario con un saggio di Halévy pubblicato negli anni ‘50, le bozze di un romanzo con Degas tra i protagonisti, un assaggio della lunga corrispondenza tra Daniel e il pittore Józef Czapski e i sonetti che Edgar amava declamare agli amici durante le cene.
Quando l’adolescente Daniel cominciava il suo diario, nel 1888, Degas era già un ricordo. “Per lui non esisteva più ciò che chiamiamo felicità”. La malattia agli occhi che l’avrebbe portato a una quasi completa cecità, la rabbia verso l’École des Beaux-Arts e i Salons, le polemiche con gli impressionisti, l’odio verso i critici e i “letterastri”, la lettura di Drumont e le posizioni antisemite sull’affaire Dreyfus sarebbero state le tappe del suo tramonto. L’Omero di Ingres stava diventando un Re Lear che “camminava portando il lutto per la pittura perduta per sempre”.
Il Degas raccontato in maniera quasi telegrafica nel diario di Halévy era quello costretto ad abbandonare la pittura e che occupava le sue giornate, via via, con ossessioni passeggere. Prima fra tutte, la creazione di bastoni da passeggio, che scolpiva nel legno che gli portava un amico della Martinica. Insieme alle pelli di serpenti. Poi era arrivata la passione per la poesia, in particolare per i sonetti, che Degas “componeva in uno stato di esaltazione”. Otto sonetti forse troppo concettosi che gli erano costati il rimprovero di Mallarmé: “Non è con i pensieri che si fanno i versi, ma con le parole”. Per un breve tempo era ritornato alla pittura, non di ballerine e fantini, ma di paesaggi. Infine, sempre inquieto, si era dilettato con la macchina fotografica.
Ormai i parigini avevano fatto l’abitudine a quel vegliardo ricurvo, con indosso un mantello macfarlane, che camminava infaticabilmente tastando il suolo con il bastone.
Nel momento in cui Daniel lo aveva incontrato, Degas portava ancora con sé il riflesso di quel fascino da Secondo Impero “che prima di essere un disastro fu una meraviglia, splendore e gloria”. Era quello il periodo in cui Degas era diventato un frequentatore della casa di Louise Breguet, la futura madre di Daniel. I Breguet-Niaudet erano stati i primi, poi c’erano stati i Valpinçon, i Morisot, i Rouart, e infine gli Halévy, ad adottare quell’uomo solitario, intransigente e irascibile che era diventato Degas negli ultimi anni. Dopo la morte del pittore, Daniel, ragionando sui motivi di quelle assidue frequentazioni a casa Halévy, avrebbe parlato di Louise e Edgar come dei “soli sopravvissuti di quell’epoca felice di casa Breguet”.
Nonostante le asprezze, il Degas che ci restituiscono le pagine di Daniel è “impetuoso, mai amaro, anzi non di rado allegro, ma di un’allegria agrodolce, come la comicità di Molière”. Dopo pranzo, Daniel gli leggeva alcune novelle da Le mille e una notte, uno dei pochissimi libri della sua biblioteca personale, insieme ai feuilleton di Alexandre Dumas padre. E Degas per ringraziarlo, nonostante la vista affaticata, disegnava per quel ragazzo gentile la copertina del suo giornalino scolastico. Così Daniel ricorda quel momento “crudele”:
Il volto di Degas aveva assunto un’espressione serissima. Schermandosi gli occhi con una mano, fissò sul foglio dei punti di riferimento e tracciò poi qualche linea, da cui emerse la figura di una ballerina in piedi, una mano sul fianco, pronta a balzare in scena. Gli ci vollero parecchi minuti, e lo sforzo era evidente; poi finalmente si fermò, appose la firma, si passò una mano sulla fronte corrugata e con l’altra mi porse il foglio. ‘Ecco la tua ballerina’ mi disse. Presi il disegno, ma non a quello pensavo, bensì al lavoro di cui ero appena stato al contempo causa e spettatore: tanta fatica, pensai, per un disegno fatto apposta per me! Ne rimasi colpito, e a ragione: avevo appena assistito all’inizio di una delle prove più crudeli della storia dell’arte.
Il fascino che Degas esercita su Daniel è inesauribile “A quindici anni avevo un’idea precisa di cosa fosse la grandezza e la dovevo interamente a lui”. Una malìa che resisteva anche al veleno della questione Dreyfus. “L’argomento era proibito perché papà è molto nervoso e Degas molto antisemita”. Con gli Halévy i rapporti erano terminati proprio su quelle divergenze, e Daniel era rimasto l’unico a difenderlo: “Non si può giudicare un uomo sulla base di una semplice opinione”. Eppure anche per Daniel le tirate di Degas, frutto della lettura quotidiana de “La Libre Parole”, avevano sortito qualche effetto. “Distrutti i miei ricordi”, appuntava: “minacciate le mie più belle speranze per il futuro”.
L’8 maggio era morto Ludovic Halévy e Degas era andato a portargli l’ultimo saluto. “Mio padre è al piano di sopra. Saliamo nella stanza in cui riposa la salma, immersa nella penombra. Degas, con voce forte e autoritaria, comanda: ‘Luce, luce completa!’. Chiamo Francine, che spalanca le tende. Allora Degas si china sul corpo di mio padre e scruta il volto da vicino. Alla fine si rialza e si gira verso di me: ‘È proprio l’Halévy che conoscevamo, con in più quella grandezza che conferisce la morte. Va preservata’. Ci lascia. Va preservata. Queste parole mi hanno colpito”.
Le pagine che seguono, il preludio della morte di Edgar, sono le più alte di tutto il diario. Tratteggiano un Degas stanco, rassegnato, affabile e lontano. “Un Omero dalle pupille vuote”.
Il racconto di Daniel non si ferma al 27 settembre del 1917, ma prosegue oltre il funerale del pittore. Dopo il corpo di Degas nel catafalco, Halévy osserva le sue opere, rinvenute nell’atelier. Nudi “degradanti e rovinosi”, che Daniel non riesce a cogliere nella loro grandezza e innovazione. Lui, così legato al Degas dei temi storici, delle Giovani spartane.
Abbiamo contemplato quelle pareti coperte di quadri potenti, ma orribili, di un orrore che ci colpiva profondamente proprio perché eravamo soggiogati dall’energia del tratto e dalla bellezza dei toni. Cento, duecento nudi spudorati, ecco cosa ci avete svelato.
Quello che Daniel definiva “l’inferno di Degas” era il paradiso dei Toulouse-Lautrec, dei Vuillard, dei Bonnard. Degas avrebbe comunque rispettato il giudizio del suo amico, Daniel ne era certo. Gli aveva sentito dire un giorno: “Finché sono vivo che mi lascino tranquillo. Quando sarò morto, diranno tutto quello vorranno”.