R accontare le microfratture che attraversano la memoria delle persone e contemporaneamente spostarle da uno spazio intimo e privato ad uno più ampio, sociale e relazionale. Trasformare insomma una ipersensibilità quasi patologica in una forma di racconto condiviso e comune. Fin dai suoi primi libri, da Gli effetti secondari dei sogni fino al successo internazionale di Niente si oppone alla notte, Delphine de Vigan ha saputo trasformare un dolore personale – spesso autobiografico – in una forma di racconto condiviso e che al tempo stesso nulla cede alla cronaca o alla fredda denuncia sociale. L’autrice francese per certi versi si allinea sì ad un canone – soprattutto in Francia – molto diffuso e di moda, scegliendo però una strada di volta in volta autonoma, sia nella linearità della sua scrittura priva di virtuosismi, sia nella capacità di affrontare temi spesso duri se non feroci.
Con Le fedeltà invisibili (Einaudi, Traduzione di Margherita Botto), de Vigan fa un passo ulteriore comprendendo all’interno della sua narrazione i personaggi e gli stilemi narrativi tipici di tutta la sua produzione; non a caso la fedeltà e le ambiguità conseguenti fatte di opacità e invisibilità divengono il vero terreno di confronto tra il mondo adulto e quello dell’infanzia. Due i protagonisti principali: Hélene, una giovane insegnante segnata da un’infanzia di molestie e soprusi familiari, e il giovane Theo, l’allievo. Taciturno e ombroso, Theo vive proteggendosi dagli adulti e dai loro conflitti – come quello dei genitori che separati lo rimbalzano da un appartamento all’altro, congiunzione rabbiosa di un amore passato e ormai ridotto in brandelli.
Le fedeltà invisibili si pone dunque come il romanzo più maturo della scrittrice francese, in quanto punto di equilibrio tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti: qui i temi forti di de Vigan non sono esplicitati, ma stanno tutti in quello spazio di invisibilità che possono renderli pagina dopo pagina evidenti, sempre più spaventosi per il mistero di cui si fanno carico. Anoressia, molestie, violenza, disamore, mobbing sono tutti elementi che appaiono e scompaiono all’interno della narrazione, come forma di opaca memoria di un passato sempre troppo poco chiaro per essere risolto, e come opaca minaccia.
Ieri pomeriggio, quando ho visto Théo entrare in classe, proprio dietro Mathis, ho avuto un tuffo al cuore. Ho rimpianto di essermi arresa. Mi è subito sembrato strano, instabile, camminava con cautela, come se il pavimento rischiasse di sprofondargli sotto i piedi a ogni passo.
La stranezza è probabilmente il collante delle ansie che attraversano il romanzo, la stranezza come potenziale elemento non di distinzione, ma di esclusione, ed è partendo da qui che Hélene insegue Theo nel disperato e fallimentare tentativo di proteggerlo. Lo sviluppo narrativo del romanzo è un continuo zoppicare attorno al pericolo, costruito come fossero quattro voci, quella di Helene l’insegnante, quella di Theo e del suo amico Mathis, e infine quella di Cécile – ossia della madre angosciata e a tratti paranoica di Mathis. Le quattro voci tendono dei fili attorno alla vicenda, come fossero dei confini oltre i quali il pericolo si palesa sfuggendo però alla necessità della narrazione: le prime sbornie adolescenziali, l’angosciante tenebra depressiva dentro alla quale vive il padre di Theo, così come l’afasia di Cécile quasi rinchiusasi in un mondo di desideri ingannati. E infine Hélene che tenta di salvare Theo mettendo in pericolo se stessa e il proprio ruolo di insegnante, sapendo comunque che quel pericolo è il passaggio necessario anche per la sua salvezza.
Mathis sa quanto gli altri siano impressionati dal silenzio di Théo. Femmine e maschi. Théo parla poco, ma non è uno che lascia correre. Lo temono. Lo rispettano. Non ha mai dovuto fare a pugni, e nemmeno minacciare. Dentro di lui ruggisce qualcosa che scoraggia aggressioni e commenti.
Delphine de Vigan illumina ogni sequenza come fosse un quadro, una narrazione circoscritta che come capita spesso attorno agli adolescenti vive di repentini momenti di drammaticità come di buffe soluzioni, quasi comiche. Il tono del romanzo è infatti leggero a tratti dolente, ma non perde mai di vista il centro, ossia l’affetto per una forma di fragilità che se per Théo e anche Mathis è contemporanea, per Hélene e Cécile sale dalla memoria, un intreccio che restituisce alla paura lo spazio necessario di una consolazione, di una rinfrancante rassicurazione.
L’autrice lavora su due piani, uno strettamente narrativo, l’altro di struttura, rivelando così come anche sull’orlo di una tragedia quell’affetto che pareva esile e rarefatto possa dimostrasi capace di fiducia – e addirittura di fedeltà. De Vigan prima rivela con razionalità lo stato delle cose senza moralismi, ma – ed è qui forse il passo che rende Le fedeltà invisibili totalmente compiuto –, è poi capace anche di metterne in luce la parte oscura – che si rivela essere la migliore –, quella di un amore disinteressato e liberatorio.
Un romanzo su un incontro che non si realizza mai pienamente così come è filtrato dalla differenza di età e di ruolo, ma che a fronte delle fragilità relazionali dei protagonisti diviene un elemento necessario, e lo diviene partendo da quello che moralisticamente viene definita un’infedeltà. Hélène interviene oltre il suo ruolo di insegnante tentando di dare forma e peso a quelle che sono solo delle impressioni; così come i tradimenti della memoria di Cécile e i tradimenti di Théo e Mathis realizzano una forma di appartenenza obbligatoria che, se da un lato mette a dura prova l’etica di una società che si pretende trasparente e solidale, dall’altro restituisce il senso di un’esclusione, di una solidarietà che solo i reduci sanno riconoscere.