I nsieme a molte riconfigurazioni del quotidiano di cui abbiamo fatto esperienza in tempo di Covid-19, lo smart working (o “lavoro agile”) è una delle più significative anche solo perché ha riguardato non poche persone. A oltre un anno dall’inizio della pandemia, infatti, in Italia si contano ancora 5,4 milioni di lavoratori da remoto (oltre 7 milioni se si considerano anche gli autonomi, ma qui vale la pena fare un discorso a parte) rispetto ai 500 000 dell’era pre-Covid e agli 8 milioni di marzo 2020.
Il pamphlet di Savino Balzano, Contro lo smart working, ha il merito di raccogliere una sfida non facile, ovvero individuare le traiettorie di questo fenomeno (relativamente) nuovo e provare a tracciarne gli scenari futuri. In questo senso, il titolo non lascia spazio a dubbi: nell’opinione dell’autore, il lavoro a distanza rappresenta una modalità lavorativa che “esacerberà storture già esistenti”, e in questo senso l’orizzonte prospettato è piuttosto funereo.
Andiamo con ordine: prima di tutto bisogna notare il gap tra il concetto di “smart working” e la sua applicazione emergenziale nei primi mesi della pandemia. Se, infatti, con “lavoro agile” si intende la possibilità di lavorare da remoto in qualsiasi luogo, senza dover indicare un posto fisso e senza vincolo di orario nine-to-five, è altresì vero che nell’anno passato lavoratori e lavoratrici non hanno vissuto un vero e proprio smart working. A detta di gran parte della comunità scientifica e dell’opinione pubblica, sarebbe preferibile parlare di “home working” o “emergency working”, perché è venuta a mancare l’attuazione della legge 81/2017, che descrive lo smart working come istituto lavorativo senza vincoli spazio-temporali e organizzato per fasi, cicli e obiettivi. La distanza tra la formalità della norma e la sua applicazione non può però far dimenticare che questo strumento ha contribuito alla salvaguardia di alcuni posti di lavoro e ha consentito a molte aziende di mantenere attiva la produzione anche nei mesi più drammatici. E quello messo in atto durante la pandemia non è nemmeno “telelavoro”, un istituto in vigore dal 2004 e ben più rigido dello smart working, ma caratterizzato da maggiori tutele per il lavoratore (ad esempio in materia di salute e sicurezza).
Balzano compie un utile lavoro di scavo, che arricchisce il testo di una prospettiva storica sui rischi striscianti connessi allo smart working: dal pacchetto Treu alla legge Biagi per arrivare al Jobs Act renziano, il lavoro agile sembrerebbe iscriversi nel disegno di flessibilizzazione (che fa perfettamente rima con “precarizzazione”) che vessa da anni il nostro mercato del lavoro. Come giuste sono le preoccupazioni sull’indirizzo da dare allo smart working, il quale “[…] se non verrà governato a dovere dalla politica, sarà il cavallo di Troia nella cittadella del lavoro” perché è innegabile che tanto le istituzioni quanto i privati si stanno adoperando per una comunicazione eccessivamente semplificata e aproblematica del fenomeno. Però, d’altra parte, la soluzione è buttare via il bambino insieme all’acqua sporca?
Balzano compie un utile lavoro di scavo, che arricchisce il testo di una prospettiva storica sui rischi striscianti connessi allo smart working.
Dalla sua prospettiva di sindacalista, secondo Balzano la matassa più grande da sbrogliare è quella riferita alle possibile sindacalizzazione di lavoratori e lavoratrici in un mondo che ha digerito e assimilato lo smart working: venendo a mancare il luogo fisico di lavoro, dove potranno incontrarsi queste persone per socializzare e mettere in comune le istanze? Quali saranno i momenti giusti per far scaturire il momento di coscienza collettiva?
Per la sua forma di pamphlet, il libro di Balzano rappresenta un ottimo grimaldello con cui scassinare la rassicurante narrazione dello smart working come soluzione univoca e panacea “al ribasso” di tutti i mali, come per esempio la complessa questione di città che magicamente diventano più green grazie al minor traffico dei pendolari. Allo stesso tempo, però, si nota l’assenza di alcune “messe a terra” necessarie per ancorare più saldamente la discussione del fenomeno alla realtà sociale che viviamo tutti i giorni. Ad esempio, è palese la mancanza di un pensiero organico sulla perniciosa questione abitativa: come rileva l’autore, è vero che lo smart working, relegandoci dentro casa, aumenta le esistenti situazioni di diseguaglianza perché “Purtroppo non tutti viviamo in belle case spaziose, ben illuminate e silenziose, dove poter lavorare in armonia”. E tuttavia la questione abitativa non può limitarsi a questa considerazione: bisognerebbe domandarsi non solo in quali case si vive, ma anche in quali città e per quali motivi.
Affrontare il tema del lavoro agile senza fare cenno alla questione del costo della vita e dei canoni di affitto nelle città italiane del Nord, dove sappiamo che si concentra maggiormente l’offerta di lavoro e dove è stato massiccio il ricorso al lavoro agile o, per dirla con una battuta, parlare di smart working senza parlare (almeno) di Milano appare un esercizio un po’ sterile. Perché, per quanto emergenziale possa essere stato e sia ancora, lo smart working per molti e molte ha significato (ri)trovare una dimensione esistenziale più sostenibile, magari tornando nei propri luoghi vicino ad affetti e amici, in contesti urbani meno congestionati e dove il costo della vita è più basso, tant’è che si è cominciato persino a parlare di “south working”. Un’indagine sullo smart working promossa dalla CGIL insieme alla Fondazione Di Vittorio, che ha coinvolto più di 6000 tra lavoratori e lavoratrici, vede il 94% dei rispondenti confermare che lo smart working fa risparmiare i tempi di pendolarismo, consente flessibilità e lavoro per obiettivi, permette un miglior bilanciamento dei tempi di lavoro e di vita e quindi di organizzarsi meglio.
Eppure per Balzano i lavoratori oggi sono in preda a un auto-inganno, e sebbene “tenderanno (già lo stanno facendo) ad apprezzare i vantaggi e le comodità del lavoro agile”, non si rendono conto di quanti problemi emergeranno dopo l’iniziale sbornia. In realtà, nessuno risponde con un semplice “sì” o “no” se interrogati sul continuare o meno l’esperienza di smart working. Tutt’al più si risponde con un “se”: perché tanto le potenzialità quanto i rischi sono più visibili di quanto non si creda.
Una seconda criticità del testo riguarda la possibilità delle rivendicazioni da parte della forza-lavoro: come già menzionato, venendo a mancare il luogo lavorativo comune, quali saranno le sedi per favorire la messa in comune delle istanze?
Si nota l’assenza di alcune “messe a terra” necessarie per ancorare più saldamente la discussione del fenomeno alla realtà sociale che viviamo tutti i giorni.
In questo senso, sarebbe importante riconoscere che alcune delle rivendicazioni più significative e innovative degli ultimi anni vengono proprio dai lavoratori e dalle lavoratrici che per definizione non condividono un luogo fisico: il caso più eclatante e noto quello delle lotte dei rider, simbolo supremo di mobilità e impermanenza. Ma non solo i rider hanno saputo, nella distanza, trovare una vicinanza, fare coalizione e avanzare uniti: basti pensare all’esperienza di Tech Workers Coalition Italia, realtà che sta spingendo perché migliorino trasversalmente le condizioni dei lavoratori del settore tecnologico. Come trasversale e orizzontale è l’azione di Acta, l’associazione dei freelance, che dal 2004 fa rete, ricerca e coalizione tra lavoratori e lavoratrici con partita IVA, gli autonomi che lavorano da remoto e in solitaria da molto prima della pandemia.
Cosa ci insegnano queste esperienze di organizzazione e auto-rappresentanza sulla possibilità di azione collettiva di lavoratori e lavoratrici che, a fronte di un lavoro fattosi smart, potrebbero ritrovarsi senza uno spazio comune? Ci dicono che anche da lontano si può lottare, e che forse i toni apocalittici utilizzati dall’autore (“[…] sarà l’esaltazione dell’individualismo, della solitudine”) servono a rafforzare la retorica del testo ma di certo non aiutano l’analisi del fenomeno.
In ultimo è perlomeno un po’ bizzarro il fatto che tra le pagine non venga mai affrontato il tema del divario di genere. Perché, se è vero che lo smart working può aiutare a conciliare i tempi di lavoro e di vita, è anche vero che se la suddivisione del lavoro domestico e di cura non è equilibrata, le donne rischiano di vedere moltiplicati i propri svantaggi e il proprio carico domestico, perpetuando i paradigmi passatisti che con difficoltà stiamo cercando di superare. Secondo molte delle rilevazioni effettuate da vari enti ed istituti di ricerca – non da ultimo l’INPS –, in percentuale le donne sembrano apprezzare meno lo smart working rispetto agli uomini. E questo dato, purtroppo, non stupisce: se la divisione dei ruoli all’interno delle famiglie rimane di stampo tradizionale, sono (e saranno) le donne a sopportare il peso maggiore del lavoro da casa.
L’augurio è che il provocatorio pamphlet di Balzano, al netto delle mancate “messe a terra”, dia il via a un dibattito profondo ed eterogeneo sullo smart working all’interno di una società come la nostra, interessata da continui e controversi cambiamenti del mondo del lavoro.